L’insostenibile leggerezza del sesso…
Tra tutti i generi del cinema italiano degli anni’70, l’ “erotico-esotico” è sicuramente quello più autoctono, perché legato alla scoperta di qualcosa che, per l’italiano-medio del periodo, appare come lontano e misterioso. La ricerca di culture straniere, la maggior possibilità di spostamento grazie al diffondersi dell’utilizzo dell’aereo come mezzo di trasporto e l’idea (fallace) di una presunta libertà e spensieratezza sessuale dei popoli indigeni, identificano i luoghi esotici come dei veri e propri “paradisi”. Luoghi lontani e desiderati, dove l’italiano-medio sogna di andare a vivere e/o trascorrere un’intensa vacanza (con tanto di esperienza sessuale con un’indigena), per poi poterla raccontare agli amici. Ambientati prevalentemente in luoghi caraibici, i film erotici-esotici seguono tutti più o meno lo stesso copione: un europeo/a intraprende un viaggio in una località misteriosa per sfuggire allo stress della quotidianità, dove spesso cerca (più volte incontra) un legame affettivo con una abitante locale. I film si aprono con un aereo che decolla (o atterra) verso destinazioni lontane (Africa, Polinesia, Caraibi…) e termina con lo stesso aereo che decolla per riportare i protagonisti nella realtà di tutti i giorni, trasportando uomini/donne occidentali (quasi) sempre delusi, sconfitti e/o sofferenti. Nel 1978 il regista Joe D’Amato si trova nei Caraibi per le riprese dell’action-movie Duri a morire. In quel periodo si reca a Santo Domingo per girare l’erotico-esotico Papaya dei Carabi, e qui il produttore del film gli commissiona quattro film erotici-hard da girare sul posto. Sesso Nero viene girato nel 1978, ma viene distribuito nelle sale italiane solo due anni dopo, diventando ufficialmente il primo film pornografico del cinema italiano.
Joe D’Amato, cioè il compianto Aristide Massaccesi, inizia a lavorare nel cinema sin da giovanissimo, frequentando i set di maestri come Jean Renoir durante le riprese de La carrozza d’oro (1958), mentre vent’anni dopo è coinvolto a vario titolo sui set di Jean-Luc Godard e Franco Zeffirelli. Dopo aver frequentato il cinema a 360°, trovandosi a lavorare in ogni suo settore, nel 1972 esordisce alla regia con il western Scansati…a Trinità arriva El dorado, il primo dei suoi oltre 200 film (firmati con oltre 65 pseudonimi), sparsi in tutti i generi della cinematografia nazionale e internazionale. Ma è nel secondo lustro degli anni ’70 e nel genere erotico che il regista romano (un vero e proprio artigiano, nel senso più alto del termine), offre il meglio di sé, e si spinge in territori, altrimenti inconsueti per il suo cinema, come quelli di porre alla base dei suoi film del periodo un velato (ma non troppo) intento critico verso la “guerra dei sessi” in atto. In Emanuelle e Françoise, le sorelline (1975), il sesso non è solo il detonatore del conflitto, (sottolineato da una musica western) tra Carlo ed Emanuelle, ma è l’elemento debordante (anche sullo schermo) che trasforma la seconda parte del film in un trip allucinato dove i confini tra reale e onirico si confondono inevitabilmente. È una scelta non casuale che mescola il desiderio di possesso del “maschio” recluso e incatenato con l’offerta intangibile (perché nascosta da un vetro/specchio) del corpo femminile e della lussuria. Siamo quindi di fronte ad un “maschio” impotente, che, verso la fine del film, rischia l’evirazione, incapace di opporre argomenti ad una donna che è diventata imprevedibile (aggettivo che Carlo rivolge più volte nei confronti di Emanuelle) e che ha letteralmente preso in mano le chiavi del rapporto uomo-donna. Quello del film è un “maschio” ormai chiuso tra quattro mura, asfittiche e insonorizzate che può solo più sognare la propria egemonia e a cui non rimane altro che il desiderio di possesso. Le allucinazioni di Carlo, che nel finale del film immagina un’orgia di donne distese ai suoi piedi e desiderose di possederlo, e quella del banchetto porno-antropofagico, dove la sessualità promiscua si mescola alla perversione del cannibalismo, sono appunto solo più visioni. L’unica arma che rimane al “maschio” per contrastare la donna in ascesa è quella di una violenza livida e rancorosa, (che egli mette in atto nel finale) che, anziché garantirgli una nuova libertà, beffardamente lo sprofonda nell’agonia e nel tormento di una prigionia perenne.
