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Storia del Cinema

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DOMINION: PREQUEL TO THE EXORCIST di Paul Schrader (2004) – Seconda parte

Io sono la perfezione!

 

Dominion: prequel to the exorcist è costruito attorno alla dicotomia tra alto e basso, e nel confronto opponente tra spiritualità e paganesimo: cristiani e turkana, chiesa e tempio, San Michele e il diavolo, il tutto sintetizzato nella statua anteposta alla chiesa in cui San Michele schiaccia un diavolo reale condannandolo all’inferno. Proprio l’ubicazione fisica della chiesa dissepolta, costruita su un tempio pagano, dedicato a un demone a cui venivano offerti sacrifici umani, proviene dal racconto dell’apocalisse di San Giovanni in cui si narra della battaglia degli angeli (anche illustrata negli affreschi e nei mosaici interni alla chiesa) e che costituisce, l’impalcatura religiosa del film, fissata nei due estremi opponenti entrambi di natura umana e “divina”, San Michele/Padre Merrin e Satana/Cheche. “Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo è satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra, e con lui furono precipitati anche i suoi angeli”. (Ap. 12, 7-10). Il dualismo onnipresente nel film, si manifesta anche attraverso il rapporto tra Padre Francis e i Turkana. Quando, guidati da Chuma, l’esponente del Vaticano e Lankaster Merrin si dirigono verso il sito archeologico, essi assistono alla cattura di un animale necessario per un sacrificio. Interpellato da Padre Francis, Chuma afferma: “E’ un sacrificio, le persone lo fanno nella speranza che possa dare protezione. È una cosa necessaria”. (Il riferimento è all’imminente parto di Sebituana), ma Padre Francis ribatte: “La crudeltà non è una cosa necessaria”. Chuma stizzito chiede: “Pensi che siamo dei selvaggi?”, e il prete risponde: “Io credo che alcuni di voi sono brave persone…perse nella confusione”. Siamo nel 1947, ma le affermazioni di Padre Francis, per Schrader sono attuali tuttora. Il regista infatti, sembra voler denunciare l’ipocrisia e la monoliticità di un mondo cristiano incapace di comprendere le differenze.

DOMINION: PREQUEL TO THE EXORCIST di Paul Schrader (2004) – Prima parte

Il Male dell’uomo

 

Dominion: prequel to the exorcist (2004) è il film “cancellato” di Paul Schrader. Il film che la Warner Bros ha voluto interamente rifatto da Renny Harlin, per aumentare il tasso orrorifico e splatter e per adeguarlo all’immaginario del pubblico: quello secondo cui la posseduta è donna, bestemmia, vomita verde e disarticola il proprio corpo. In principio, il copione è affidato a Paul Schrader, regista calvinista e di acuta sensibilità religiosa, che ha guidato il film per un terzo del tragitto, ereditandolo da John Frankenheimer, tragicamente scomparso. Dopo accese discussioni con la produzione, in merito ai contenuti e al montaggio, protrattesi per un anno, il cineasta viene sollevato dall’incarico, la sceneggiatura di William Wisher e Caleb Carr, riscritta da Alexi Hawley e la regia affidata a Renny Harlin (Cliffhanger, Driven…). Exorcist: the beginning (questo il titolo del film di Harlin) viene realizzato in tempi record, con gran parte della stessa troupe, tra cui il direttore della fotografia Vittorio Storaro e con il medesimo protagonista, Stellan Skarsgard. Il film di Harlin incontra uno scarso interesse sia di critica che di pubblico, così la Morgan Creek Production concede (nuovamente) circa $ 35.000 a Paul Schrader per terminare la sua versione e garantisce alla Warner Bros la possibilità di rilasciare la versione di Schrader con il titolo Dominion: Prequel to the exorcist. Quello di Schrader è (quasi) un film fantasma (in Italia non se ne ha traccia, né di uscita nei cinema né in home-video, la versione tedesca in dvd è l’unica disponibile, ad ora, sul mercato europeo), diventato tale a causa della regia di un autore che non ha né voluto, né saputo, piegarsi ad esigenze commerciali, ma che ha affrontato il tema della possessione da credente e calvinista (quale egli è), cogliendo l’opportunità per riflettere tanto sul “libero arbitrio”, quanto sull’ambivalenza “laica” della natura umana, continuando la sua ricerca nel solco degli autori che l’hanno preceduto (con esiti alterni) a dirigere gli episodi della saga demoniaco-filosofica.

