L’istruttoria è chiusa…. dimentichi… se può…
Elio Petri, prima di esordire alla regia lavora a lungo come soggettista e sceneggiatore (suoi sono I Mostri (1963) di Dino Risi, che avrebbe anche dovuto dirigere, L’impiegato (1960) di Gianni Puccini e Alta infedeltà (1964) di cui dirige l’episodio “Peccato nel pomeriggio”, oltre all’esordio (non accreditato) in Roma ore 11 (1952) di Pasqualino de Santis). Al suo debutto da regista “autodidatta” egli instilla nella sua opera, uno stile inconfondibile, al tempo stesso audace e ragionato, e impone un efficacia drammatica alla storia e una padronanza del mezzo tecnico e della messa in scena senza eguali nel cinema precedente (solo Luchino Visconti ha la stessa perizia tecnico-stilistica e lo stesso carisma “autoriale”). Il tutto al servizio di un cinema che è proiettato nel futuro, avanti di vent’anni rispetto al momento in cui viene prodotto con al centro una serie di tematiche eterogenee e contingenti in grado di rendere ogni suo film universale e senza tempo.
Il cinema di Elio Petri racconta degli archetipi e concentra la propria attenzione su tre istanze ben definite: l’autorità, il borghese e l’italiano-medio. “Oggi i personaggi del neorealismo non sono più quelli di un tempo, c’è un ritorno ai miti borghesi, al mito del denaro, al mito del sesso, uno spreco di energie senza un vero profondo sforzo spirituale” (Elio Petri e i segreti delle coscienze, in Rivista del cinematografo – 1962), con queste parole, Elio Petri racconta l’altro lato (quello oscuro) del “boom”, abbozzando ne L’Assassino (1961), con determinatezza e rigore, quelle peculiarità e quelle dinamiche che troveranno compimento esaustivo e teorico in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Il cittadino-suddito è in balia della giustizia, e dei suoi amministratori, indifeso ed apparentemente senza diritti; ma egli è colpevole: un borghesuccio che vive di espedienti, mantenuto da ricche signore, truffatore di ladruncoli di quartiere, mistificatore della propria esistenza e menzognero per vocazione (come ben testimonia il flashback sul fascismo).
La capacità di Elio Petri di leggere tra le righe della Storia e di farne emergere le malattie endemiche, proviene da una vera e propria esperienza di vita, lontana dal solito curriculum del regista da Centro Sperimentale: “Se feci una scuola fu per le strade, nelle cellule del partito comunista…al cinema, al varietà, nelle biblioteche comunali, leggendo i giornali e le riviste di partito …nelle lotte dei disoccupati, in camera di sicurezza, anche a Regina Coeli, negli scontri con la polizia, nelle sparatorie, nei linciaggi …negli studi dei pittori della mia età …nei cineclub, nei comizi, tra coloro che a quel tempo venivano ancora chiamati rivoluzionari di professione” (Elio Petri. Appunti su un autore di Federico Bacci, Nicola Guarneri, Stefano Leone, Italia 2005).Il suo è dunque un cinema che si nutre di vita, che immerge i fotogrammi nelle emozioni (positive e negative) e che non si concede compromessi perchè vuole ammonire, indignare e, soprattutto, raccontare ciò che è sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno vuole vedere.
Un antiquario in piena ascesa socio-economica (Marcello Mastroianni) viene accusato dell’omicidio della sua ex amante (Micheline Presle) con prove apparentemente schiaccianti. Il commissario che investiga sul suo caso (Salvo Randone) sin dall’inizio non ha alcun dubbio: l’uomo è colpevole e può essere sottoposto a qualsiasi trattamento purché confessi. Il risultato sarà un forzato esame di coscienza che renderà palese all’antiquario quanto siano squallidi la sua vita e il suo ambiente…
L’Assassino, al momento della sua uscita nei cinema rischia di scontrarsi con la stessa burocrazia e ipocrisia dell’autorità che viene denunciata nel film stesso. Come racconta il produttore Goffredo Lombardo, poco prima della sua uscita, il film è bloccato in commissione censura, a causa di una scena in cui i poliziotti, entrando nel palazzo in cui risiede Alfredo Martelli, sporcano le scale appena pulite dalla portinaia. Il diktat della commissione censura è quello di cancellare quella scena perchè, parole testuali, “I poliziotti non sporcano le scale”. Quest’episodio extra-cinematografico, sintetizza al meglio, la denuncia, insita nella pellicola, relativa ai metodi con cui agisce l’autorità: vessatoria e irrispettosa nei confronti del cittadino, incapace di effettuare le indagini, e votata al qualunquismo professionale.
