L’insostenibile solitudine dell’uomo nella città.
I titoli di testa scorrono sul susseguirsi delle incisioni di Lorenzo Vespignani: immagini in bianco e nero, sporcate da un disordine creativo, annunciano solitudine, malinconia e vecchiaia. Il film si apre con un lento carrello all’indietro che mostra uomini e donne seduti, o in piedi, all’interno di un tram che scorre monotono sui binari della città. Il movimento si ferma ad inquadrare di spalle un uomo con una camicia scura attraversata dal bianco delle bretellle: un cittadino come tanti, umile e riservato, che durante il viaggio quotidiano che lo riaccompagna a casa ripensa al lavoro e, forse, guardando fuori dal finestrino sogna e spera in un futuro migliore; o forse vede semplicemente le vite degli altri scorrere davanti ai suoi occhi, e magari si interroga su come sono organizzate quelle esistenze sconosciute e “normali”. Egli è ignaro del fatto che la morte è lì accanto a lui, silenziosa, mimetizzata, nascosta nella moltitudine degli esseri umani; è lì di fianco anch’essa mascherata dalla quotidianità e dalla frenesia della metropoli. La morte è già lì, serve solo che un controllore salga sul tram per verificare la timbratura dei biglietti e per, con sorpresa e sgomento, rivelarla agli occhi di tutti. Quell’uomo in piedi, che vede la morte di uno sconosciuto accanto a lui, vi associa il pensiero, quasi l’ossessione, della (sua) paura della morte, e “vedendola” ne rimane traumatizzato.
I giorni contati, diretto da Elio Petri nel 1962 e vincitore nello stesso anno del primo premio al Festival di Mar de la Plata, battendo a sorpresa Jules et Jim di François Truffaut, è già tutto in questo primo ragionato e meticoloso movimento di macchina: un carrello all’indietro, che diventa metonimia del percorso a ritroso che Cesare (l’uomo in piedi su cui si ferma la macchina da presa) attraversa per ritrovare le ragioni della sua esistenza. I giorni contati è un film fortemente intimista e autobiografico, girato in maniera del tutto diversa rispetto a tutti gli altri suoi film: Elio Petri, muove lentamente la m.d.p., attende che la scena si compia, dilata i tempi di durata delle inquadrature, restringe lo spazio vitale dei protagonisti, si sofferma sul volto scavato e stanco di Cesare, a cercare le radici dell’esistenza, sondando ogni angolo, ogni piega della pelle, ogni ruga alla ricerca dell’incomprensibile. Come ricorda lo sceneggiatore Berto Pelosso, I giorni contati nasce da un confronto diretto con il problema al centro del film: “Credo che per I giorni contati, un’ispirazione di base fosse il rapporto con suo padre che a un certo punto aveva smesso di lavorare. Elio aveva capito questo problema di suo padre che in quel momento non se la sentiva più”.
Cesare (Salvo Randone), un idraulico di cinquantacinque anni, che ha lavorato sodo per tutta la vita, dopo la morte della moglie si trova veramente solo. Un giorno Cesare vede morire un uomo della sua età, e quell’episodio folgora Cesare come una rivelazione: egli sapeva che alla sua età si puo’ morire, ma ora lo ha “visto”. Questa consapevolezza matura in lui una decisione imprevedibile: smetterà da oggi, e per sempre, di lavorare, per potersi godere la vita prima che sia troppo tardi. Ma è già troppo tardi per lui. I giorni di vacanza di Cesare non sono che un inutile rincorrere la giovinezza; ogni strada presa da Cesare è un vicolo chiuso, ogni speranza una delusione. E’ rimasto irrimediabilmente indietro di diversi decenni. Perfino il modo di divertirsi della gente non è piu’ il suo.
Il film, con ritmo lento e pacato costruisce una atmosfera di perenne attesa, scandendo i vari passaggi e incontri come le tappe di una via crucis quotidiana sofferente e fatta di un dolore represso e ancestrale, e affronta, dunque, temi esistenziali profondi e “privati”: quello della morte immanente non è solo il pretesto per costruire un racconto malinconico, ma è soprattutto un tema che permette al regista di attuare un percorso “à rebours” su un passato esistenziale fatto di rimpianti e solitudine, di una vecchiaia che avanza inarrestabile e di un’esigenza di provare finalmente a vivere. I giorni contati è un road-movie dell’anima costruito su un reiterato senso di “sospensione”, costantemente percorso da inquadrature dall’alto e dolly a plongé che “schiacciano” il protagonista ed evidenziano, cinematograficamente tutto il peso della sua inadeguatezza esistenziale del momento. Nel film gli spazi metropolitani sono dilatati, i totali pongono i personaggi sempre in un angolo dello schermo evidenziando la grandezza di pareti, palazzi, monumenti, così come quella della notte nera e profonda che grava su Roma, mentre gli operai ridipingono la segnaletica orizzontale su strade dello stesso colore, quasi come a voler dare la rappresentazione dell’essere umano come qualcosa di talmente piccolo e inadatto a sopravvivere nel mondo moderno, e pronto a essere “inghiottito” dall’asfalto, dall’oscurità, dall’ignoto.
