Cecil. B. DeMille: “Il pubblico ha sempre ragione. Faccio i miei film per il pubblico non per la critica.

 

La realizzazione di film della durata minima di 5-6 bobine, superiori dunque all’ora, a partire dagli anni ’10, allunga il periodo delle riprese, e impone la figura del regista (cioè di quello che all’epoca viene chiamato “Man behind the camera”); l’allungarsi della vita “del set”, trasforma la lavorazione di un film in qualcosa di avventuroso e imprevedibile, che nulla ha più a che fare con la quotidianità delle riprese di un giorno per i film da venti minuti. Per questi motivi, il regista si impone come figura “eroica”, al quale è demandato l’arduo compito di portare a termine il film che ha accettato di girare. Cecil Blount DeMille nasce il 12 Agosto del 1881 ad Ashfield in Massachusetts, e fin da piccolo entra in contatto con l’ambiente dello spettacolo, grazie soprattutto al padre Henry, insegnante alla Columbia University e predicatore di sermoni, il quale assieme alla moglie Mathilda scrive testi per il teatro. Nel 1900 il giovane DeMille inizia a scrivere per il teatro e a recitare assieme al fratello maggiore William. Attratto dal cinema, fonda una propria casa di produzione cinematografica, la “DeMille Play Company”. Nel 1913, dopo aver assistito entusiasta a The Great Train Robbery di Edwin S. Porter (1903), si unisce a Samuel Goldwyn e a Jesse L. Lasky e fonda la “Jesse Lasky Feature Play Company”, che di lì a poco diventerà la Paramount Pictures. A partire dagli anni ’20, dopo aver attraversato gli anni ’10 con una serie di commedie problematiche (ed ad alto tasso erotico, come Old Wiwes for new (1918) con Gloria Swanson) sulla relazione matrimoniale, inizia ad affermarsi come realizzatore di film biblici, solco nel quale proseguirà la sua carriera fino alla fine degli anni ’50. DeMille muore il 21 Gennaio 1959.

Tra i “grandi” degli anni ’10, Cecil B. De Mille, è il primo a capire che al pubblico interessano solo due cose (secondo la celebre definizione di Benjamin Hampton): “soldi e sesso”. Ma de Mille è anche l’unico regista hollywodiano del periodo a comprendere l’importanza di non contrapporsi al divismo attoriale, ma al contrario di favorirlo, alimentarlo e promuoverlo, per ottenere il risultato di brillare di luce riflessa. Allo stesso modo, egli costruisce il rapporto con i produttori, non su uno sterile antagonismo, bensì su una conveniente condiscendenza, al punto che è egli stesso ad assumere i comportamenti tipici del produttore (e non del regista “autore”, alla David W. Griffith), come dimostrano i suoi sforzi di intercettare le oscillazioni del gusto popolare, oltre a stimolare attraverso i suoi film, l’interesse per il mondo della moda, del design e della pubblicità. Con il suo primo film da regista, The Squaw Man (1913), il regista inizia la sua attività realizzativa attraverso un cinema inteso come “arte” industriale in cui i termini produzione e rappresentazione sono da considerarsi indissociabili tra loro. Il suo intento è quello di realizzare film in cui la spettacolarità è ottenuta attraverso la rappresentazione del dramma, all’interno di storie costruite attorno a gruppi di poche persone destinate, prima o poi a confrontarsi e a confondersi con la folla. Da un regista che afferma: “Il pubblico ha sempre ragione. Faccio i miei film per il pubblico non per la critica. Ogni volta che faccio un film, la stima dei critici dei gusti del pubblico americano scende del 10%”, è logico aspettarsi una condiscendenza pedissequa verso la “pancia” del pubblico; invece DeMille è abile nel solleticare gli istinti più bassi (basta pensare alle commedie “sexy” degli anni ’20 o al periodo di “Sangue, sesso e Bibbia”), ma lo è altrettanto, nell’ “ingannare” il pubblico con finali pseudo-consolatori e auto-assolutori, per poi invece apporre feroci appendici morali (lo stesso finale di The Cheat, è lì a dimostrarlo).