BUG di WILLIAM FRIEDKIN (2006)

Lo sguardo onnipotente dell’incertezza

 

Presentato a Cannes ’59, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, Bug di William Friedkin, è un lungometraggio livido e per nulla conciliatorio, che innesta un vortice delirante di paranoia patologica che trascina con sé persone, ambienti e psiche, impedendo di rintracciare coordinate chiare e percepibili, e facendo, ancora una volta, dell’ambiguità, l’unica chiave di lettura possibile. Un film che si confronta con l’orrore e la deviazione che possono insinuarsi in menti umane isolate dal mondo (nel film non compare alcun segno della tecnologia corrente; niente cellulari, solo un vecchio telefono di bachelite che squilla in continuazione) e costrette ad una condizione di vita disagiata. Bug è interamente circoscritto intorno all’unità di luogo, la stanza del Rustic Motel in Oklahoma; scelta che permette al regista di lasciare intatto fino alla fine l’interrogativo se le visioni (?) dei protagonisti siano vere o il risultato di manie di persecuzione, ma anche di innestare un discorso “politico” più ampio, riempiendo i dialoghi di riferimenti alla storia americana (recente e non), compreso il fuoco amico del “terrorista” che viene dall’interno (come gli insetti). Non appare casuale la citazione di Tim Mc Veigh, nel monologo di Agnes che anticipa la chiusura del film e che riassume in un delirio scoordinato e psicotico il percorso che hanno condotto lei e Peter fino a quel punto. Timothy James McVeigh è infatti, l’autore dell’ attentato di Oklahoma City del 19 aprile 1995, in cui rimasero uccise 168 persone, in quello che è stato il più sanguinoso atto terroristico perpetrato nel territorio degli Stati Uniti fino all’11 settembre 2001. Il nemico è dentro di noi (visibile o invisibile non ha importanza), questo sembra dirci William Friedkin con Bug, che non a caso reinterpreta e aggiorna attraverso la piece teatrale di Tracy Letts (che scrive anche la sceneggiatura del film), l’episodio da lui diretto per la serie “Ai confini della realtà”, nel 1983, sostituendo le sperimentazioni chimiche del diserbante Orange ed il gas psichedelico BZ, utilizzati dall’esercito durante la guerra del Vietnam con presunte sperimentazioni condotte sui soldati statunitensi durante la Prima Guerra del golfo.

AMERICAN BEAUTY di Sam Mendes (1999) – Parte Seconda

Invito a cena …con cinismo

 

Atto I: Ritratto di una famiglia americana

Prima di tutto c’è un’immagine che colpisce: lo sguardo di Jane alla pagina internet sulla chirurgia plastica per rifarsi il seno, prima di uscire di casa per andare a scuola. Un frammento, una scheggia di desiderio, veloce e fugace, che lentamente con il proseguo del film viene meno grazie alla consapevolezza, che la ragazza acquisisce, in merito a se stessa e al suo corpo, lungo la strada della sua relazione con Ricky. Consapevolezza e desiderio, due parametri che stridono fortemente con l’immagine plastica della famiglia: quella che Mendes mostra attraverso un lento zoom in avanti, immersa in una atmosfera sospesa mentre i tre componenti sono seduti a cena; al centro del tavolo un mazzo di American Beauty ben illuminato da un fascio di luce, posizione di oggetti e persone perfettamente ordinata, la simmetria dello spazio delimitata dalla presenza delle candele, insomma il ritratto patinato della famiglia americana. Per mostrare che l’apparenza inganna Mendes ricorre alla presenza di un controcampo muto (mostrato attraverso la ripresa video della handycam di Ricky), in cui non c’è bisogno di parole per vedere come il rapporto tra Jane e suo padre sia irrimediabilmente compromesso e come la madre Carolyn sia totalmente impotente a causa della sua pochezza e fragilità.

