Murder obsession
Il cinema di De Palma costruisce un movimento a spirale che lentamente avvolge lo spettatore con un flusso di immagini ininterrotte che spingono la visione verso il limite della vertigine. Connotato da barocchismi ed improbabili eccessi, il suo cinema è manifesto della follia dell’individuo (e delle sue ossessioni) in relazione ad un mondo fantastico e onirico. Il tema del doppio si inserisce pienamente su questa lettura cinematografica dell’opera del regista, ponendosi sul confine che divide il trattamento dei grandi temi universali in simbiosi con i dubbi e le colpe del singolo individuo. Sin da Sisters (Le due sorelle, 1973) (lungometraggio d’esordio nel genere thriller-hitchcockiano) De Palma lavora sulla rivisitazione sperimentale del concetto di punto di vista. La follia dei suo personaggi non può prescindere dalla messa in scena onirica e perturbante in cui agiscono.
Si potrebbe dire che il cinema del regista costruisce dei non-luoghi fittizi e immaginari dove contemporaneamente ai personaggi si muovono le loro ombre. E proprio il concetto di ombra interpreta letteralmente la figura del doppio. In Sisters è la “sorella-ombra” (Dominique) di Danielle ad agire in sua vece, a manipolarne le intenzioni e a commettere l’omicidio. Il doppio è patologico, alimentato dalla malattia e dalla solitudine, e partorisce (e occulta) un efferato omicidio che trova giustificazione nell’alienazione del folle in una realtà socializzata.
In Obsession (Complesso di colpa, 1976), il doppio (rappresentato da Sandra) è una cerniera che unisce passato e presente in un contesto lancinante dove la colpa (reale o presunta) ottunde la percezione di Michael. Nell’opera sceneggiata da Paul Schrader, il passato è prigione di un rancore mai riconciliato e dà origine ad un conflitto psicologico che rivela il connubio tra colpa e desiderio di verità. L’atmosfera idilliaca e sognante (cui Firenze contribuisce alla dimensione pittorica) in cui è immersa la vicenda pone la rappresentazione del doppio su un livello altisonante in cui passato e presente, singolo e collettività, famiglia e solitudine, diventano, di volta in volta, estremi di un doppio ultra-rappresentativo.
L’eccesso depalmiano trova consacrazione nell’opera più discussa (e inverosimile) del regista: Raising Cain (Doppia personalità, 1992) appare come il punto limite della rappresentazione della schizofrenia. Qui il doppio non è più tale ma diventa moltiplicazione di personalità in conflitto tra loro. Carter è il contenitore di un numero (potenzialmente infinito) di altri sé, i quali negano e giustificano (al contempo) comportamenti aberranti. Il trauma è all’origine della patologia dell’individuo, ma la volontà (presuntuosa) di De Palma è quella di rappresentare un follia sociale in conflitto continuo tra colpa e redenzione. In questa chiave di lettura si inserisce la figura di Jack, sorta di alter ego (doppio) di ciò che Carter pretenderebbe di essere. Jack diventa catalizzatore delle attenzioni (e delle pulsioni) di Jenny e diventa sostituto ideale del marito che lei “non ha”.
Il rapporto morboso che Carter instaura con i bambini (al punto di abbandonare il lavoro) è volto alla necessità di comprendere il suo trauma, in un contesto sociale all’interno del quale lui non è altro che un’ombra. Ecco allora che uccidere diventa fondamentale nel processo di auto-affermazione del sé, e il moltiplicarsi progressivo della personalità, lo strumento necessario all’ annientamento dell’altro. Dominique (in Sisters), Sandra (in Obsession) e Carter e i suoi multipli (in Raising Cain), non sono altro che il “negativo” occulto di un individuo perso e apatico che ha smarrito ogni contatto con la realtà (ecco perchè l’atmosfera è sempre sognante). I loro comportamenti sono meno importanti della rappresentazione (folle) della loro personalità.
di Fabrizio Fogliato