Elio Petri accentua i toni malinconici per illustrare, attraverso un “neorealismo” anomalo, la rappresentazione di una società veloce e dinamica che non aspetta più niente e nessuno, mettendo in bocca al protagonista parole sconsolate che denunciano un’incomunicabilità permanente tra gli esseri umani, ma anche l’impossibilità di relazionarsi con essi. Esemplare, a tal proposito, è il dialogo tra Cesare e Spartaco sulla spiaggia: “Tante volte mi verrebbe voglia di fermarli uno per uno”. “Perchè?” (chiede Spartaco). “Ma per conoscerli, per parlarci, per sapere dove vanno, quello che pensano”. “Ma che te frega a te!” (incalza Spartaco). “Uno campa in mezzo a sconosciuti capisci? Quanti esseri umani ho conosciuto io nella mia vita? Cento…, duecento, trecento al massimo. Ma vi pare niente non conoscere i vostri simili?”. È il momento cruciale del film, quello in cui Cesare cerca le ragioni e il senso della (sua) vita: quel quid oscuro per cui ci si ritrova a condividere uno spazio con altri simili, a intrecciare relazioni con alcuni e non con altri, a vivere una quotidianità perpetua in attesa di un sussulto, una speranza, un attimo di gioia; è come se Cesare volesse trovare le motivazioni per poter continuare a stare al mondo. Un’esigenza che viene accentuata subito dopo mediante una panoramica in soggettiva a trecentosessanta gradi, che mostra uomini e donne seduti in un parco mentre lo stesso Cesare ipotizza di essere morto e rivolto ai suoi amici afferma: “Noi siamo morti e tutto continua anche senza di noi”.
Il percorso intimista è un viaggio nel passato, nei luoghi della memoria e nei rimpianti, nei dolori mai conciliati e nelle speranze deluse, nell’apparente silenzio dell’urbe vista dall’alto e nel rumore del traffico che scorre in basso; un viaggio alla ricerca di una risposta in grado di dipanare confusioni e paure che improvvisamente si annidano nel cervello di Cesare. “Uno la mattina sale in tram, come al solito, fresco come una rosa… e all’improvviso il cuore… ti lascia”, ecco la domanda che rimbalza nel cervello di Cesare, mentre attraversa luoghi simbolici e non della sua esistenza: il cimitero in cui su una lapide legge il giorno esatto della sua nascita; gli incendi che lungo la Salaria raccontano della protesta di chi non ha una casa; la visita alla mostra in cui davanti ai suoi occhi si svela tutta l’incomprensibilità dell’arte. Egli dunque comincia a vedere, a osservare ciò a cui prima non dava alcun peso, entrando in studi di pittura, all’ospedale, nei bagni pubblici, a Fiumicino a cercare un disperato contatto con un’umanità che sembra negare, a lui ormai vecchio, ogni possibilità di riscatto o anche solo di conoscenza (“Se uno come me si accorge solo oggi di queste cose… ti dicono che è tardi”). L’incontro con Giulia, una vecchia fiamma, avviene fuori tempo massimo, quando ormai ognuno ha costruito le proprie (presunte) certezze: un appuntamento al cinema, come due ragazzini, si tramuta ben presto in un malinconico quanto inevitabile addio.
Cesare a casa si confronta con una ragazzina viziata e superficiale, la figlia della portinaia, la quale attraversa la vita con noncuranza, senza dignità, ma con l’unico obiettivo di guadagnare i soldi per poterli spendere e per questo è disposta anche a prostituirsi, mentre fuori incontra solo sconosciuti, scocciatori, prostitute, oppure loschi figuri che dietro l’apparente furbizia organizzano truffe ai danni delle aziende pubbliche. E così, suo malgrado Cesare viene coinvolto, in un “impiccio”, cioè nell’organizzazione di un finto incidente per estorcere soldi all’azienda dei trasporti; c’è un prezzo da pagare però ed è quello di farsi rompere un braccio per rendere credibile la vicenda. Proprio mentre sta per abbandonare ogni dignità, Cesare, in un sussulto di orgoglio, sfugge alla trappola dell’intrigo meschino, e per un attimo sembra assaporare il gusto e il piacere della “vittoria”; è solo un istante, un attimo sospeso in cui sembra prevalere l’innato istinto di sopravvivenza. Egli cerca nel suo passato nuovi stimoli e nuove motivazioni recandosi al paese natale, visitando la casa in cui è nato, incontrando vecchi amici abbandonati nel degrado di una campagna dimenticata a vantaggio della metropoli e delle sue tentazioni tentacolari. Disilluso, amareggiato e sconfitto nella sua estenuante, ma inutile, ricerca di risposte, a Cesare non rimane niente altro che tornare a lavorare, perchè come chiosa egli stesso: “Il lavoro è necessario. Senza lavoro ci si annoia…il lavoro non ti fa pensare ed effettivamente fa da scacciapensieri”.
di Fabrizio Fogliato
I GIORNI CONTATI
TITOLO ORIGINALE: I GIORNI CONTATI
GENERE: Drammatico
ANNO: 1962
PAESE:Italia
DURATA: 98 Min
REGIA: Elio Petri
SCENEGGIATURA: Elio Petri, Tonino Guerra, Carlo Romano FOTOGRAFIA: Ennio Guarnieri
MONTAGGIO: Ruggero Mastroianni
MUSICHE: Ivan Vandor
PRODUZIONE: GOFFREDO LOMBARDO per TITANUS, METRO
ATTORI: Salvo Randone, Franco Sportelli, Regina Bianchi, Paolo Ferrari, Vittorio Caprioli, Alberto Amato, Vittorio Donato, Giulio Battiferri, Vittorio Bottone, Lando Buzzanca, Piero Gucaione, Renato Maddalena, Angela Minervini, Egidio Porzia, Silvio Silvi, Marcella Valeri, Aldo Pini, Enrico Salvatore