AMERICAN BEAUTY di Sam Mendes (1999) – Parte Prima

Un tragicomico equivoco di fine millennio

 

Sam Mendes appartiene alla nuova generazioni di “autori” hollywoodiani. Tenendo presente che la parola “autore” a Hollywood ha sempre un significato diverso che altrove, a causa sia delle ingerenze dei produttori sia dalla necessità di “fare cassetta”, anche per i film più “impegnati”. Difficile trovare, da parte della critica, un’opinione univoca sul regista: alcuni lo considerano uno dei pochi registi americani (ma Mendes è inglese), assieme a Darren Aronofsky, Paul Thomas Anderson, David Fincher, capace di coniugare impegno e spettacolo mantenendo uno stile inalterato e riconoscibile, altri un onesto mestierante, furbo e abile nel manipolare gli spettatori con storie ammiccanti e personaggi in cui è facile identificarsi. Solitamente non sono uso a schierarmi ma in questo caso ammetto (spazzando via il campo da ogni ambiguità) di appartenere alla seconda schiera di critici (anche se Revolutionary Road sembra smentire questa mia presa di posizione). Nonostante ciò ritengo che ogni filmografia sia sempre più complessa di ciò che appare e pertanto, una volta scoperte le carte, cercherò di affrontare il suo cinema mettendo da parte il pregiudizio e limitandomi ad una analisi obiettiva e asettica (quanto più possibile).

ESSENTIAL KILLING (2010) di Jerzy Skolimowski

La fuga non conduce in nessun luogo ma porta, solo, alla perdita dell’orientamento

 

Essential Killing è una poesia dipinta sul creato a colpi di pennellate lente, rigorose e sinuose. Un apologo sul rapporto tra uomo-ambiente, ma soprattutto sul rapporto tra animale-uomo e ambiente ostile. Un apologo antropologico, che non ammette cedimenti e in cui ogni immagine è utile e necessaria, ogni inquadratura è essenziale e mai sprecata. La dimensione su cui si muove la vicenda è quella basica dell’istinto come motore dell’agire umano. Azioni brutali e selvagge che si susseguono in una narrazione, solo apparentemente elementare in cui ogni snodo narrativo è rappresentato al grado zero del suo sviluppo. L’atmosfera straniante, “aliena”, barbara in cui si muove il protagonista non fa differenza tra il deserto di pietra delle montagne di Tora Bora e i boschi fitti e sconfinati del nord della Polonia. È uno scenario necessario che fa da contrappunto al movimento di un personaggio che grazie all’assenza di dialogo viene raccontato come “puro” e privo di qualsivoglia implicazione morale. Quello dell’uomo protagonista del film è un comportamento legittimo nella sua dimensione animale, un comportamento dettato dalle circostanze in cui si trova e in merito al quale è praticamente impossibile esprimere un giudizio. Jerzy Skolimowski, con la sua macchina da presa tratteggia un affresco che pesca nelle ambientazioni malinconiche della pittura di Caspar David Friedrich, delineando un luogo in cui tutto sembra essere ostile e avverso nei confronti dell’uomo. Una natura selvaggia che rifiuta l’uomo come se fosse un intruso: gli nega da mangiare, da bere, lo costringe al gelo durante la notte e gli nega il calore del sole durante il giorno. Non è casuale che il cibo (il pesce crudo) l’uomo lo rubi a un pescatore, che il calore lo trovi nella casa della donna nel finale del film e che solo qui possa bere anche qualcosa di caldo.

