La giostra della vita, ovvero la “gabbia dorata” dell’illusione del piacere
Vienna 1900. Un narratore (Anton Wallbrook) entra in scena e recita davanti ad un palco, si cambia d’abito e si avvicina ad una giostra di quelle per i bambini: Il “girotondo” può cominciare
Il 7 Gennaio del 1897 Arthur Schnitzler termina la stesura di “Reigen” affermando che “Qualcosa di così irrappresentabile non si è ancora visto”, al punto che l’autore è dubbioso se dare alle stampe il suo dramma. Non a caso, la prima rappresentazione teatrale dell’opera è messa in scena solo venti anni dopo da Max Reinhardt al Kleines Schauspielhaus di Berlino nel 1921. E’ la prima di una serie di rappresentazioni tormentate e ostacolate dal moralismo e dalla furia censoria: a Vienna, tempo dopo, la messa in scena di “Reigen” scatena tumulti di piazza e interpellanze parlamentari. La Ronde di Max Ophuls viene girato in Francia tra il gennaio e il marzo del 1950. Durante i 43 giorni di lavorazione le riprese si interrompono continuamente a causa dell’insolvenza nei pagamenti della casa di produzione La Sacha Gordine. Il film una volta terminato viene presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, accolto con favore dalla critica internazionale e accompagnato da proteste e clamori che giungono, da parte cattolica, fino al limite della scomunica come dimostra il caso di Münster luogo in cui la chiesa impedisce la proiezione del film. Sin dal prologo, La Ronde svela la sua complessità registica, in cui, già nella sequenza iniziale emerge la cifra stilistica e avvolgente dei movimenti della macchina da presa di Ophuls: il piano sequenza iniziale viene realizzato dopo la costruzione di oltre cinquanta metri di binari, curve e scambi.
Max Ophuls segue Arthur Schnitzler nella costruzione di La Ronde come un “ballet mecanique” in cui il tema “osceno” (nell’accezione greca del fuori-scena) e l’immediatezza realistica della messa in scena si coniugano in un ritmo centripeto vorticoso e incessante volto a stritolare i propri personaggi. Oltre alla circolarità del valzer, delle riprese, delle trombe delle scale, della giostra, Ophuls progressivamente restringe lo spazio abitativo dei personaggi portandoli ad una condizione claustrofobica e inabitabile dalla quale ognuno di loro è costretto a fuggire e, di conseguenza, entrare nella storia successiva. L’assunto di fondo, quello di matrice schnitzleriana è disarmante nella sua linearità e (apparente) banalità: l’amore dapprima si esprime attraverso un’irrefrenabile passione, un inesausto desiderio fisico e poi, dopo il coito, si spegne progressivamente nella routine e nell’abitudine. Gli incontri nel film, altro non sono che pura pulsione biologica in cui il momento della seduzione, più che preambolo necessario, risulta essere mero ornamento. Lo sguardo oggettivo di Ophuls è impietoso e imperioso nel tratteggiare una società manipolata e manipolabile, che ha rinunciato ai sentimenti e che sembra essere travolta dal vuoto e dall’assenza. A dimostrazione di ciò è interessante notare l’uso della parola nel film: quasi sempre contraddittoria, ipocrita e inautentica, modulata sulla retorica che accompagna l’idea ( e non la realtà) di ogni ruolo sociale, che trova perfetta sintesi nell’affermazione del conte: “Proprio le cose di cui si parla…non esistono”.
