La fuga non conduce in nessun luogo ma porta, solo, alla perdita dell’orientamento
Essential Killing è una poesia dipinta sul creato a colpi di pennellate lente, rigorose e sinuose. Un apologo sul rapporto tra uomo-ambiente, ma soprattutto sul rapporto tra animale-uomo e ambiente ostile. Un apologo antropologico, che non ammette cedimenti e in cui ogni immagine è utile e necessaria, ogni inquadratura è essenziale e mai sprecata. La dimensione su cui si muove la vicenda è quella basica dell’istinto come motore dell’agire umano. Azioni brutali e selvagge che si susseguono in una narrazione, solo apparentemente elementare in cui ogni snodo narrativo è rappresentato al grado zero del suo sviluppo. L’atmosfera straniante, “aliena”, barbara in cui si muove il protagonista non fa differenza tra il deserto di pietra delle montagne di Tora Bora e i boschi fitti e sconfinati del nord della Polonia. È uno scenario necessario che fa da contrappunto al movimento di un personaggio che grazie all’assenza di dialogo viene raccontato come “puro” e privo di qualsivoglia implicazione morale. Quello dell’uomo protagonista del film è un comportamento legittimo nella sua dimensione animale, un comportamento dettato dalle circostanze in cui si trova e in merito al quale è praticamente impossibile esprimere un giudizio. Jerzy Skolimowski, con la sua macchina da presa tratteggia un affresco che pesca nelle ambientazioni malinconiche della pittura di Caspar David Friedrich, delineando un luogo in cui tutto sembra essere ostile e avverso nei confronti dell’uomo. Una natura selvaggia che rifiuta l’uomo come se fosse un intruso: gli nega da mangiare, da bere, lo costringe al gelo durante la notte e gli nega il calore del sole durante il giorno. Non è casuale che il cibo (il pesce crudo) l’uomo lo rubi a un pescatore, che il calore lo trovi nella casa della donna nel finale del film e che solo qui possa bere anche qualcosa di caldo.
Il protagonista (Vincent Gallo), un soldato afghano, sulle montagne di Tora Bora compie un agguato ai danni di tre soldati americani. Intercettato da un elicottero viene catturato in seguito all’esplosione di un missile che gli provoca gravi lesioni acustiche e lascia nelle sue orecchie un ronzio fastidioso e persistente che gli impedisce di sentire le voci degli altri. Dopo essere stato internato in un campo di prigionia e sottoposto alla tortura del waterboarding viene trasferito in Europa. Durante un viaggio in un bosco dell’est, a seguito dell’attraversamento della strada da parte di alcuni cinghiali uno dei mezzi del convoglio militare si ribalta cadendo giù da una scarpata e lasciando così nuovamente libero, ma in una terra sconosciuta e inospitale, il protagonista della vicenda. Solo, con le manette ai polsi e alle caviglie, nel freddo gelido del nord della Polonia l’uomo attraversa la boscaglia, nutrendosi saltuariamente di formiche, corteccia d’albero e bacche allucinogene. Il confronto con la natura è aspro e violento: braccato dai militari che gli danno la caccia, perennemente in fuga, spaesato e disorientato, l’uomo uccide per istinto e per bisogno di sopravvivere. Prima che la sua corsa termini, incontra una donna (Emmanuelle Seigner) sordomuta e vittima delle violenze del marito. La donna accoglie l’uomo, lo cura, gli restituisce dignità e lo riaccompagna fuori nel freddo. L’uomo si dirige verso l’ignoto su un cavallo grigio e muore di emorragia interna, mentre l’arrivo della primavera scioglie la neve e fa emergere la vegetazione.