PAUL SCHRADER’S “AFFLICTION” – (Parte Seconda)

Diario, ipotetico, della scomparsa di una cittadina di campagna

 

In Affliction, il paesaggio invernale, soffice e innevato diventa personaggio “terzo”, determinante nella narrazione secondo la lezione di Sjostrom prima e di Dreyer poi. Per Schrader è una sorta di contrltare del marciume e della cattiveria che abitano i cittadini di Lawford; ma non è solo così semplice, il paesaggio in Affliction agisce anche da interludio e da sincope. Lungo tutto lo svolgimento del film si notano una serie di campi lunghi fossilizzati, in cui la natura statica e inerte corrisponde alla catatonia dei personaggi e introduce, talvolta, impreviste svolte narrative. Anche i legami di sangue, scandiscono i tempi del film, soprattutto quello che lega da un lato Wade al padre Glen e dall’altro Wade e il fratello Rolf, per gran parte del film sorta di confessore telefonico del fratello maggiore, ma anche “anima dannata” incapace di accorgersi del male che perpetra con le sue parole perchè convinto presuntuosamente di essere esente dal contagio genetico. L’educazione, i suoi limiti, i suoi eccessi e le sue ambiguità è la cifra morale che permea il film e sono l’argomento cui è demandata la chiosa di Affliction, intesa quasi, come una sorta di monito “universale” per le generazioni a venire: “I fatti ormai li conoscono tutti: tutta Lawford, tutto il New Hampshire e un po’ di Massachusset. I fatti non costituiscono la storia. Le nostre storie, quella mia e di Wade, sono quelle dei ragazzi e degli uomini in migliaia di anni. Ragazzi che sono stati picchiati dai loro padri e la cui capacità di amare e di avere fiducia è stata distrutta quasi dalla nascita. Uomini, la cui unica speranza di comunicare con altri esseri umani era quella di rimanere in disparte, aspettando che la loro vita fosse finita. L’unico modo per non riuscire a distruggere i nostri figli e non terrorizzare le donne che hanno la sfortuna di amarci è quello di rifuggire la tradizione della violenza maschile, rifiutando la seduzione della vendetta…” Parole che chiudono un parabola morale in cui giustamente, il regista non condanna (ma nemmeno assolve) i suoi personaggi.

PAUL SCHRADER’S “AFFLICTION”- (Parte Prima)

Afflizione, la parabola dell’uomo qualunque… ovvero del dolore e delle pene…

 

Affliction, tra i film di Paul Schrader, è il più intimista. Una parabola religiosa che riflette sul limite che separa il Bene dal Male e su come questo si manifesti primariamente all’interno della famiglia. I personaggi del film sono di matrice letteraria, visto che provengono dal romanzo “Tormenta” di Russel Banks. Nel film non ci sono personaggi né positivi né negativi, ma solo persone profondamente umane con il loro bagaglio esistenziale di pregi e difetti e il loro dolore di vivere. Uomini e donne che abbracciano, loro malgrado, la Croce di Cristo, ne portano il peso per lunghi tratti della loro esistenza e l’abbandonano nel momento in cui esauriscono le forze per combattere. L’impostazione letteraria, permette al regista di costruire un intricato sviluppo di eventi, di cui è egli stesso a decidere quali portare a conclusione (e soluzione) e quali lasciare volutamente sospesi. Affliction, fa del dolore e dei sentimenti, il proprio perno, attorno a cui ruota, suo malgrado, un’umanità spaesata e avvilita, persa nella ricerca di una realizzazione esistenziale (pressochè impossibile) distaccata dalle proprie radici e dalle proprie tare ereditarie. Paul Schrader costruisce un film “statico”, un lungo susseguirsi di quadri che richiamano le stazioni della via crucis, alternati a campi lunghi di paesaggi innevati e spersonalizzati sullo sfondo di una cittadina del New Hampshire, che nel tempo diventerà un immenso complesso residenziale e commerciale. C’è la tentazione nel regista di dipingere (mai come in questo caso i pochi movimenti di macchina sembrano delle pennellate) il ritratto di una provincia morente e di celebrare uno degli ultimi atti della vita “di paese” attraverso la rappresentazione di un microcosmo variegato (apparentemente solidale), che progressivamente si rivela essere niente altro che un coacervo di vipere in cui rancori, invidie e suggestioni determinano caratteri e comportamenti.