La scelta di utlizzare, in Emanuelle e Françoise, le sorelline, un linguaggio teoricamente (perché non ancora esplicito) pornografico, lo pone non solo come anticipatore verso il cinema che verrà, ma anche come trade d’union tra il mondo “chiuso” delle città e la fuga verso luoghi esotici e paradisiaci. Questo perché è proprio in quei luoghi che il “maschio” (illusoriamente) cercherà il riscatto, esercitando il suo potere nei confronti della “negra”, la vittima inferiore e sacrificale necessaria per riaffermare la propria virilità. Che questo passaggio avvenga attraverso il cinema hard e che il pioniere nel campo sia lo stesso Joe D’Amato non è casuale, visto che già in Emanuelle e Françoise, le sorelline, egli ha già affinato le basi teoriche del discorso. Nel film, Carlo è richiuso e incatenato dentro uno stanzino e l’unico atto che gli è consentito è quello di “guardare” corpi nudi avvinghiati tra loro. Il voyeurismo di Carlo, è per traslato quello dello spettatore, che, attraverso il cinema hard, vive nella dimensione illusoria di poter possedere ciò che vede sullo schermo: la promessa fasulla di un “paradiso artificiale” dove eccitazione e sessualità trovano compimento. Che la distanza tra l’occhio dello spettatore e il corpo della donna sia mediata dal filtro dello schermo/specchio, accentua la componente di desiderio e annulla il realismo dell’evento. Lo specchio dietro cui Carlo è nascosto è un’immagine falsa (perché intangibile) del suo desiderio e non a caso il commissario, di fronte alla morte di Emanuelle, e riferito allo specchio, afferma: “Una lastra fotografica che mai nessuno riuscirà ad impressionare”, ignaro che l’assassino si nasconda dietro di esso. Quello della pornografia è un ulteriore elemento di fuga: uno scatto in avanti verso il limite del mostrabile e contemporaneamente la concretizzazione della sete di possesso del “maschio” che si crede ancora convinto di essere in grado di dominare.
Ma è l’anno successivo, il 1976, che lo stesso Joe D’Amato mette in scena la vertigine della visione (che nella versione per il mercato estero contiene alcune scene di sesso esplicito) grazie ad una sceneggiatura di Maria Pia Fusco (tratta da un soggetto di Ottavio Alessi e Piero Vivarelli), dirigendo Emanuelle in America, film che da inizio al ciclo porno-fumettistico imperniato sull’eroina emancipata Emanuelle Nera (Laura Gemser [Laurette Marcia Gemser]). Eroina, che sin dall’inizio del film dichiara il suo intento ed esprime il suo valore simbolico, quando rivolta al “filosofo” Tony che vuole ucciderla perchè simbolo di peccato e corruzione sessuale, prima di praticargli un fellatio, dichiara: “E’ vero, hai ragione, a volte il sesso è vergogna, corruzione, prostituzione…ma non sempre… quando è libero, quando è il frutto di una scelta…allora è una molla vitale, allora è pulizia, è felicità…è amore…anche se solo per pochi istanti…” Il film in questione si muove su due binari paralleli, da un lato quello exploitativo e sessuale che viene spinto fino e oltre i confini dell’hard, dall’altro quello teorico sulla profondità dello sguardo in relazione alle barriere del mostrabile. Il primo è risolto con una miscellanea di amplessi eterosessuali e/o lesbici mostrati (quasi) senza soluzione di continuità, ma con una caratteristica ben precisa quella di essere rappresentati attraverso le dinamiche dell’orgia.
Il sesso, in Emanuelle in America è rappresentato come un carnevale perenne in cui tutti si spogliano, si accoppiano e/o si masturbano: una dimensione orgiastica, collettiva e disperata, in cui la carne si confonde fino a diventare un’enorme massa indefinita e semovente (le scene della festa veneziana, di cui si ricorderà Kubrick per il suo Eyes Wide Shut (1999) e quelle nella piscina di Erik Van Derren). Ma il sesso è anche diventato una necessità compulsiva e patologica: nel film infatti, non esistono rapporti umani, anche i più sfuggenti e casuali (come quello con l’autista che deve accompagnare Emanuelle in aeroporto), che non abbiano implicazioni sessuali o si risolvano tramite un amplesso. In tutto ciò è comunque la donna ad essere “regina e dominatrice”, visto che Emanuelle, prima umilia il miliardario Erik Van Derren (interpretato da Lars Bloch e trasposizione del mito di Playboy Hugh Hefner) incalzandolo: “Tu hai paura delle donne. Le donne che parlano ti terrorizzano…potrebbero distruggerti. Povero Erik, non puoi niente nella vita;puoi solo illuderti di essere il padrone…ma sai di non esserlo”, e poi si trova ad indagare in un club, il Chez Fabion, sito in un villaggio caraibico, dove ricche e attempata signore, possono usufruire dell’harem maschile messo a disposizione da un’imperturbabile e misteriosa “padrona” emissaria di una fantomatica e potentissima organizzazione.
di Fabrizio Fogliato