Andare oltre i limiti della percezione visiva
Shaun Costello, in poco più di un’ora di film, distilla una serie di situazioni malsane che respingono lo spettatore e che lo interrogano sui limiti della percezione visiva. Burt, è un anti-eroe (vincente perchè non viene catturato) nella cui figura bislacca e psicolabile si concentrano paure e ansie dell’America in crisi, come testimonia la scelta di ambientare la vicenda durane i festeggiamenti del 1976 per il bicentenario della “nascita della nazione” (l’incipit del film, senza dialoghi, dà forma “politica” al seguito delle vicende). Il tono eccessivo, isterico e parodistico della messa in scena non fa niente altro che amplificare a dismisura il disagio della visione provocato dalla presenza di un protagonista in balia di se stesso desideroso di avere rapporti sociali ma costantemente respinto dalla società; chiuso in un appartamento-labirinto, terrorizzato dalla presenza altrui (emblematica la scena in cui deve nascondere il clistere perchè suonano il campanello); ossessionato dalla fisicità femminile e convinto della necessità di ripulire il mondo da ogni nefandezza attraverso un “bagno” purificatore.
Se Costello prende da Hitchcock la condizione psico-masturbatoria del protagonista de La finestra sul cortile (anche Burt osserva con il cannocchiale ciò che succede nel palazzo prospiciente), è da Taxi driver che trae gli spunti più interessanti: a parte il “furto” della colonna sonora di Bernard Herrmann (pratica diffusa in quegli anni), dal film di Scorsese, provengono sia la paranoia urbana che Costello esaspera in raggelanti primi piani dal basso su Burt, che il racconto in forma di diario, qui inteso quasi, come una sorta di auto-confesssione (e auto-assoluzione). Infine c’è da notare la casualità e la fascinazione di Burt verso il perverso determinata solo da aspetti fortuiti: il feticcio, qui diventa il clistere, solo perchè è l’oggetto che Burt osserva durante la pratica dell’enema nel locale di Eve, perchè se l’oggetto fosse stato un altro il risultato sarebbe stato lo stesso. Burt, si informa, compra riviste specializzare si interessa ai modelli più efficaci e “performanti”, perchè raggiungere i migliori risultati nel praticare clisteri per lui rappresenta l’unica forma (possibile) di auto-determinazione. E’ questo il vero elemento perturbante della pellicola, quello che interroga lo spettatore e destabilizza il suo rapporto con il corpo: l’incontro tra la “macchina” (il clistere) e la carne “carne” (la donna), ipotizzato da Borroughs prima e teorizzato da Ballard poi, qui si concretizza attraverso la messa in scena di un piacere sessuale anomalo e perverso.
Burt cerca la diversità per combattere la noia solitaria della sua routine patologica: basta vedere come durante la fellatio di Eve al Garden of Eden, sia del tutto indifferente al piacere, o come nella sua vita sia determinate l’aspetto scopofilo-masturbatorio come dimostra la prima sequenza divisa tra televisione, riviste pornografiche, fotografie e cannocchiale, tutto consumato in solitario e senza gioia. La visione della pratica del clistere al Garden of Eden, lo risveglia dal suo torpore e scatena in lui un interesse morboso verso l’oggetto. E’ curioso vedere come Costello costruisca la scena della finta operazione attraverso il richiamo parodistico dalla maschera (il dottore, l’infermiera e la finta disabile) in contrapposizione allo “spettacolo” osservato da dietro i vetri da Burt e dalla maitresse (ma se all’inizio dell’operazione il tono e leggero e ironico, il montaggio alternato finale, con i tre orgasmi, è greve e disturbante), e come con questo espediente “normalizzi” la perversione in scena, per poi, una volta mostrata nella realtà delle azioni di Burt la trasformi in qualcosa di aberrante che urta la visione e allontana lo sguardo.
La meccanicità e la abitudinarietà delle azioni dell’uomo durante le varie aggressioni colpiscono per l’agghiacciante oggettività con cui il regista riprende le stesse: azioni asservite ad un montaggio grottesco che non diverte ma che acuisce la percezione del dolore delle vittime, quasi senza mostrarne le implicazioni sessuali (la m.d.p. quasi sempre sui volti stravolti e trasfigurati delle vittime). Burt esce sconvolto dopo la visione di quell’esperienza-limite al Garden of Eden, entra in un negozio e compra le riviste specializzate. La lettura di “Water & Power” diventa il suo interesse primario, infatti quando torna a casa la tv è spenta, scaraventa via le vecchie riviste e si concentra su quelle nuove, osserva la vicina che diventerà la sua prima vittima da punire, e inizia a scrivere il suo diario.
Dopo il primo assalto, la pratica del clistere diventa un lavoro per Burt: è egli stesso a dichiararlo in un breve monologo interiore: “…Devo comprare altro materiale, …prepararmi ad ogni evenienza, …è un cosa seria purificare queste puttane…è il mio lavoro…”. La violenza esplode improvvisa nell’aggressione alle due lesbiche che prima minaccia con la pistola, poi schiaffeggia brutalmente e infine obbliga a praticargli una fellatio; egli ha la necessità di “sporcare” le donne per poi mondarle, come dimostra il montaggio frenetico e, quasi subliminale, che mostra la sodomizzazione e il successivo clistere, in cui le due donne sono legate nel bagno. Shaun Costello, non arretra, anche se sembra farlo attraverso il montaggio frammentario, perchè il sezionamento delle parti del corpo e la loro associazione frenetica e vorticosa (accentuata dall’uso della camera a mano), con il primo piano dei genitali “al lavoro” restituisce alla scena l’impatto di uno stupro brutale e insostenibile.
Il finale con l’aggressione alla poliziotta (scena girata magistralmente e montata in alternanza all’inutile arrivo del detective compagno della donna) è un campionario di brutalità difficile da digerire anche per lo spettatore più “scafato”, con l’aggravante che tanta violenza non trova punizione, ma anzi è destinata a protrarsi come mostra il ghigno beffardo sul primo piano di Burt che chiude il film. Water Power è dunque opera asimmetrica, crudele e spiazzante, incentrata sulla “poetica” dell’eccesso, senza né infingimenti né ipocrisie, in cui l’orrore mostrato non è mai fine a se stesso, ma ha, incredibilmente, una forte valenza “politica”: guardare negli occhi l’uomo protagonista di questa storia equivale per ogni spettatore al fare i conti con il proprio lato più oscuro e spaventoso, a mettere in discussione certezze acquisite e a interrogarsi sulla propria natura.
di Fabrizio Fogliato