Partitura incompiuta per un film mancato
Com’è triste aver vent’anni… tra il proibito e l’illusione,
scoprire che la vita peggiorerà.
Gli entusiasmi dei vent’anni… stai attento a come vivi!
Ormai non c’è altro da credere che non bruci in un momento”
(Spadaccino/di Leo – Gloria Guida)
Lia (Gloria Guida) e Tina (Lilli Carati) sono due belle ragazze che si incontrano per caso su una spiaggia. Decidono di andare a Roma facendo l’autostop. Giunte nella capitale si procurano (a modo loro) da mangiare, caffè e sigarette, e poi si dirigono verso la comune di Piazza Dante 21 gestita da Michele Palumbo (Vittorio Caprioli) detto “il nazariota”. Qui intreccino diversi rapporti più o meno amichevoli con “il riccioletto” (Vincenzo Crocitti), Rico (Ray Lovelock), Argiumas (Leopoldo Mastelloni) …Personaggi strani, anomali, quasi spettrali che popolano uno spazio vuoto e desolante. Per mantenersi e su invito del “nazariota” le due giovani cominciano a vendere enciclopedie nei quartier bene della capitale e anche qui incontrano uomini e donne da “fine dell’impero”, tra cui il Prof. Affatati (Danele Vargas), una borghese sola (Licinia Lentini) e un pensionato ministeriale (Fernando Cerulli). Fatto ritorno alla comune, vengono arrestate con tutti gli abitanti a seguito di una retata della polizia guidata dal commissario Zamboni (Giorgio Bracardi). Viene dato loro il foglio di via per fare ritorno al loro paese. Non ci arriveranno mai, perché sulla via del ritorno, in una trattoria isolata nel bosco si imbattono in un branco di balordi che le stuprano e le uccidono brutalmente.
Il titolo del film, come noto, prende spunto dall’epigrafe in calce alla prefazione di “Aden Arabia” opera del filosofo e scrittore Paul Nizan già amico di Jean-Paul Sartre e fervente comunista francese fino al momento dell’abiura ideologica in seguito alla firma del patto Ribbentrop-Molotov del 1939: “Avevo vent’anni… Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”.
Girato nel 1978, Avere vent’anni è in realtà frutto del perfezionamento di una vecchia sceneggiatura di Fernando di Leo risalente alla fine degli anni’60, rinforzata con appunti, dello stesso regista, presi in merito alla fine delle comuni, alla chiusura del periodo hippy e ai relativi fallimenti congiunti a quelli del femminismo e a considerazioni sociologiche dedotte da articoli di giornale e fatti di cronaca del tempo. Avere vent’anni in termini economici è un fallimento. Chi meglio del regista con la sua analisi lucida e spietata verso la sua opera (frutto di una cultura smisurata e di una statura morale e di una onestà intellettuale assai rare nel mondo del cinema italiano), può spiegarne motivi ed errori? “Devo confessare che Avere vent’anni m’aspettavo fosse un successo. Riconosco che non fosse un gran film, ma era coraggioso, arrogante, abbastanza socializzato, con gli attori quasi tutti giusti; invece se non fu un flop, poco ci mancò. A chi si deve il tentativo di recuperare gli incassi che non c’erano stati? Agli esercenti che tagliarono il finale tragico e fecero finire il film ballando? Al produttore che riceveva le lamentele dei distributori? Al pubblico che usciva scioccato perché due note divette consolatorie venivano massacrate malamente? […] La posta era alta (come spesso nei miei film, ma il risultato, come sempre nei miei film, assolutamente inferiore all’assunto) e la illustrai a dovere. […] L’erotismo non era veramente tale; L’ambientazione non viveva mai, restava a livello di citazione; la trasgressione, che era il contenuto che mi interessava di più, non riusciva mai ad avere la forza di diventare significante; Il “mondo” con cui le ragazze si scontravano non aveva la pregnanza squallida per il contrasto necessario all’ideologia del film. Insomma avevo sbagliato il 50% della sceneggiatura e il 50% della regia; non ero stato all’altezza dell’assunto: credevo di girare roba nuova e invece mi trovai tutta roba vecchia, irritante ad un serio esame. […]Forse quello che volevo dire piaceva solo a me e non cercai la forma giusta per farlo piacere al pubblico, o forse ciò che piaceva a me non sarebbe piaciuto a nessuno. […] Dopo tutti questi anni, osservazioni più pacate mi inducono a pensare che non debbo avere troppa fiducia nel “mestiere”, credendo di poter risolvere qualsiasi operazione cinematografica. […]Provai a scordarmi tutto quello che avrei voluto dire quando montai il film e a fare un prodotto più modesto. Ma anche sotto quest’ottica Avere vent’anni faceva acqua: era un filmetto porno-sadico, con qualche luce qua e là e basta… Molte sequenze erano inappuntabili, alcune situazioni buone, ma il film, un film, vale per l’insieme e non per momenti validi. L’operazione mi era scivolata completamente dalle mani” (Intervista a Fernando di Leo A cura di Davide Pulici e con la collaborazione di Manlio Gomarasca in Nocturno Libri – Fernando di Leo.Prima Parte).
Chi scrive concorda pienamente con il giudizio al vetriolo del regista, ma al contempo ritiene che il film abbia un valore intrinseco che va al di là della singola opera e della semplice messa in scena. La pellicola in questione non può essere analizzata e compresa nella sua pienezza se non viene intesa come la parte terminale di un progetto, quello che è costituito da una “falsa trilogia” composta da Brucia ragazzo brucia (1968), Amarsi male/Brucia amore brucia (1968) e Avere vent’anni (1978). Quest’ultimo, alla luce del percorso artistico che lega i tre film (accomunati, non casualmente da un esito altalenante), rappresenta una sorta di abiura feroce, e rabbiosamente volgare, da parte del regista verso una libertà (sessuale, sociale, civile…) che l’Italia ha vissuto solo a livello di illusione, ha sfiorato ma non ha mai afferrato, ha temuto e, di conseguenza, ha represso (nel sangue). A testimonianza di ciò c’è un breve passaggio della sceneggiatura, una sorta di monito morale espresso dal regista per bocca dell’etereo (e unico puro) Argiumas: “Voi siete infelici, avete il cuore corrotto, siete feriti, schiavi delle vostre passioni e prigionieri dei vostri desideri infranti”. Anche il prologo del film , come vedremo, è la sintesi per immagini della visione nera del regista sul rapporto tra i sessi e sulla società italiana: il marito di Clara in Brucia ragazzo brucia è il “padre” del balordo a capo del branco di Avere vent’anni. I giovani che nell’epilogo del film del 1968 si allontanano dalla spiaggia al tramonto, sono gli stessi cresciuti (e imborghesiti) che si ritrovano all’alba sulla spiaggia che apre il film del 1978. L’esito discontinuo delle tre pellicole (di cui la prima rimane la migliore) è sicuramente dovuto alla passione del regista verso i temi trattati: una passione libera, priva di schematismi e/o artifici, ma profondamente spontanea nel raccontare “quello che gli altri non dicono”: l’orgasmo femminile, l’ipocrisia del conformismo contestatario, il maschilismo/fascismo endemico della società italiana.
di Fabrizio Fogliato