Lo sguardo onnipotente dell’incertezza
Presentato a Cannes ’59, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, Bug di William Friedkin, è un lungometraggio livido e per nulla conciliatorio, che innesta un vortice delirante di paranoia patologica che trascina con sé persone, ambienti e psiche, impedendo di rintracciare coordinate chiare e percepibili, e facendo, ancora una volta, dell’ambiguità, l’unica chiave di lettura possibile. Un film che si confronta con l’orrore e la deviazione che possono insinuarsi in menti umane isolate dal mondo (nel film non compare alcun segno della tecnologia corrente; niente cellulari, solo un vecchio telefono di bachelite che squilla in continuazione) e costrette ad una condizione di vita disagiata. Bug è interamente circoscritto intorno all’unità di luogo, la stanza del Rustic Motel in Oklahoma; scelta che permette al regista di lasciare intatto fino alla fine l’interrogativo se le visioni (?) dei protagonisti siano vere o il risultato di manie di persecuzione, ma anche di innestare un discorso “politico” più ampio, riempiendo i dialoghi di riferimenti alla storia americana (recente e non), compreso il fuoco amico del “terrorista” che viene dall’interno (come gli insetti). Non appare casuale la citazione di Tim Mc Veigh, nel monologo di Agnes che anticipa la chiusura del film e che riassume in un delirio scoordinato e psicotico il percorso che hanno condotto lei e Peter fino a quel punto. Timothy James McVeigh è infatti, l’autore dell’ attentato di Oklahoma City del 19 aprile 1995, in cui rimasero uccise 168 persone, in quello che è stato il più sanguinoso atto terroristico perpetrato nel territorio degli Stati Uniti fino all’11 settembre 2001. Il nemico è dentro di noi (visibile o invisibile non ha importanza), questo sembra dirci William Friedkin con Bug, che non a caso reinterpreta e aggiorna attraverso la piece teatrale di Tracy Letts (che scrive anche la sceneggiatura del film), l’episodio da lui diretto per la serie “Ai confini della realtà”, nel 1983, sostituendo le sperimentazioni chimiche del diserbante Orange ed il gas psichedelico BZ, utilizzati dall’esercito durante la guerra del Vietnam con presunte sperimentazioni condotte sui soldati statunitensi durante la Prima Guerra del golfo.
Friedkin con Bug torna dunque a realizzare un cinema fatto di interni soffocanti (la stanza “trasformata” del motel, non può non essere messa in relazione con quella di Regan in The Exorscist), illuminati con tagli di luce al neon che ne ampliano la claustrofobia e trasformano la discesa psico-fisica dei protagonisti (fino all’annullamento finale) in una spirale emozionale acida e pulsante, e in un apologo doloroso, a tratti persino insostenibile (l’estrazione del dente) sulla solitudine, in cui la messa in scena è volutamente violenta e centripeta, per (co)stringere lo spettatore a porsi delle domande, a cui il regista stesso (giustamente) non dà risposta ma, anzi, rilancia imponendo alle immagini del film un senso di immediatezza che non permette di prendere le distanza da quanto sta accadendo sullo schermo. Ma Bug è anche un film costruito interamente sul concetto di precarietà (esistenziale e non), male moderno e universale che costringe l’individuo ad un’essenzialità forzata, in cui la parola felicità è solo un lontano e intangibile miraggio. Ecco dunque che la risposta a tale disagio, secondo Friedkin, è (ri)trovabile solo nel concetto di simbiosi, forma estrema e patologica di sicurezza auto-coercitiva. Scelta che implica l’ “annegamento” delle proprie paure in quelle del partner: così come avviene con Agnes, che convive con il dolore di un figlio scomparso e con quello provocato da un marito violento che, uscito dal carcere torna a farle visita e a manifestarsi come un “fantasma” del passato (lo vediamo entrare in scena nascosto tra i fumi dell’acqua calda della doccia); allo stesso modo, Peter “offre” alla donna il suo delirio paranoico indotto dall’essere stato uno dei militari inviati nel Golfo da Bush Sr., durante la crisi con il Kuwait.