Con il suo cinema degli anni ’10, DeMille porta su grande schermo i gusti, le tradizioni e le mode della cultura highbrow nell’epoca di passaggio dall’era vittoriana all’era del consumismo. Dimostra, inoltre, sin da subito, un profondo interesse per una nascente industria pubblicitaria promuovendo il consumo di beni per la casa, di accessori e abiti direttamente nei suoi film, incrementando l’attenzione della middle-class americana nei confronti della moda e del design. Sostituisce la decadenza dell’eroina romantica con l’arditezza della “new woman” simbolo della nuova cultura consumistica, e incide nel profondo di un tessuto sociale americano cinico e ipocrita. The Cheat (I Prevaricatori, 1915) è uno dei molti film che DeMille diresse nel 1915 (ben 14) girandolo contemporaneamente a The Golden Chance. The Cheat, è attraversato da una recitazione sobria e anti-teatrale (cosa abbastanza inconsueta per l’epoca), ed è un opera fondamentale, perchè impreziosito dall’originale uso della luce e del chiaroscuro da parte del direttore della fotografia Alvin Wyckoff, il quale, applica, per la prima volta, il sistema di illuminazione messo a punto dal produttore Jesse L. Lasky noto come “illuminazione Lasky” che prevede la messa in ombra quasi totale della scena, illuminata da un’unica enfatica fonte di luce, spesso di taglio orizzontale su un personaggio o un oggetto, dando forza all’effetto di profondità dell’immagine. Inoltre il film di DeMille, presenta, nella parte del cattivo, una maschera attoriale, come poche altre ce ne sono state, capace attraverso la sua espressività e il succitato utilizzo della luce, di disegnare sul volto stati d’animo ed emozioni, attraverso pochi e misurati movimenti e spostamenti.

Il volto è quello di un attore giapponese, Sessue Hayakawa (il cui vero nome è Kintaro Hayakawa), che a partire dal 1914 si impone come stella di prima grandezza ad Hollywood, dove diventa uno degli attori più pagati del periodo (5.000 dollari a settimana) e in cui l’incontro con il regista Cecil B. DeMille (lavorerà con lui anche nel coevo Temptation (1915) porta alla sua consacrazione con il film The Cheat, in cui impersona un commerciante d’avorio che ha una relazione con una donna sposata. Il film, vero scandalo per l’epoca, mette in scena una relazione extra-matrimoniale e per di più multirazziale tra un orientale e una donna bianca. Il personaggio di Sessue, un malvagio, ambiguo e razionale, al contempo freddo e passionale, gli provoca l’ostilità del suo paese da cui viene additato come un traditore protagonista di quelli che i giapponesi chiamano Kokujoku Eiga (“Film della vergogna”), cioè quei film girati all’estero con attori giapponesi che ridicolizzano il paese del Sol levante. Il successo di The Cheat è così grande all’epoca, al punto da protrarsi negli anni, e obbliga i produttori, nel 1918, per ragioni diplomatiche a cambiare nazionalità e nome al malvagio giapponese trasformandolo in birmano. The Cheat ebbe diversi rifacimenti, sia negli Stati Uniti, che in Francia con Forfaiture di Marcel L’Herbier, e anche in Italia con Malia di Alfredo De Antoni (1917).

Edith (Fannie Ward) è la moglie frivola e vanesia di un agente di borsa, Richard Hardy (Jack Dean). Per soddisfare il suo desiderio smodato di abiti eleganti, investe, mal consigliata, a Wall Street il fondo della Croce Rossa di cui è tesoriera, ma l’investimento si rivela sbagliato. Per ripianare il debito, chiede diecimila dollari in prestito a Haka Arakau (Sessue Hayakawa), un ricco uomo d’affari birmano, in cambio di prestazioni sessuali. Quando, inaspettatamente, riceve del denaro dal marito che ha concluso positivamente una transazione finanziaria, Edith cerca di restituire il prestito ma il facoltoso birmano non accetta e si ritiene offeso per il mancato rispetto dell’accordo. Per questo si sente autorizzato a marchiare una spalla della donna con un ferro rovente, a indicare il suo diritto di proprietà su di lei. Nella collutazione che segue, a sua volta Edith, gli spara colpendolo a una spalla; Richard, accorso sul posto, si dichiara colpevole al posto della moglie. Nell’affollata aula di tribunale, quando il marito sta per essere imprigionato, Edith, pentita, mostra a tutti la sua spalla marchiata a fuoco salvando così Richard.

