Dietro gli occhi dello spettatore: lo sguardo impuro e “politico” di Shaun Costello
“E fare i conti con l’Hard-core non è impresa di respiro corto. L’ascesa delle luci rosse si è rivelata un fenomeno sociale, politico e culturale di estrema rilevanza: nelle sue pratiche espressive dirompenti – ed esplicitamente “basse” – implica la discussione della struttura del desiderio e della sessualità, delle relazioni tra i sessi, della natura della famiglia, pesca alla rinfusa nei più scottanti materiali dell’inconscio, porta alla luce pregiudizi, simbologie, credenze occulte e occultate”. (Pietro Adamo, Il Porno di massa, pag. XIII). Da ciò ne deriva il fatto che nulla è precluso dal punto di vista tematico ed espressivo in un genere ontologicamente “basso”, in cui segni, codici e riferimenti, riconducono (inevitabilmente) al corpo e alla sua frammentazione ridotta a genitalità. Il limite nel “genere” non esiste, o meglio non è contemplato, per cui anche l’estremo assume un valore filmico e narrativo, che in alcuni prodotti “di valore” diventa metafora (discutibile fin che si vuole) delle derive più oscure e inquietanti della società. Negli anni’ 70, soprattutto, nel periodo in cui il porno è stato narrativo, l’estremo non è qualcosa di marginale o settoriale (come è oggi) ma è connaturato alle svolte narrative necessarie all’interno di film che, apparentemente, si presentano come ordinari. L’intento di registi, “autori” e produttori è quello di una “normalizzazione” delle parafilie più inconfessabili finalizzata a rappresentare una autentica “liberazione” e, paradossalmente, a responsabilizzare lo spettatore (che infatti in quegli anni spesso diserta i prodotti più crudi e insostenibili, come i film di Shaun Costello, divenuti col tempo cartine di tornasole di un momento topico della storia americana). L’esempio più importante di censura del cinema hard-core, e cioè la condanna da parte del tribunale statale della scena del doppio fisting vaginale praticato da Nancy Hoffman a Eileen Welles in Candy Stripers (1978) di Bob Chinn, paradossalmente chiude definitivamente l’epoca dell’hard narrativo. Da quel momento, infatti, ogni parafilia viene scissa dalla narrazione e conglobata in serie in prodotti monotematici e settoriali totalmente privi di trama, al punto che l’hard tradizionale degli anni ’80 risulta essere particolarmente “edulcorato”. Nel decennio precedente, invece, l’estremo ha rappresentato l’espressione problematica (e critica) del rapporto uomo-donna e della condizione dell’individuo nella società, proprio perchè “annegato” nella normalità con l’intento di rappresentare le istanze più oltranziste e libertarie della controcultura.
Il cinema di Shaun Costello, così come quello di Gerard Damiano (in modo diverso, i registi più interessanti dell’hard-core USA assieme ad Alex De Renzy), vive in una dimensione sospesa tra realtà urbana e sogno (o meglio incubo) metropolitano. Un cinema fondato sull’eccesso in cui non c’è alcun controllo né sull’isteria della recitazione né sul cattivo gusto della messa in scena, e che spesso sfocia in una parodia volgare e sguaiata (ma mai banale). Se l’hard-core per sua definizione è una continua addizione di materiali eterogenei al grado zero della narratività (l’amplesso in varie forme reiterato, potenzialmente all’infinito), quello realizzato da Shaun Costello né è la rappresentazione più distonica: una sorta di kammerspiel dei corpi, in cui lo spazio attorno ad essi si restringe progressivamente fino al soffocamento in cui le riprese dei genitali sono talmente ristrette da sfociare nell’astrazione quando non nella visionarietà del delirio.
Alla fine degli anni’60, un casa di produzione di New York, chiamata Avon e di proprietà di un ex-gigolo della Florida di nome Murray, realizza e distribuisce le pellicole più malsane e sgradevoli del periodo. Nel 1970, la Avon acquista l’Hudson, un cinema situato a un isolato a nord del Miller Park sulla 44° Strada e attira le folle con i “San Francisco Shorts”, loops forniti dalla West Coast Graffiti Productions, e realizzati dal pioniere dell’ hardcore Howard Ziehm (autore di Mona, the Virgin Nimph (1970) e Flesh Gordon (1974)). La sua attività, in realtà, comincia molto prima, con le proiezione dei prodotti della Factory di Andy Warhol, poi passa alla proiezione di film intervallati da spettacoli live hard-core, e infine nel 1973 si specializza nell’hardcore più estremo, prima con loops S&M, nudies, roughies e rapist, poi dopo l’inaspettato successo di Defiance (1975) di Armand Weston (un hard che si svolge in un ospedale psichiatrico), inizia la produzione di lungometraggi dai contenuti sempre più estremi e bizzarri.