La simbiosi, sembra essere l’unico rifugio possibile in cui trovare quella sicurezza altrimenti negata. Psicologicamente la “relazione di dipendenza amorosa” dal partner, si innesta attraverso la malattia, che scaturisce da un processo di alienazione permanente, in cui il silenzio, la noia, il vuoto e l’abbandono diventano elementi intollerabili e pertanto, pur di superare lo stato di angoscia e di insicurezza generato da tale condizione, l’individuo, accetta di annullare se stesso all’interno di un altra persona e di un altro corpo. In alcuni casi il processo additivo e il conseguente comportamento patologico scaturiscono dal ritorno ossessivo di un episodio traumatico del passato. Così è appunto per Agnes, la cui scomparsa del figlio Lloyd sembra essere la chiave di volta per comprendere il suo progressivo abbandono alla follia di Peter, il quale non cerca in lei né una compagna, né una partner occasionale, bensì il “contenitore” in grado di racchiudere le proprie paure: quello spazio da “riempire” (e in questo senso la metafora sessuale risulta oltremodo pertinente, visto che il “contagio” si verifica attraverso e durante l’unico amplesso) per poter sopravvivere. La patologia della simbiosi, infatti, come nel caso di Agnes, non viene percepita da chi ne è soggetto come una malattia, al contrario assume i caratteri di un male necessario per vivere o sopravvivere, per calmarsi, esistere, integrarsi al mondo, fare come gli altri. La qualità viene così rimpiazzata dalla quantità: processo in cui libertà e autonomia lentamente si affievoliscono alimentando una depressione sotterranea che porta l’individuo verso una liberatoria, quanto ricercata autodistruzione.
La laconica Agnes (Ashley Judd) vive in uno squallido motel lungo una polverosa statale nel mezzo degli Stati Uniti. Sbarca il lunario facendo la cameriera in un locale gay; si concede rare serate di sballo a base di whisky e cocaina con una sua amica. Non ha più niente da perdere dopo che, dieci anni prima, suo figlio è stato dichiarato scomparso. Tira avanti convivendo con le sue fobie e i fantasmi del passato (tra cui un marito violento che ogni tanto le fa visita) in un mondo che ha sempre meno da offrirle. Ma un giorno incontra Peter (Michael Shannon), introverso e sensibile reduce della Guerra del Golfo che nasconde più di un segreto e molte paure. Insieme intraprenderanno un viaggio senza ritorno per liberarsi di tutte le miserie che hanno distrutto le loro vite.
Bug si apre e si chiude con la stessa immagine: prima dei titoli di testa e alla fine di quelli di coda, il cadavere di un uomo sdraiato a terra e ricoperto di sangue, giace in uno spazio “alieno” difficile da decifrare. È un’immagine iconica, volutamente disturbante, che segnala l’ubicazione di un non-luogo (la mente umana) come il ricettacolo di paure ancestrali e permanenti, dormienti come cellule terroristiche, pronte a riemergere con il manifestarsi di un trauma. Il film di William Friedkin, si apre dunque con l’immagine suggestiva di una “mente malata” della cui presenza la società è colpevole attraverso la continua marginalizzazione di uomini e donne diversamente “deviati”. L’anomia di Agnes scaturisce dunque (come mostrato nel film) dalla precarietà di un’esistenza senza certezze, ma anche da una serie di scelte sbagliate di cui ella è responsabile in prima persona. Friedkin non è assolutorio nei confronti della donna, ma anzi individua proprio nel suo essere “disordinata” l’elemento rivelatore di un passato mai riconciliato. Se la vita “infernale”, che la donna conduce nella stanza del Rustic Motel (luogo/non-luogo simbolo della precarietà e della temporaneità della permanenza) ha origine dal trauma materno della scomparsa del piccolo Lloyd di cui ella si sente responsabile, è anche vero che il suo abbandonarsi ad una vita sregolata, sessualmente ambigua e in solitudine, appare dettato da mancanza di personalità: una scelta di comodo, che proprio nel suo essere consapevole, instrada Agnes lungo il declivio della follia.
L’incontro con Peter Evans (nel cui cognome si ritrova, Evans City, il luogo del contagio di The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973) di George A. Romero) è la scintilla attraverso cui il disagio si manifesta sotto forma di ricerca inesausta di sicurezza e comprensione. È come se Agnes trovasse nell’ uomo il baccello dentro cui racchiudersi per poter rinascere (da qui il titolo del film). Non a caso, infatti, la sua “trasformazione” avviene in relazione alla presenza/assenza degli insetti, cosi come il luogo abitativo lentamente, a sua volta si trasforma in baccello “fantascientifico” ricoperto interamente di stagnola e illuminato solo dalla luce delle candele (altro segno di primitivismo) e da quella bluastra delle lampade anti-zanzare. Il senso di insicurezza che pervade la società americana (e non solo), dopo l’11 Settembre, viene raccontato da William Friedkin attraverso una relazione di coppia patologica, in cui a vario titolo, entrano di volta in volta (nei dialoghi, nei riferimenti…) passaggi oscuri della storia americana. In quest’ottica, il minimalismo di un film no-budget incentrato sul microcosmo, diventa perfetta metafora delle relazioni umane che agiscono nel macrocosmo della società. Non è casuale infatti, che su tutto il film, domini uno sguardo “onnipotente”, che dall’alto perlustra il territorio (come si evidenzia nella prima lunga panoramica aerea che plana sul tetto del motel), così come attraverso il sonoro si avverte continuamente la presenza/assenza di elicotteri militari (richiamati dall’insistita inquadratura dal basso del ventilatore), perchè l’intento del regista è quello di costruire un paradigma allucinato, in cui ogni individuo/spettatore può riconoscersi.