Sceneggiato da Hector Turnbull e Jeanie Macpherson, The Cheat, è un film sostanzialmente diviso in quattro parti: il rapporto matrimoniale tra Edith e Richard, la festa della Croce Rossa a casa di Haka Arakau, l’imbroglio e il processo. Sin dall’incipit o meglio, dal prologo, la presentazione dei personaggi è deputata, anche, già a raccontarne caratteri e psicologie. Attraverso una serie di quadri fissi particolarmente significativi, Cecil B. DeMille, introduce i tre personaggi principali attraverso didascalie programmatiche e immagini consustanziali. Il primo è: “Haka Arakau, re dell’avorio birmano, al quale l’alta società di Long Island rende omaggio”; alla didascalia segue l’inquadratura in mezza figura, dell’uomo vestito in abiti tradizionali ed intento a marchiare a fuoco i propri manufatti. L’utilizzo dell’ “illuminazione Lasky” disegna sul suo volto ombre minacciose e ammonitrici, rafforzate, nella rappresentazione “infernale”, dall’uso del fuoco proveniente dal braciere, che non a caso rimane l’unica luce prima della chiusura in dissolvenza. Il secondo è Richard Hardy: “Mediatore finanziario di New York” presentato mentre è intento a controllare i valori di borsa e a verificare il buon fine delle sue operazioni finanziarie. La luce diffusa che illumina la sua mezza figura, staccandola dallo sfondo nero, tende a mettere in evidenza la figura di un uomo totalmente assorbito dal proprio lavoro e isolato dal contesto sociale (come dimostreranno le inquadrature seguenti, in cui rifiuta l’invito a caccia dei propri amici, e dove si disinteressa delle loro parole). L’ultimo personaggio è Edith Hardy, (interpretata dalla diva del film Fannie Ward), che non a caso, viene presentata a parole, semplicemente (in riferimento al marito), come: “Sua moglie”, mentre l’immagine che segue si apre con un iris che mostra la sua figura attraverso gli stilemi delle fotografie di moda: la donna, seduta su una poltrona, è intenta ad accarezzare un levriero, poi si alza, si dirige verso la macchina da presa e con sguardo ammiccante si rivolge direttamente al “suo” pubblico.

Già in queste tre brevi sequenze, l’elemento centrale appare quello della ricchezza, con tutto il suo carico di rischi e opportunità. In The Cheat, infatti, il denaro entra subito nella storia sin dalla prima sequenza che, dopo aver presentato la donna come “La frivola”, segue in montaggio parallelo il rapporto a distanza (via telefono) tra il marito e la moglie, basato esclusivamente sul denaro sperperato dalla donna e mostrato attraverso i conti nelle mani del marito. Il filo rosso della ricchezza, percorre tutto il film, e innerva tutta la società in esso rappresentata: la filantropia della borghesia newyorkese verso la Croce Rossa, il rapporto matrimoniale incentrato sullo scambio di denaro (e la stessa Edith a rimproverare al marito: “Devo avere nuovi vestiti per gli eventi della Croce Rossa. Sono tesoriera del fondo”), le previsioni sbagliate dell’amico che istiga la donna a investire diecimila dollari sulle azioni della Union Copper, e infine la vita stessa di Haka Arakau, rappresentato come un signorotto feudale dell’estremo oriente, chiuso nelle stanze della sua “pagoda” tra fumi ed incensi, ma altrettanto abile nel trasformarsi in uomo della high-class newyorkese e a mimetizzarsi in essa per portare avanti i suoi oscuri traffici e interessi. Tutte le didascalie di The Cheat, sono, in un modo o nell’altro costruite attorno alla parola “denaro”, che nella seconda parte del film (quella che si apre con “L’imbroglio”, coincide con il concetto di “possesso”. La scena in cui si materializza lo scambio, non rispettato, tra sesso e denaro, tra Edith e Arakau, è incentrata sulla dominante retorica della luce, attraverso il cui uso espressivo, vengono amplificati l’erotismo, la violenza e la perversione.

