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BO ARNE VIBENIUS: THRILLER – EN GRYM FILM (1972) / BREAKING POINT – PORNOGRAFISK THRILLER (1975)

“Tutto questo sangue, questa violenza, …e io che pensavo che la vostra fosse la generazione dell’amore!” (Last house on the Left)

Nel 1972 il professor universitario Wes Craven e il produttore Sean S. Cunningham portano sugli schermi americani un piccolo film dal titolo: Last House on the left (L’ultima casa a sinistra). I due sono quasi esordienti, hanno alle spalle solo un sexy-educational intitolato Together (id. 1970, interpretato dalla futura pornodiva Marilyn Chambers) ma grazie ai $ 50.000 offerti dalla Hallmark mettono insieme il film che sarà destinato a cambiare per sempre le regole della rappresentazione della violenza.

LAST HOUSE ON THE LEFT, THE - Silver Ferox Design v1

Il film ispirato a La Fontana della Vergine di Ingmar Bergman, racconta la storia di violenze, stupri, umiliazioni e infine l’uccisione, subiti da due ragazze di provincia da parte di un gruppo di evasi feroci e sanguinari. Questi poi casualmente, durante la loro fuga, troveranno rifugio nella casa dei genitori di una delle due ragazze uccise. Qui, in maniera fortuita la madre scoprirà ciò che è successo e, d’accordo col marito, metterà in atto una selvaggia e rabbiosa vendetta. Il film, semplicistico, zoppicante – nella seconda parte davvero inverosimile, tale e tante sono le incredibili circostanze che guidano lo spettatore verso il sanguinoso epilogo – vuole essere nelle intenzioni di Craven e Cunningham una riflessione critica sul nucleo familiare, visto come coacervo di tensioni, violenze e rancori. Se questo obiettivo rimane solo sfiorato, il film ha importanza per come rappresenta in modo crudo ed efferato, e volutamente compiaciuto, la violenza, la rabbia e l’animalità dell’uomo, figlia, come ricorda lo steso Craven delle immagini di morte proventi dalla guerra nel sud-est asiatico.

HARDCORE (1979) di Paul Schrader – Parte Seconda

Amore e morte nel giardino degli dei

 

Dal freddo di Grand Rapids nel Michigan, Jake VanDorn, discende verso il caldo della California. Già in questo percorso entra la dimensione della discesa così come quella del “caldo infernale”. Hardcore, però, non è un film costruito sulla facile e sterile contrapposizione tra paese e città, e neanche un film che cerca di mettere in positivo la dimensione della micro-comunità del Nord contro la macro-comunità del Sud. Entrambe le collettività appaiono problematiche, affette da disequilibrio, piene di sfumature e asimmetrie. Sin dai titoli di testa – che scorrono sulle immagini del Michigan innevato – i codici cinematografici secondari assumono un ruolo determinante nell’economia del film: il nome dell’attore protagonista e il titolo del film appaiono neri per essere subito dopo virati di rosso carminio; quelli successivi proseguono su questa tonalità con l’evidente intenzione di sottolineare in modo extra filmico la dimensione “infernale” al centro della pellicola.

hardcore

Le immagini candide e asettiche di Grand Rapids innevata con i bambini che giocano felicemente e armoniosamente, stridono fortemente con i tre stacchi a camera fissa che al termine dei titoli di testa ci introducono nell’abitazione di Jake VanDorn, all’interno della quale tutto è sobrio, grigio e compassato. Anche qui ci sono bambini: alcuni suonano il pianoforte e cantano inni religiosi, altri sono seduti di fronte ad un innocuo spettacolo televisivo e natalizio – prima che uno zio intervenga a spegnere la televisione demonizzandola – altri, come il piccolo Hardold Jay, assistono attoniti e spaesati alle discussioni sul peccato capitale e sui salmi, cui sono ipegnati i genitori.

