Il bambino e la natura
Folco Quilici è colui che è senza dubbio il più grande e conosciuto documentarista italiano; anche se questa definizione è limitante per un “viaggiatore” eclettico come il regista ferrarese. Un uomo che ha lavorato per il cinema e per la televisione, autore di saggi e biografie, e che ha ricoperto numerosi incarichi di responsabilità in ambito culturale. Quello che segue è un ritratto attraverso tre opere differenti (di cui una ripudiata), che diventano sintesi di uno “stile di vita”, in cui il cinema è materia prima da plasmare assecondando la naturalezza delle immagini da un lato, e modificando il punto di vista del regista dall’altro. I suo film dedicati al rapporto dell’essere umano con la natura sono molteplici e in taluni casi hanno ricevuto i giusti riconoscimenti internazionali: Sesto Continente (Premio Speciale alla Mostra del Cinema di Venezia del 1954), Ultimo Paradiso (Orso d’Argento al Festival di Berlino del 1956), Ti-koyo e il suo pescecane (Premio Unesco per la Cultura del 1961), Fratello Mare (Primo Premio al Festival Internazionale del Cinema Marino, Cartaghena, 1974). La lettura dell’universo di Folco Quilici, appare dunque poliedrica e sfaccettata, connaturata all’essenza di “essere viaggiatore”, in cui la macchina da presa, diventa protesi per riprendere, con discrezione e rispetto, quasi con timore, la natura e le sue bellezze. Al centro del suo fare cinema è sempre presente una forma di “disagio” latente di fronte alla magnificenza dello spettacolo naturale.
Il suo è uno sguardo puro e fanciullesco, disincantato e morale, spinto da una curiosità endemica e volto a guardare le cose sempre da punti di vista diversi e mai banali. Tullio Kezich, nell’introduzione del libro Folco Quilici, il mondo non basta, descrive così lo sguardo del regista: “Se c’è un cineasta che nelle sue divagazioni antropologico-avventurose è riuscito a realizzare un sogno d’onnipotenza infantile raggiungendo le più remote plaghe, immergendosi negli abissi dell’oceano e alzandosi in volo per contemplare il mondo dall’alto, questi è l’autore di Sesto Continente. Nel prenderne atto dobbiamo aggiungere che i viaggi di Quilici non sono mai stati programmati sulla base di pregiudiziali ideologiche o scelte geopolitiche”. Quello di Quilici è uno sguardo sul mondo fatto di ricercatezza e misura, un continuo cercare di svelare il “mistero della natura”, animando il proprio cinema di spunti palingenetici, continuamente mosso e movimentato dal desiderio di esplorare e di cambiare scenario: “I suoi itinerari lo avviano volta a volta verso l’uno o l’altro dei quattro punti cardinali toccando la Polinesia e il Sud America, l’Africa e l’India, i mari e i deserti, i paradisi perduti e i nuovi inferni del turismo di massa. Nonché, sul filo della razionalizzazione, il passato remoto e il futuro. Per tornare ciclicamente alla messa a fuoco, all’analisi e all’orgogliosa riproposta della matrice culturale mediterranea sulle lucide indicazioni metodologiche di Fernand Braudel”. ( Folco Quilici, il mondo non basta).
Il modello di riferimento di Folco Quilici è Robert Flaherty, ma come il grande regista americano anch’egli è convinto della necessità del racconto: in entrambi il documentario è anche romanzo, un azzardo vincente, che trasforma i lavori dei due registi in racconti epici ed emotivamente coinvolgenti. Folco Quilici, si avvicina al documentarismo, quando questo, in Italia, è prerogativa ridotta allo spazio antecedente la proiezione delle pellicole nei cinema. Rulli da dieci minuti, in cui la rappresentazione del reale, assume i toni elegiaci della celebrazione, spesso commentata da un testo corrivo e banale. Egli si allontana sin da subito da questo metodo, operando il “criterio di scelta”, secondo cui è il proprio gusto personale a dettare la strada intrapresa dalle immagini in fase di montaggio. A partire dagli anni ’60, egli trova terreno fertile nella rinascita degli studi antropologici, grazie ai quali Quilici può operare una narrazione per immagini legata agli aspetti etnografici e folcloristici. Il suo, in questi anni, è un cinema morale, che si contrappone “politicamente” all’ascesa del “mondo-movie” di Prosperi & Jacopetti. I mondo-movie, sono costruiti sulla rappresentazione falsa e manipolata della realtà, partendo dal presupposto che ogni evento è colto nella sua naturale manifestazione; il commento parlato è generalmente teso a decontestualizzare ed enfatizzare le immagini al servizio di un’idea di fondo: speculare sullo spettacolo della morte e della sofferenza. La convenzione che anima Mondo Cane (1962) e i suoi epigoni, è quella secondo cui nell’impossibilità di filmare la realtà, la si ricostruisce. Folco Quilici ripudia sdegnosamente questa mistificazione e manipolazione del reale, togliendo la propria firma da un film del 1964, Le schiave esistono ancora, quando in fase di montaggio si accorge della destrutturazione del proprio lavoro etnografico in funzione di una ricostruzione artificiosa e qualunquista, volta a mostrare solo ed esclusivamente nudità femminili, e a manipolare, attraverso un falso commento moralistico il senso profondo delle immagini e della denuncia insita in esse. Il film è costruito come una lunga inchiesta sotto forma di diario di viaggio, segue il percorso narrativo del libro denuncia sulla schiavitù di Sean O’ Callaghan, e presenta materiale inedito come l’ossario del Mar Rosso (e talvolta sorprendente come nel caso della flagellazione dei pastori africani).