Nel 1975 la Avon compie una mossa decisiva, quella della produzione autonoma, che associa, definitivamente, il proprio nome con il concetto e la rappresentazione della violenza. I Roughies, film che mescolano sesso e S&M (senza scene di sesso esplicito), negli anni ’60, vengono proiettati con grande successo nelle sale di Times Square. Con il nuovo decennio la Avon acquista queste sale e prosegue la programmazione “di genere”, integrandola dei contenuti hardcore, e cominciando a produrre in proprio. Il primo film in 35mm realizzato dalla Avon è Dominatrix Without Mercy (1975) prodotto da Jason Russell e diretto da Shaun Costello: un film-collage di vari episodi a sfondo S&M che si svolgono in un appartamento di New York lungo il corso di un intera giornata, e che usufruisce di un cast all-stars con Terry Hall, Jamie Gillis, Marc Stevens, Vanessa Del Rio… Dominatrix Without Mercy è un successo clamoroso, al punto che spinge la Avon a specializzarsi nel “genere” e a ingaggiare un regista di “talento” come Joe Davian che realizza per la casa di produzione una serie di film “a tema” con dialoghi scritti benissimo, povertà di mezzi, ma non di cura registica, che amplifica la disperazione delle storie e dalla forte impronta di critica sociale, visto che film come Night of submission, Revenge and punishment (solo per citarne alcuni), affrontano argomenti come la prostituzione, la paranoia urbana, il satanismo, il vodoo….
Ma la Avon ha anche oscuri legami con la criminalità organizzata come testimoniano le parole dello stesso Shaun Costello: “Siccome alcune delle mie meraviglie usa-e-getta di solito di genere S&M, venivano proiettate nei cinema Avon, c’è la credenza che io li abbia girati per i tizi della Avon. E non è così. Lavoravo per i ragazzi del centro, che erano la branca del porno per la famiglia Gambino…” (in Roberto Curti e Tommaso La Selva, Sex & Violence – percorsi nel cinema estremo, Lindau 2007, nota 42 pag. 274). Costello è dunque al servizio della famiglia Gambino di New York, e realizza, quasi interamente, tutte le sue opere su commissione: istant-movie confezionati in base alle richieste del mercato. Anche Water Power (1977) non fa eccezione come conferma ancora il regista: “Nell’autunno del 1976 ero nel bel mezzo del trasloco di una fattoria di Krumville, New York, quando suona il telefono. Era Sid Levine, responsabile del settore per il porno della famiglia mafiosa dei Gambino. Ero il loro maggiore fornitore di pellicole, e Sid mi disse che voleva vedermi subito. Con urgenza. Non poteva aspettare. Così salgo in macchina e mi faccio novanta minuti di guida fino a Lower Manhattan […]Quando arrivai in ufficio, Sid aveva uno sguardo torvo. Non perse tempo: senti ho dei nipotini e mi vergogno a chiederti una cosa del genere, ma c’è bisogno di un film di clisteri”.
Burt (Jamie Gillis) è un giovane (forse reduce del Vietnam), incapace di adattarsi alla vita della metropoli. Ossessionato dalla visione della sessualità disinibita di una hostess Valerie Morgenstern [Clea Carson]) che abita nel palazzo di fonte a lui, e che egli osserva con il suo cannocchiale, incomincia lunghe peregrinazioni per le strade di New York. Una notte, dopo l’ennesimo mal di testa provocato dalla sua frustrazione e dall’assenza di rapporti sociali, recatosi in un peep-show, assiste nel retro del locale alla pratica dell’enema. Decide di provarla sulla sua vicina, che uccide incidentalmente, e successivamente diventa una sorta di “purificatore” che riesce sempre a sfuggire alle indagini della polizia. Anche la trappola tesagli dal detective Jack Gallagher (John Buco) e dalla collega Irene Murray (C.J. Laing) si rivela inutile: la donna viene brutalmente violentata e Burt riesce a fuggire e a nascondersi nella notte.
Water Power ha un padre nobile: Taxi Driver di Martin Scorsese, uscito appena un anno prima. Il film è plumbeo, notturno, disperato, non c’è né gioia né compiacimento in ciò che viene messo in mostra, ma anzi, il montaggio frenetico, discontinuo e “violento” sembra voler cancellare il più in fretta possibile quanto viene mostrato. Water Power è una parabola sul fallimento, sul disordine sociale e sulla solitudine dell’individuo chiuso nella metropoli, in cui le scene hard-core rappresentano la parte minore del minutaggio, e in cui gli sproloqui del protagonista (che richiamano quelli del Joe di Forced Entry, sempre di Costello) denunciano tutto il disagio di un maschio spersonalizzato il cui unico obiettivo è quello di esercitare il dominio su tutto ciò che vede, e quindi, desidera (è così per le vittime, per la pratica dell’enema e per l’oggetto in sé).
Il film ha radici profonde nel tessuto cronachistico americano ed è liberamente tratto da fatti realmente accaduti: tra il 1965 e il 1974, un certo Michael Kenyon, si era “divertito” a somministrare clisteri “purificatori” ad un numero imprecisato di studentesse di Urbana nell’Illinois, prima di essere catturato dalla polizia. Anche il protagonista di Water Power è un “purificatore”, un giovane disperato e solo, che vede nella sessualità altrui le cause del suo disagio. Egli agisce come uno stupratore seriale, ma il suo intento è quello di mondare le donne, che prima sodomizza, con un clistere di un litro d’acqua: quasi una sorta di battesimo blasfemo. Il contenuto del film è talmente bizzarro e crudo che gli spettatori americani disertano le sale. I Gambino provano a rilanciarlo, mettendo sui cartelloni il nome di Damiano (e oggi in quasi tutte le filmografie di Gerard Damiano compare questo film apocrifo), ma il successo (stratosferico) arriva solo con il passaggio in Europa dove viene distribuito con il titolo onomatopeico di Schpritz.
di Fabrizio Fogliato