HARDCORE (1979) di Paul Schrader – Parte Prima

L’infernale paradiso di …Kristen

 

Paul Schrader ha più volte dichiarato di aver fatto i conti con il suo passato e sublimato il rapporto con il padre anagrafico con il film Hardcore (1979). A ben vedere però, il film in questione, non è solo un viaggio autobiografico alla ricerca della propria identità (negata dalla famiglia), ma è anche un ritratto caustico, bruciante e irriverente di un microcosmo religioso (che in America conta per lo 0,1% della popolazione ma che ha dato al paese ben due presidenti: Martin Van Buren e Theodore Roosevelt), quello della declinazione calvinista della Chiesa Riformata d’Olanda. Il viaggio all’ “inferno” di Jake VanDorn, non è solo la discesa negli antri oscuri dell’essere umano di un padre alla ricerca disperata della figlia, ma è la traversata destinata a qualunque comunità che ponga alla base del suo Credo (religioso e non) la repressione aprioristica e la mancanza assoluta di spiegazioni comportamentali (come sarà, anni dopo, per quella di Das Weisse Band (Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke). La stessa, traversata, vissuta sulla propria pelle dal regista fino al compimento dei 17 anni, momento in cui varca contemporaneamente la soglia della sala oscura e quella della libertà e del suo “mistero”.

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L’incipit in voce-off del film del 1990 The comfort of strangers (Cortesie per gli ospiti) racconta di un passato e di un padre, in cui non si può non vedere i tratti autobiografici alla luce anche del taglio del protagonista di Hardcore e delle sua “trasformazione caricaturale” californiana (l’uomo di cui si parla, sembra quello chiuso nel Motel del Cinema intento a ricevere aspiranti porno-attori in Hardcore): “Mio padre era un uomo imponente. Tutta la vita ha portato dei gran baffi neri. Quando ingrigivano li tingeva di nero con uno spazzolino di quelli che usano le donne per truccarsi gli occhi, per darsi il mascara. Avevano tutti paura di lui: mia madre, le mie quattro sorelle. Quando eravamo a tavola nessuno poteva parlare a mio padre se non veniva prima interpellato da lui. Ma adorava me. Io ero il suo preferito”. La scelta della caricatura per tratteggiare visivamente un uomo “fuori posto” come è Jake VanDorn in California, evidentemente coincide con la necessità, per l’autore, di raccontare una storia privata annegandola nei meandri più oscuri e inconfessabili della sua giovinezza, all’interno della quale la pornografia ha avuto un ruolo fondamentale nel processo di “redenzione” auto-percorso dallo stesso Schrader. Il Jake VanDorn di Grand Rapids (Michigan) non è diverso dal Jake VanDorn esule a Los Angeles, San Diego, San Francisco: quello che cambia è il suo abito, il suo atteggiamento; così, almeno, crede lui, mentre invece è egli stesso a subire una trasmutazione irreversibile, al punto da chiudere il suo viaggio con questa battuta rivolta alla figlia ritrovata: “Adesso portami a casa tu”.

ITALIA A MANO ARMATA (1976) di Franco Martinelli [Marino Girolami]

ITALIA: ULTIMO ATTO. L’ALTRO CINEMA ITALIANO – Vol. 1

Italia a mano armata (1976) di Franco Martinelli: Il “poliziottesco” che racconta il lato oscuro del triangolo industriale del Nord-Ovest.

Quando nel 1975 Vincenzo Mannino scrive la sceneggiatura di Roma violenta mette al centro dello sviluppo narrativo tre elementi destinati a diventare – in poco tempo – codici di riferimento del genere poliziesco italiano: la rappresentazione spettacolare ed enfatica della violenza, il commissario integerrimo senza macchia e senza paura e l’utilizzo degli spazi metropolitani come personaggio terzo (addirittura con i nomi delle città nei titoli dei film).