“Ho passato molti anni a Malibù, in una splendida casa con vista sull’oceano. Ho avuto una vita piacevole e serena, ho dipinto e, per fortuna, ho avuto un successo considerevole con i miei quadri. Mi son esibito con i miei lavori in tutto il mondo e ne ho venduti a grandi musei e collezionisti famosi. Jack Nicholson possiede dei miei quadri, così come ne aveva Dennis Hopper. Tre dei miei quadri erano appesi nella sua famosa casa progettata da Frank Gehry a Venice, in California, accanto ad alcuni lavori di Basquiat. Una vera soddisfazione. Stavo comunque iniziando ad essere affamato di cinema, volevo girare di nuovo, ma al tempo stesso ero molto realista e mi chiedevo; chi sono ora? Vivevo in California ma non avevo nessun contatto con produttori o colleghi registi. I miei amici del settore erano lontani, per questo, quando ho deciso di voler dirigere di nuovo un film ho capito che sarei dovuto tornare in Polonia. Bisogna anche ammettere che in Polonia esiste un istituto governativo, il Polish Film Institute, sorprendentemente ricco, che finanzia ogni progetto ambizioso senza obblighi commerciali. Io stesso volevo dimenticare i miei film più commerciali degli anni ’80. Così ho deciso di abbandonare la mia casa sull’oceano, le spiagge, il sole e di spostarmi in un posto che fosse volutamente remoto. La fortuna mi ha fatto trovare questa meravigliosa costruzione tedesca nella foresta, decisamente confortevole e lontana dalla gente. Adoro avere la foresta tutta intorno a me, sentire gli animali che la popolano, passeggiare con i cani. La casa di Malibù comunque l’ho venduta per produrre il film, avevo l’appoggio del Polish film institute e degli altri promotori ma è sempre avere difficile mantenere un buon flusso di cassa quando si realizza un film dal budget alto come questo. Così per non far mai fermare i lavori e non avere mai mal di testa di natura economica ho deciso di vendere la casa e mettere i miei soldi in questo lavoro. In qualche modo è stato anche un mezzo per chiudere una parte della mia vita, niente più California”. (Jerzi Skolimowski – Close-Up, 10 settembre 2010)
Secondo Skolimowski l’uomo può esistere e sopravvivere solo in relazione a un suo simile, come dimostra l’incontro finale con la donna, la quale essendo sordomuta è nelle stesse condizioni del prigioniero e di conseguenza, la loro comunicazione si svolge nuovamente a livello basico. L’accoglienza (della donna) dai rimandi apparentemente evangelici, in realtà si muove in una dimensione ben più ambigua e disturbante. Lei continuamente vessata dalle violenze e dalle angherie inflittele dal marito riconosce nel prigioniero un uomo selvaggio e brutale come il suo coniuge, uno dei tanti, un elemento del “branco” che necessita di cure e attenzioni e che, non a caso, sembra ottenerle grazie alla presenza della pistola. La complessità del plot, che non appare ad una prima visione, è articolata secondo criteri antropologici. L’idea di partenza, da cui nasce il film stesso, appartiene alla reazione di fronte all’imprevisto da parte dell’uomo come racconta lo stesso Skolimowski:
“A dire il vero una parte del film mi è venuta in mente vicino casa mia, a circa venti chilometri di distanza, sempre nella foresta, vicino ad una zona militare. Lungo la strada che si percorre per arrivare in questo luogo passano infatti molti veicoli dell’esercito, e mi son sempre chiesto cosa trasportassero nei loro mezzi. Un paio di inverni fa stavo guidando proprio su questa strada, il manto era molto scivoloso, e arrivato in un curva a picco su di un precipizio, fui costretto a frenare bruscamente rischiando di slittare e cadere nel burrone. Fu in quel momento che mi venne in mente una scena. Cosa accadrebbe se uno di quei convogli, in una strada così sdrucciolevole, frenasse bruscamente, magari a causa di un gruppo di animali di passaggio? Se un cervo o una volpe tagliasse la strada ad un mezzo militare e questo, nell’incidente, cadesse giù per il dirupo? Potrebbe, in una situazione simile, fuggire un prigioniero? In quel momento un’immagine del film mi è balenata in mente. Mi son detto, questo si che sarebbe un inizio realistico per la mia storia. Da lì ho iniziato a pensare ad una serie di situazioni che costituissero il racconto vero e proprio. Avevo l’incipit , ma a me serviva solo a dare le informazioni più strettamente necessarie, le coordinate per capire il del film, per chiedersi: come se la caverà quest’uomo nel bel mezzo del nulla?” (ibidem)
Il protagonista di Essential killing ha paura, è intriso di paura, è generato dalla paura (come dimostrano i flash-back, seppur eccessivi e ridondanti). È un animale istigato alla violenza da una formazione militare volta a spersonalizzare l’individuo. È un uomo in fuga da se stesso, costretto ad affrontare un nemico incomprensibile e costretto a vivere in una dimensione irragionevole. Progressivamente il suo comportamento degenera, uccide a sangue freddo per paura di essere scoperto, non si ferma neanche di fronte alla donna che allatta il neonato e per paura di morire si getta sul suo seno per succhiarne il latte (in quel momento unica aspettativa di sopravvivenza). È un uomo violentato nella sua dimensione interiore, il suo mondo si manifesta solo ed esclusivamente attraverso il ricordo, mentre quello che è costretto a vivere è un presente fatto di suoni incongrui e persistenti che squarciano il suo udito e che ne minano definitivamente la ragione.