Il momento centrale è quello in cui, Haka Arakau, marchia a fuoco la spalla della donna certificandone il suo possesso (poco prima egli stesso aveva spiegato alla donna il senso di quel suo marchio: “Significa che appartiene a me”). L’utilizzo straniante ed espressionista del primo piano, conferisce alla scena tutta la carica eversiva e scandalosa (che mantiene tutt’oggi), costruita da DeMille attorno al binomio peccato/colpa. Il successivo ferimento da parte della donna nei confronti di Arakau, rappresenta l’inizio del conflitto, fino ad allora rimasto latente, tra due mondi contrapposti ed esplicitato attraverso una didascalia (che nulla ha a che vedere con i dialoghi del film), volta ad affermare quasi un concetto filosofico: “L’oriente è l’oriente e l’occidente è l’occidente, e mai i due si incontreranno”. La donna, viene a sapere dell’arresto del marito attraverso il titolo del giornale, ma sono le due immagini che aprono il racconto dopo la tragedia ad essere particolarmente significative: in campo medio vediamo Richard rinchiuso dietro le sbarre della prigione, e successivamente, con lo stesso campo, Edith rinchiusa nella “prigione” dorata della sua casa. Le due immagini fungono da preambolo alle successive sequenze, che attraverso il montaggio analitico, raccontano di due “prigioni” limitrofe, in cui sia l’uomo che la donna, a causa della loro avidità sono costretti vivere, cancellando così la felicità superficiale regalata a loro dall’accumulo di denaro.

La scena finale, quella del processo, certifica da un lato la validità del concetto filosofico precedentemente espresso e dall’altro attraverso un finale cinico e beffardo, come sesso, denaro e colpa, rappresentino l’unica vera condanna per l’uomo. Al momento della condanna di Richard, Edith, fa esplodere tutta la sua rabbia, e attraverso una scena enfatica e teatrale (l’unica del film), mostra al pubblico del tribunale il marchio sulla spalla e l’affronto subito, scatenando così la folla che mira al linciaggio di Haka Arakau. Subito dopo il giudice assolve il marito, il quale dopo aver baciato e abbracciato la moglie, si dirige con lei verso la macchina da presa, attraversando un “tunnel sociale” fatto di due ali di folla festanti, mentre l’iris si stringe attorno a loro. L’uso insistito del primo piano durante la scena delle audizioni processuali, unito alla panoramica orizzontale che mostra i volti della giuria popolare, servono al regista per costruire una scena di sublime coinvolgimento emotivo, in cui sono le ombre sui volti, le pieghe della pelle, il roteare degli occhi a costruire il climax incentrato sulla presupposta furbizia dell’uomo d’affari giapponese. Quello che segue, invece, mostrato come trionfo della società americana (e quindi dell’occidente), è solo un finale consolatorio e auto-assolutorio realizzato per compiacere il pubblico, perchè dietro di esso, si nasconde l’ammonimento morale e feroce (quello del vero “imbroglio” a cui fa riferimento il titolo), secondo cui il denaro non nobilita l’uomo, ma lo rende solo più cinico.

 

di Fabrizio Fogliato

I PREVARICATORI
TITOLO ORIGINALE: THE CHEAT
GENERE: Drammatico
ANNO: 1915
PAESE: USA
DURATA: 59 Min
REGIA: Cecil B. DeMille
SCENEGGIATURA: Hector Turnbull, Jeanie Macpherson
FOTOGRAFIA: Alvin Wyckoff
MONTAGGIO: Cecil B. DeMille
MUSICHE: Robert Israel
PRODUZIONE: Lasky Feature Play Company
ATTORI: Fannie Ward, Sessue Hayakawa, Jack Dean, James Neill, Dana Ong

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