WILLIAM FRIEDKIN’S CRUISING (1980) – Seconda Parte

Private Club 837: viaggio di non ritorno

Cruising, come detto significa “pattugliare” (ma anche “battere”) e i due verbi nel film sono destinati a coincidere, intrecciarsi, legarsi, al fine di creare un gorgo indefinito in cui Steve Burns diventa incapace di distinguere tra l’indagine poliziesca e quella omoerotica, fino a rimanerne stritolato. Ma Criusing è anche il film dell’incertezza in cui nulla è come appare e in cui tutto è opposto a ciò che si vede, così è inevitabile “attraversare lo specchio” ed entrare nella dimensione psicologica del film: quella della proiezione mentale degli omicidi. La Morte in Cruising, cammina sui marciapiedi, scende nei leather bar, si intromette nell’univesità e galleggia nelle acque dell’Hudson River, quindi è ovunque e pertanto non si può non prendere in considerazione la possibilità che gli omicidi di Cruising, siano soltanto il materializzarsi di una paura sociale (ancora per poco, immotivata) e nascondano al loro interno un oscuro presagio. Il 5 giugno 1981, il centro per il monitoraggio e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti identifica un’epidemia di pneumocistosi polmonare in cinque uomini gay di Los Angeles. Inizialmente la malattia viene denominata la sindrome GRID, o Gay-Related Immune Deficiency, ma ben presto le autorità sanitarie si accorgono che quasi metà della popolazione, in cui era stata riscontrata, non era omosessuale. Il nome si “trasforma” in una sigla di quattro lettere, dispensatrice, nel tempo, di paura e terrore, e da alcuni integralisti cattolici identificata come un “nuovo flagello divino” necessario per mondare l’umanità reproba e peccatrice: AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome).

WILLIAM FRIEDKIN’S CRUISING (1980) – Prima Parte

Da Sodoma a… New York

A New York iniziano a essere rinvenute, nelle acque del fiume Hudson, parti del corpo di uomini. La polizia ritiene sia l’opera di un serial killer che abborda omosessuali nei bar cittadini per poi stuprarli e mutilarne i corpi, così l’agente di polizia Steve Burns (Al Pacino) viene mandato come infiltrato nel mondo dei club per omosessuali per rintracciare l’assassino. Burns commette uno sbaglio e porta la polizia ad indagare sul conto del cameriere di un ristorante, Skip Lee, il quale sarà costretto a spogliarsi e masturbarsi dinanzi a quattro detective per fornire loro un campione di sperma. Dopo aver assistito a questo episodio di brutale violenza, Burns capisce che i poliziotti non stanno conducendo le indagini al fine di scovare l’assassino, ma spinti unicamente da una delirante omofobia. Abbandona le indagini, ma viene convinto dal suo capo, il Capitano Edelson (Paul Sorvino) a riprenderle in mano. Steve riesce alla fine a rintracciare il presunto serial killer, uno studente di musica, omosessuale, e lo arresta. Dopo quest’indagine Burns diventa ispettore e gli viene concesso un permesso ma…

REGENERATION di Raoul Walsh (1915)

Il primo gangster-movie della storia del cinema.

 

“E’ felice solo quando lavora. Walsh accetterebbe qualsiasi regia pur di trovarsi sul set” (J.P. Coursodon)