Il commissario, il Dott. Palumbo è un vanesio (“Ogni tanto ci mettono anche a noi sui giornali”), un uomo di apparato che agisce per tentativi, laconico e temporeggiatore, che l’abile regia di Elio Petri, trasforma in un mediocre “confessore” del cittadino “peccatore”. A tal proposito vale la pena ricordare la risposta che il Dott. Palumbo da a un irritato e spazientito Alfredo Martelli: “Noi dobbiamo capire bene chi siete voi, pensate…tutta una vita…”. L’interrogatorio dunque si trasforma in confessione, come espresso dall’inquadratura in cui i volti, in primo piano, di Alfredo Martelli (chiuso nella stanza della Questura) e del Dott. Palumbo (nel suo ufficio), si avvicinano l’uno all’altro divisi dalla parete che è vetro da una parte e specchio dall’altra. Proposta con insistenza e legata al racconto da un lento zoom, quest’inquadratura, racconta più di ogni altra il rapporto ambiguo e compromesso che lega il burocrate e il cittadino. Ma L’Assassino è anche un vero e proprio esame di coscienza esistenziale attraverso cui Petri racconta la psicologia, deviata e opportunistica, di uno di quei “mostri” che due anni dopo saranno protagonisti della sceneggiatura del film diretto da Dino Risi.
Chi è Alfredo Martelli? Un borghese pronipote di quello moderno, già imbevuto di quel culto dell’apparire tanto in voga oggi giorno che negli anni del boom piantava le sue radici. Sui titoli di testa, egli entra in casa, si osserva nella superficie riflettente del mobile lastronato dell’ingresso, si sveste mettendo ordinatamente i propri panni sul servo muto, accende il giradischi e, con il sottofondo jazz, si addormenta nella vasca da bagno. Al suo risveglio, risponde al telefono e comincia a mentire. Alfredo Martelli, quando viene “visitato” dalla polizia, fa finta di niente, e finge sornione di scambiare i poliziotti per una società immobiliare; egli viene colto in un momento intimo e ridicolo e si presenta alla porta d’ingresso con in mano una candela accesa: “Mi stavo bruciando le punte dei capelli…contro la caduta, un sistema ridicolo ma efficace”.
Alfredo Martelli è un antiquario, che si reca sui colli romani e si trasforma in ricettatore (anche la parlata cambia, mutando l’italiano corretto del borghese nel romanesco del borgataro), e acquista per poche lire oggetti che poi venderà in negozio decuplicandone il prezzo e spacciandosi per un esperto e un intenditore, di fronte ad acquirenti che appaiono più ignoranti e presuntuosi di lui. Alfredo Martelli è un uomo mediocre, opportunista e cinico, che finge di essere diplomato ragioniere per far contenta la madre (questa stamperà dei biglietti da visita con il titolo fittizio ed egli, vergognandosi, cercherà di occultarli mentre è chiuso in Questura); egli è lo stesso, che pur dì negare l’evidenza del suo fallimento, quando riceve la visita della madre stanca e invecchiata, la porta in trattoria per offrirle l’aragosta (“Volevo vedere casa tua, invece mi hai portato in trattoria a mangiare come due zingari” dirà l’anziana donna).
Alfredo Martelli è quell’uomo, che ci viene raccontato attraverso i flashback che lo mostrano di volta in volta mentitore (con il nonno), cinico (con l’amante), traditore (con il suo migliore amico), supponente (con l’ubriaco che poco dopo si suicida); un uomo, che attraverso la parabola esistenziale di un probabile delitto, e di un notte di prigionia, non riesce ad emergere dalla sua mediocrità, ma anzi, sfrutta opportunisticamente la fama di “assassino” per ottenere favori (come avviene nel pessimista finale del film).
La società dipinta a tinte fosche e uggiose dalla cinepresa di Elio Petri ne L’Assassino, è già degradata, sprofondata nel culto del denaro e del benessere, fatta di mediocrità (non solo il protagonista, ma anche la contessa De Matteis e la cameriera Rosa) ammaliata dai lustrini della fama e percorsa da una sterile coazione a ripetere. I gesti, le movenze dei personaggi del film sono quanto di più prevedibile rispetto al ruolo che essi ricoprono, ed ognuno a suo modo è al contempo vittima e colpevole. In L’Assassino, il pessimismo di Petri è ancora percorso da un’ironia disincantata, che esplode inaspettata sullo schermo e che mette in bocca all’Alfredo Martelli di Marcello Mastroianni, durante l’interrogatorio, una battuta emblematica: “Pensi che ho perfino frequentato il corso di attore al centro sperimentale di cinematografia”.
di Fabrizio Fogliato
L’ASSASSINO
TITOLO ORIGINALE: L’ASSASSINO
GENERE: Drammatico
ANNO: 1961
PAESE: Francia, Italia
DURATA: 105 Min
REGIA: Elio Petri
SCENEGGIATURA: Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Elio Petri, Tonino Guerra
FOTOGRAFIA: Carlo Di Palma, Dario Di Palma
MONTAGGIO: Ruggero Mastroianni
MUSICHE: Piero Piccioni
PRODUZIONE: FRANCO CRISTALDI PER VIDES CINEMATOGRAFICA, TITANUS, S.G.C. (PARIGI)
ATTORI: Marcello Mastroianni, Micheline Presle, Cristina Gajoni, Salvo Randone, Andrea Checchi, Giovanna Gagliardo, Carlo Egidi, Paolo Panelli, Toni Ucci