LA RONDE (1950) di Max Ophuls

La giostra della vita, ovvero la “gabbia dorata” dell’illusione del piacere

Vienna 1900. Un narratore (Anton Wallbrook) entra in scena e recita davanti ad un palco, si cambia d’abito e si avvicina ad una giostra di quelle per i bambini: Il “girotondo” può cominciare

Il 7 Gennaio del 1897 Arthur Schnitzler termina la stesura di “Reigen” affermando che “Qualcosa di così irrappresentabile non si è ancora visto”, al punto che l’autore è dubbioso se dare alle stampe il suo dramma. Non a caso, la prima rappresentazione teatrale dell’opera è messa in scena solo venti anni dopo da Max Reinhardt al Kleines Schauspielhaus di Berlino nel 1921. E’ la prima di una serie di rappresentazioni tormentate e ostacolate dal moralismo e dalla furia censoria: a Vienna, tempo dopo, la messa in scena di “Reigen” scatena tumulti di piazza e interpellanze parlamentari. La Ronde di Max Ophuls viene girato in Francia tra il gennaio e il marzo del 1950. Durante i 43 giorni di lavorazione le riprese si interrompono continuamente a causa dell’insolvenza nei pagamenti della casa di produzione La Sacha Gordine. Il film una volta terminato viene presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, accolto con favore dalla critica internazionale e accompagnato da proteste e clamori che giungono, da parte cattolica, fino al limite della scomunica come dimostra il caso di Münster luogo in cui la chiesa impedisce la proiezione del film. Sin dal prologo, La Ronde svela la sua complessità registica, in cui, già nella sequenza iniziale emerge la cifra stilistica e avvolgente dei movimenti della macchina da presa di Ophuls: il piano sequenza iniziale viene realizzato dopo la costruzione di oltre cinquanta metri di binari, curve e scambi.

WILLIAM FRIEDKIN’S “RAMPAGE” (ASSASINO SENZA COLPA?) – Parte Seconda

180 secondi per morire: La vita di un essere umano innocente vale di più di quella di un pluriomicida?

Rampage è un film che letteralmente prende le distanze dallo spettatore. Quella di Friedkin è una messa in scena glaciale, anti-empatica. Lo sguardo del regista è oggettivo al fine di proporre allo spettatore un film in cui non è possibile nessun coinvolgimento emotivo ma solo una visione distaccata (e pertanto critica) degli eventi mostrati. In Rampage non c’è nessun intento introspettivo né tanto meno esornativo, ciò che conta è il non-luogo dello spazio persistente tra due opposti. William Friedkin impernia la costruzione filmica e narrativa su un tema ben preciso quello della linea di confine: una linea di demarcazione che separa il Bene dal Male, la giustizia dall’ingiustizia, la vita dalla morte, i dubbi dalle certezze, ma che trova la sua ricomposizione nella ritualità degli eventi per poi distaccarsi nuovamente e definitivamente nel racconto della scissione del comportamento umano diviso tra istinto e ragione, animalità e umanità. A tal proposito l’inizio appare programmatico, la lunga panoramica aerea che scende fino ad inquadrare Charles Reece in cammino sulla strada, pone lo spettatore davanti alla visione di una linea prima “invisibile”, e poi sempre più visibile fino all’identificazione con la strada, immersa e “nascosta” tra la continuità dei campi coltivati. La separazione, come indice di contrapposizione, ma anche come luogo fisico e non-luogo mentale, in cui il film si incunea nelle sue contraddizioni e ambiguità con l’intento dichiarato (sin dai primi fotogrammi) di non offrire allo spettatore nessun appiglio e di non concedere nessuna risposta.