Raoul Walsh, come regista, si pone antiteticamente rispetto alla scuola dei suoi contemporanei Stroheim-Ingram. Niente magniloquenza, niente ricostruzioni sceniche, l’atmosfera generale e storica usata solo come sfondo ma un’attenzione puntigliosa e mordace sulla storia, sulla caratterizzazione dei personaggi e sull’azione. Il suo obiettivo è quello di velocizzare la narrazione di intrecciare il montaggio e di esasperare l’uso del parallelismo tra vicende per dare incisività alla pellicola in modo da coinvolgere il pubblico con intensità e stupore. Al centro del suo cinema due grandi temi che, in un modo o nell’altro, attraversano tutta la sua sterminata filmografia fino alla metà degli anni’60: la rivalità e l’amicizia virile. Temi che troveranno compimento nei western degli anni ‘40 e ’50 ma presenti sin dai suoi primi melodrammi cui fa parte il misconosciuto e sorprendente Regeneration (1915) frutto del suo praticantato alla scuola di David Wark Griffith. Personaggio scontroso e schivo, celebre più per i suoi eccessi che per il suo cinema, Raoul Walsh (“padre” di tanto cinema moderno – Peckinpah, Foley, Ferrara, Scorsese, Tarantino…) in realtà non è per niente dissimile dai protagonisti dei suoi film: amante dell’alcool e del gioco d’azzardo, ma anche abile cacciatore e discreto sportivo, al punto che spesso le lavorazioni delle sue opere si trasformano in vere e proprie avventure. Set pericolosi i suoi, in cui si può mettere a repentaglio la vita o trovarsi faccia a faccia con veri e propri malavitosi, con interpreti spinti fino al limite e abituati al rischio e all’imprevisto. Regeneration non fa eccezione, visto che sul set del film si trovano a “recitare” insieme sia attori professionisti che veri abitanti dei bassifondi di New York. Questi ultimi sono chiamati ad interpretare se stessi mentre la macchina da presa di Walsh si insinua, quasi si mimetizza, nella Bowery dell’East Side, “frugando” con sapienza e pudore nelle vite, nelle case e nel futuro di questi disadattati.

ABEL FERRARA. UN FILMAKER A PASSEGGIO TRA I GENERI su TAXIDRIVERS.IT

Intervista a cura di Gianluigi Perrone – 09 Marzo 2015

 

Il Critico Fabrizio Fogliato esplora nuovamente l’universo di Abel Ferrara con un saggio edito da Sovera dove ci si sofferma ampiamente e come mai fino ad ora sull’opera del regista newyorkese, includendo l’intera produzione, inclusa molta produzione spesso considerata “minore” o tralasciabile, ma che invece dipinge l’autore a tutto tondo. Impreziosiscono vari interventi di personaggi che hanno circuitato intorno all’universo Ferrara. Per saperne di più chiediamo alcune domande all’autore

 

leggi l’intervista integrale

ABEL FERRARA. UN FILMAKER A PASSEGGIO TRA I GENERI su POINTBLANK.IT

Recensione a cura di Giorgio Sedona – 22 Gennaio 2015

 

Tratteggiare il profilo di un regista così controverso ed espressivamente potente come Abel Ferrara in poche righe è impresa ardua e rischiosa. Un artista che con la sua personalissima visione del mondo è riuscito a concederci dei lavori d’intensa maestria e profondità. Acuto misuratore dell’animo umano, diviso tra il Bene ed il Male assoluti, tra la santità ed il peccato, tra la luce del giorno e la notte della strada, con il suo stile umorale, sgangherato ma pur sempre originale ha percorso, trasversalmente, quarant’anni di cinema americano.Fabrizio Fogliato con la sua monografia dal titolo Abel Ferrara – Un filmaker a passeggio tra i generi, edito da Sovera Edizioni, ripercorre la strada artistica del regista del Bronx partendo dal principio, dal cortometraggio Nicky’s Film (1971), che segnerà l’inizio della collaborazione con lo sceneggiatore Nicholas St. John – collaborazione che continuerà per molti altri film del regista – e terminando con il film 4:44 – Last Day on Earth (2011). L’autore ci accompagna nel percorso monografico in maniera attenta e puntuale, non tralasciando assolutamente nulla, conscio del fatto che Abel Ferrara è tanto materiale d’indagine, è un artista visivo poliforme che dimostra la sua visione del mondo non solo ad un livello puramente cinematografico, ma anche realizzando videoclip, cortometraggi, puntate seriali, autore di progetti poi non concretizzati; e per capire appieno Ferrara occorre conoscere anche cosa non è riuscito poi a realizzare, quelle opere in potenza di un regista maledetto.

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