Ad accentuare questa visione registica, contribuisce il dialogo rivelatore tra Agnes e Peter che chiude la prima ora di film. I due sdraiati a terra, in una dolce intimità, senza scambiarsi effusioni, raffigurano i due elementi mancanti nella società: il dialogo e l’ascolto. Peter, silenzioso, ascolta le parole di Agnes che, in un breve monologo racconta la sua vita, quella dei tanti altri come lei e infine dà una sintesi dei mali del vivere contemporaneo: “Non so perchè ti amo così tanto, dopo tutto non ci conosciamo quasi per niente e siamo andati a letto insieme soltanto una volta, ma non mi interessa…e abbiamo parlato sempre e solo di insetti. Ma ho parlato più con te che con qualunque altra persona nella mia vita. Non che io abbia molti argomenti oltre alla mia infelicità…e chi mi ascolta?…nessuno. Ora mi sento stanca, stanca di tutto: una vita scadente, il lavoro precario, cocaina, matrimonio fallito…e un figlio scomparso, Lloyd era l’unica cosa bella…”. Improvvisamente il dialogo si interrompe, Peter scatta in piedi convinto di avere individuato il punto in cui sono nascosti gli insetti nel suo corpo. Sostiene che si trovino dentro una capsula dentale, e in preda a un raptus impugna le pinze e si estrae violentemente il dente. La scena mostrata da Friedkin attraverso un insostenibile realismo, rappresenta il punto di rottura tra la vita reale e quella psicotica, posto, volutamente nell’unico momento auto-riflessivo del film. La calma prima della tempesta, poiché nell’ultima mezz’ora, si scatena un delirio auto-compulsivo in cui progressivamente l’uomo e la donna si “trasformano” nel “fuco” e nella “super-madre”, richiamati da Peter durante le spiegazioni dei presunti esperimenti subiti da militare in veste di cavia umana.
La simbiosi relazionale, trova il suo compimento (l’unico possibile) nel suicidio di coppia. L’ultima scena del film, quella che dopo l’omicidio del Dottor Sweet mostra i due inondare la stanza di benzina, spogliarsi nudi e cospargersi dello stesso liquido, prima di accendere insieme il fiammifero, è anche rappresentazione simbolica delle estreme conseguenze a cui possono condurre l’isolamento e la solitudine. Peter e Agnes, infatti non sono solo individui marginalizzati dalla società, ma sono anche archetipi di due mondi contrapposti e a suo modo complementari: la provincia americana e l’esercito. Due luoghi (che il regista non fa nulla per nascondere), in cui vigono ferree regole di comportamento, ordini preimposti e giudizi morali permanenti, la cui trasgressione e/o infrazione implica automaticamente l’espulsione del trasgressore dal suo mondo di appartenenza. Ecco così, che i due mondi, a stretto contatto, si ritrovano “spogliati” e pronti ad esplodere racchiusi in un non-luogo artificiale, baccello/rifugio di una follia rassicurante indotta nell’individuo dalla società. L’ambiguità permanente che grava sulla pellicola, in cui non si ha mai chiaramente idea se i fatti narrati siano reali o immaginari (allo stesso modo degli insetti), è la miglior risposta di William Friedkin alla “normalizzazione” del cinema contemporaneo (basta vedere i remake rassicuranti degli inquietanti horror anni ’70), oltre ad essere rappresentativa di un mondo deviato senza più certezze. L’assenza, vera protagonista del film, permea persino i titoli di coda, interrotti da una breve panoramica sui giochi di Lloyd: il bambino presente/assente, sintesi simbolica della perduta innocenza della società?
di Fabrizio Fogliato
BUG
TITOLO ORIGINALE: BUG
GENERE: Drammatico/Thriller
ANNO: 2006
PAESE: Stati Uniti
DURATA: 101 Min
REGIA: William Friedkin
SCENEGGIATURA: Tracy Letts
FOTOGRAFIA: Michael Grady
MONTAGGIO: Darrin Navarro
MUSICHE: Brian Tyler
PRODUZIONE: BUG LLC, DMK MEDIENFONDS INTERNATIONAL INFERNO DISTRIBUTION, L.I.F.T. PRODUCTION, LION GATE FILMS ATTORI: Ashley Judd, Michael Shannon, Lynn Collins, Brian F. O’Bryne, Harry Connick Jr.
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Pingback: WILLIAM FRIEDKIN’S SORCERER (IL SALARIO DELLA PAURA, 1977) | Fabrizio Fogliato | Critico cinematografico, saggista