Sarebbe facile associare Essential Killing al tema della follia, ma la scelta autoriale del regista è in realtà ben più profonda e destabilizzante. Egli mira a rimettere in scena, in un presente dominato dalla natura selvaggia, l’irrompere della barbarie declinata secondo le coordinate dell’istinto di sopravvivenza. Riprende alcuni temi di The Shout (L’Australiano, 1978), soprattutto nel confronto tra civiltà e barbarie, ma elimina l’elemento magico e mefistofelico del film precedente per lasciare spazio ad una dimensione intrinseca all’essere umano pronta ad esplodere in qualunque momento le condizioni ambientali lo contemplino. L’urlo mostruoso e folle del film precedente ritorna qui attraverso il ronzio acustico di cui è vittima il protagonista: un sibilo ineliminabile pronto a scardinare ogni logica comportamentale. In Essential Killing l’animale uomo interagisce solo con l’animale tout-court, come dimostra il rispetto, e quasi il timore del protagonista verso i cervi e, soprattutto l’episodio in cui il cane, vittima di una tagliola, viene liberato dall’uomo.
L’azione in sé non ha nulla di umanitario, ma è pura necessità, visto che grazie alla fuga del cane l’uomo riesce a far perdere le sue tracce; è altresì vero che egli ha appena vissuto la stessa esperienza: ha dovuto liberarsi da una tagliola che gli ha ferito il piede. Sarà lo stesso cane, non a caso, a svegliarlo, nel finale del film, impedendogli così di morire congelato e sarà sempre l’animale a guidarlo verso l’unico momento di conforto vissuto. La legge di Essential Killing è quella dell’obbligo della sopravvivenza fino allo stremo delle forze: nel film ogni cosa spinge l’uomo verso la morte, il paesaggio si fa personaggio “terzo”, metafora di una lotta inesausta contro l’inconoscibile, e la dimensione figurativa si muove progressivamente verso l’astrazione. La morte dell’uomo coincide con la rinascita della natura dopo l’inverno. La fuga non conduce in nessun luogo ma porta, solo, alla perdita dell’orientamento.
di Fabrizio Fogliato
ESSENTIAL KILLING
TITOLO ORIGINALE: ESSENTIAL KILLING
GENERE: Drammatico
ANNO: 2010
PAESE: Ungheria, Irlanda, Norvegia, Polonia
DURATA: 83 min.
REGIA: Jerzy Skolimowski
SCENEGGIATURA: Jerzy Skolimowsk, Eva Piaskowska
FOTOGRAFIA: Adam Sikora
MONTAGGIO: Réka Lemhényi, Maciej Pawliński MUSICHE: Paweł Mykietyn
PRODUZIONE: Recorded Picture Company, Element Pictures, Skopia Film
ATTORI: Vincent Gallo, Emmanuelle Seigner, Stig Frode Henriksen, Nicolai Cleve Broch