Visto oggi, Le schiave esistono ancora, firmato da Roberto Malenotti, il figlio del produttore Maleno Malenotti, appare un prodotto meno bieco volgare di altri mondo-movie e mantiene una certa efficacia nel tratteggiare il fenomeno della schiavitù, anche se appare interamente costruito sulla mercificazione razzista del corpo femminile; tuttavia facendo opera di astrazione, è possibile isolare al suo interno il contributo (determinante) di Folco Quilici, presente in quelle immagini rimaste, riprese con discrezione, che mostrano al contempo la dignità e la sofferenza delle donne sfruttate e schiavizzate, o nelle testimonianze dirette come quella di Eva Kenneth (che visse quattro anni in un harem), oltre che nella mancanza quasi totale di concessioni all’esotismo e al manicheismo.
Negli anni ’70 Folco Quilici, edita tre film sull’alluvione di Firenze del 1966: I mille giorni di Firenze, questo è il titolo, raccontano l’alluvione, il restauro, e il recupero del patrimonio culturale toscano. A distanza di mille giorni dalla tragedia, il cineasta ripercorre passo passo gli eventii, interagendo con la popolazione locale (intervistata), inserendo le dinamiche di ricostruzione all’interno di un tessuto sociale e collettivo (da cui non viene esclusa la vittoria Fiorentina ne campionato di calcio del 1969), consapevole che anche lo sport è cultura e può servire come stimolo per riemergere “dal fango”, perché le vittorie (ma non solo) cementano la collettività e restituiscono consapevolezza della propria forza primigenia. Nei tre film è presente un’attenzione meticolosa all’esaltazione del dettaglio, inteso come parte determinante del tutto: i vasi sbrecciati, le opere d’arte lesionate, le cornici rovinate, i quadri sporcati, le pagine dei libri cancellate dal fango, tutto contribuisce alla rappresentazione “astratta” (perchè lontana) ma emotivamente viva dell’alluvione di Firenze. Anche dal punto di vista visivo e narrativo, i tre film rappresentano uno dei punti più alti del documentarismo televisivo: dove non arrivano le immagini, giungono le parole, in una rappresentazione lirica e poetica dello spirito indomabile dell’essere umano. La forza dei fiorentini e di tutti coloro, che dal mondo giunsero nella capitale toscana per compiere il “miracolo della ricostruzione”, emerge da ogni fotogramma di ogni inquadratura, studiata, pensata e infine realizzata con l’intento di raccontare, senza infingimenti, la rinascita dell’uomo.
Nel 1964, Folco Quilici, dirige il film (non documentario) Ti-koyo e il suo pescecane, un’opera in cui emerge, in mezzo agli scenari stupefacenti delle isole polinesiane (girato a Tuamoto) l’eterno conflitto tra uomo e natura, che il regista qui risolve attraverso una complessa rappresentazione dello scontro tra civiltà e primitivismo. Il punto di vista è quello del piccolo Ti-koyo, figura quasi autobiografica, rappresentazione di quello sguardo disincantato che il regista ha di fronte all’immensità degli scenari naturali; ma anche sintesi perfetta, di una visione “pura” del rapporto tra gli esseri umani; nel film la necessità di sopravvivere, l’avanzare della tecnologia, si scontrano con la naturalezza del gesto e l’intelligenza dell’azione: in Ti-koyo e il suo pescecane, i veri primitivi sono i rappresentanti del mondo occidentale, incapaci in un primo momento di accettare lo svolgersi della vita secondo natura (emblematica l’affermazione fatta dalla bambina nei confronti di Ti-koyo quando questi gli offre una pinna di squalo come dono: “Ma sei matto, potrebbe essere infetta”), ma successivamente consapevoli della necessità di un ritorno alle origini per poter sopravvivere, anche se la chiosa è pessimistica, visto che racconta la perdita di armonia della natura di fronte all’avanzare della civiltà e Ti-Koyo e lo squalo sono destinati a separarsi per sempre. A distanza di tanti anni, quello di Quilici, sembra quasi un monito ammonitore nei confronti di un mondo che viaggia consapevolmente verso l’autodistruzione. L’acqua, da sempre elemento centrale nel suo cinema, diventa qui, attraverso la trasparenza dell’oceano pacifico, il liquido amniotico in cui l’uomo rinasce. Il piccolo pescecane catturato da Ti-koyo, sopravvive e cresce nella pozza che lui ha creato, ma viene un momento in cui inevitabilmente lo squalo diventa troppo grande per poter vivere in quello spazio ristretto. La libertà è lì di fronte a lui, nello spazio immenso e contaminato dell’oceano. Con lo stesso spazio in cui gli abitanti dell’isola si ritrovano, in un misto di tradizione e folclore, per catturare un grande quantitativo di pesci, nonostante la fatica, le difficoltà, e lo scarso risultato.
In definitiva Folco Quilici, attraverso il suo cinema, non fa niente altro che costruire un grande romanzo in cui l’uomo e la natura sono le due anime di uno stesso personaggio. Il suo obiettivo “politico” è quello di una continua ricerca della realtà, attraverso il viaggio, al fine di educare lo spettatore, attraverso uno sguardo scevro sia di giudizi che di pregiudizi. Il suo è un mondo in cui il dinamismo del viaggio non è mai fine a se stesso e in cui il cinema non è altro che un mezzo necessario per raggiungere qualcosa di più importante: la semplicità dell’allievo Uomo al cospetto del maestro Natura.
di Fabrizio Fogliato