I dieci episodi di La Ronde (id., 1950) seguono un identico impianto strutturale: la casualità di un incontro tra un uomo e una donna e il loro dialogare mirato ad un unione sessuale, l’amplesso (suggerito e mai mostrato), e l’abbandono tra i due repentinamente giunti alla condizione di sconosciuti l’uno all’altra. Quella messa in scena da Max Ophuls è a tutti gli effetti una catena in cui ogni anello è legato a quello successivo attraverso la presenza o dell’uomo o della donna. Così facendo il regista vede ogni sui personaggio nella duplice veste di “vittima e carnefice”. La Ronde, nonostante le apparenze, è un film funereo, un film in cui si celebra il “nero” come l’unica forma di riempimento possibile per una società spersonalizzata e imbalsamata. Il “nero” in cui domina l’assenza, quello della dissolvenza che nega la visione del rapporto sessuale e che al contempo esalta il vuoto pneumatico di esistenze allo sbando. Provocatoriamente Ophuls compensa la miseria morale dei suoi personaggi con un’ostentazione barocca e ridondante dei costumi da loro indossati; posiziona le sue “pedine” in una città, Vienna al tempo della Belle Epoque, volutamente di cartapesta: uno scenario fittizio, un palco, per una recita teatrale di manichini diretti e orchestrati dalla sagacia e dall’arguzia del “meneur de jeu”. Espliacativo, a tal proposito, è l’epilogo dell’episodio del giovane studente e della signora, che mostra un valzer danzato dai due inquadrati dal basso in modo da sembrare quasi sospesi nel loro volteggio, con alle spalle una giostra che ruota a sua volta (ma in senso inverso) su cui sono posizionate in pose plastiche altre coppie borghesi che li guardano, vi si rispecchiano e ammiccano al loro essere ipocriti; poi il “menu de jeu” introduce, con malecelata costernazione e alterità l’episodio successivo. Non a caso, quindi, il regista elimina quasi del tutto i nomi dei personaggi per lasciare spazio ai ruoli sociali che essi rivestono: archetipi paradigmatici prima ancora che individui. Al centro della società c’è il nucleo familiare, quello composto da marito e moglie. Max Ophuls, che posiziona l’episodio in questione al centro del film, si diverte a sbeffeggiare la morale borghese attraverso lo svolgimento stesso della sceneggiatura. Per il regista, l’ipocrisia dominante che accomuna tutta la società, a partire dalla famiglia per giungere alla prostituta, è evidenziata da un’antropologia sessuale che rifiuta ogni condizionamento ma che, al tempo stesso pretende di autolimitarsi.
È curioso vedere, come i personaggi nei film alle buone intenzioni iniziali, facciano repentinamente seguire scelte dissolute e libertine quasi come se essi stessi rifiutassero di riconoscere la loro natura tragica e distruttiva. Emblematico è l’episodio in cui Emma, recatasi a casa del giovane studente, tenti in ogni modo di convincersi a non concedersi all’uomo, indossando persino una doppia veletta e confidando ad Alfred la volontà di fermarsi solo per pochi minuti. Successivamente, invece si scopre che non solo non ha preventivamente indossato il busto, ma che ha portato con sé un allacciascarpe, in modo da non perdere tempo ulteriore al momento di rivestirsi. È in questi piccoli scarti caustici ma eleganti, che Max Ophuls personalizza e piega alle sue esigenze artistiche il testo teatrale di Arthur Schnitzler. Scarti narrativi, che il regista orchestra attraverso una messa in scena circolare in cui il “meneur de jeu” è al contempo narratore interno ed esterno, suggeritore per lo spettatore e personificazione del punto di vista del regista all’interno del film. Lo spettatore in La ronde è introdotto e accompagnato (durante tutta la durata del film) dalla presenza costante del “meneur de jeu”, figura enigmatica che, in avvio di film, spiega essa stessa il suo ruolo: “E io? Che sono in questa storia? La ronde? L’autore? Il commento? Un passante?…Io sono voi. Proprio uno qualsiasi di voi. Sono l’incarnazione del vostro desiderio di conoscere tutto. Gli uomini conoscono solo una parte della realtà. E perché? Perché vedono un solo aspetto delle cose. Io invece le vedo tutte, perché vedo…en ronde. E sono dappertutto in una volta sola…”.
Il prologo è quindi una dichiarazione programmatica: l’eternità scorre inesorabile e ininterrotta davanti ai nostri occhi, i quali possono solo vedere la superficie delle cose, perchè nessuno può mettere il piede giù dalla giostra, la quale diventa una sorta di meccanismo infernale (e non a caso nel film rumoreggia, sbuffa, fuma ed è percorsa da ombre sinistre) che accompagna storie (apparentemente) frivole e di poco conto, trasformandole in tante piccole morti (l’amplesso, ovvero la “petit morte”). Personaggi perdenti, sconfitti prima che dalla vita da loro stessi, dalla loro incapacità di vivere e di essere sinceri, come dimostra l’episodio che vede protagonisti i coniugi Breitkopf, quello centrale in La Ronde, il fulcro attorno a cui, in senso anti-orario ruota la prima parte del film, e in senso orario la seconda parte (ecco spiegata la presenza insistente dell’orologio al centro dell’inquadratura). Emma e Charles sembrano non accorgersi del loro fallimento come coppia, ma dalle parole del marito sembra emergere la presenza di un vuoto ontologico innato nella relazione matrimoniale, quello della fedeltà cerebrale prima ancora che fisica, come dimostra il suo ragionamento sulle “pause dell’innamoramento”.
La sequenza è interamente costruita, paradossalmente, sul concetto di simmetria, una separazione speculare delle parti (sin dai letti vicini ma non attaccati) volta ad evidenziare l’ipocrisia reciproca (entrambi tradiscono e vengono traditi). Il movimento di macchina introduttivo con il carrello ad avanzare che mostra i letti da dietro la testiera è un chiaro riferimento all’anonimato di questi due individui-archetipi e contemporaneamente una negazione della loro fisicità. Non a caso, per gran parte della sequenza, i coniugi appaiono come due “pietre” incastonate nella scenografia della camera da letto che, non solo li sovrasta nella sua grandezza, ma attraverso la regia di Ophuls, li cancella progressivamente dal quadro fino a schiacciarli nell’angusto spazio del piccolo arco sotto l’orologio: scelta che definisce l’isolamento e la separazione che regnano all’interno del matrimonio borghese (e non).
Come afferma all’inizio il “meneur de jeu” aspetto centrale della vita e della messa in scena è il concetto di vedere, poiché è quello attraverso cui si manifesta il desiderio: desideriamo ciò che vediamo. Lungo tutta la durata de La Ronde ci si trova di fronte ad un numero pressoché infinito di specchi, vetri, superfici riflettenti in cui “guardare dentro” o attraverso cui “vedere oltre”. Max Ophuls, dunque, costruisce una messa in scena voyeuristica a 360° in cui lo sguardo è onnisciente e in cui l’aspetto “pornografico” dell’amplesso è volutamente (non solo per questioni censorie) tenuto fuori-campo nello spazio indefinito e pregnante dell’assenza. Nel penultimo episodio il discorso sul “vedere” diventa esplicito, quando l’attrice, durante i preliminari del coito, dice al conte: “Possiamo quasi immaginare che sia notte e che nessuno possa vederci…”, ma la m.d.p. si alza e con un breve movimento di macchina va ad inquadrare lo specchio posto sul letto, per cui non solo “loro” si possono vedere, ma possono essere visti da tutti gli spettatori. Max Ophuls utilizza qui il fuori-campo dell’amplesso per insertare un breve segmento ironico con il “meneur de jeu” che taglia la pellicola dicendo “censura…”, poi torna al centro della scena con i due che si rivestono. Questo breve passaggio, è però fondamentale nell’economia del film e nella definizione delle regole dello spettacolo (tema centrale in tutto il cinema di Ophuls), perché spiega al meglio le parole iniziali e il ruolo del “meneur de jeu”. “Girano girano i miei personaggi, la terra gira giorno e notte, l’acqua piovana diventa nuvole e le nuvole ricadono come pioggia. Donne oneste, tenere sartine, aristocratici o soldati… Quando arriva l’amore a sorprenderli, girano, danzano con lo stesso passo. Adesso inizia la ronde, è l’ora calma in cui muore il giorno…”
di Fabrizio Fogliato
LA RONDE
TITOLO ORIGINALE: LA RONDE
GENERE: Drammatico
ANNO: 1950
PAESE: Francia
DURATA: 95 Min
REGIA: MAX Ophuls
SCENEGGIATURA: Jaques Natansono, Max Ophuls (dal romanzo “Der Reigen” di Arthur Schnitzler)
FOTOGRAFIA: Christian Matras
MONTAGGIO: Leonide Azar
MUSICHE: Oscar Straus
PRODUZIONE: Film Sacha Gordine
ATTORI: Anton Walbrock, Simone Signoret, Serge Reggiani, Simone Simon, Daniel Gelin, Danielle Darrieaux, Fernand Gravey, Odette Joyeaux, Jean-Louis Barrault, Isa Miranda, Gerrd Philipe