Quando il cinema anticipa la realtà.
Fin qui tutto bene, fin qui tutto bene, fin qui tutto bene……………………
Mathieu Kassovitz è uno dei “misteri” cinematografici più interessanti del cinema di fine millennio. Passato da autore innovativo e geniale, nel giro di un paio di film, a mero artigiano esecutore tecnicamente ineccepibile di storie su commissione allineate alla più trita estetica narrativa mainstream. Osannato al Festival di Cannes del 1995 come il più interessante talento emergente del cinema francese e deriso, neanche due anni dopo per il successivo Assassin(s). Dai “fasti” della Francia al mercato di Hollywood in seguito al successo clamoroso de Le Riviéress pourpres (I fiumi di porpora, 2000), per scomparire o quasi nell’anonimato odierno. Eppure a ben vedere, il cinema di Kassovitz è sempre stato lo stesso. La sua forza, e il suo maggior pregio è sempre stata quella di riuscire ad apparire d’autore pur essendo mainstream. L’ “abbaglio” critico de La Haine è dovuto esclusivamente al fatto che il tema al centro del film era (ed è) di scottante e urgente attualità e la pellicola-guerriglia, girata dall’interno (con tanto di comparsate del regista stesso con la macchina in spalla durante lo svolgersi del film) risulta un pugno nello stomaco talmente forte da far chiudere gli occhi. Pellicola rabbiosa, “sporca”, urbana, e surreale che nasce dalla rabbia e dall’indignazione dello stesso regista per un fatto di cronaca avvenuto un paio di anni prima, e nel film, opportunamente, ribaltato di senso e significato.
L’idea del film proviene dall’uccisione di un giovane zairese. Il regista racconta trattarsi di un certo Makome M’Bowole (o Makomé Bowole), che nel 1993 è stato ucciso da un agente della gendarmerie con un colpo sparato a bruciapelo mentre era in custodia della polizia e ammanettato ad un termosifone. L’ufficiale disse di essere stato deriso dal giovane e di essersi sentito offeso dalle parole di Makomé, per cui, per spaventarlo gli aveva mostrato la pistola e mentre lo stava minacciando gli era partito un colpo accidentalmente. La maggior parte delle riprese è stato fatto nel sobborgo parigino di . I titoli di testa del film scorrono su immagini di repertorio degli scontri nelle banlieues parigine avvenuti tra il 1986-96, oltre a quelle “in presa diretta” degli scontri avvenuti durante le riprese del film nel sobborgo parigino di Chanteloup-les-Vignes. La Haine è girato per gran parte con attori non professionisti, cittadini e residenti della zona, ed è realizzato senza un budget preciso, al punto che alcune delle riprese sono state realizzate con l’utilizzo di semplice una telecamera palmare. Il film è dedicato alle persone che sono morte negli scontri tra giovani e poliziotti, avvenuti durante la realizzazione del film, come mostra il cartello nero che precede i titoli di testa su cui è scritto: Ce film est dédié à ceux disparus pendant sa fabrication…”
Figlio del regista ungherese Peter Kassovitz, Mathieu nasce a Parigi il 3 agosto 1967. Sin dall’inizio la sua crescita è scandita da set cinematografici, attori, luci e cineprese, elementi che determineranno la sua passione per la settima arte e che lo vedono esordire undicenne, come attore nel film Au bout du bout du banc diretto dal padre. A diciassette anni lascia la scuola e inizia a lavorare come assistente alla regia e nel mentre dedica anima e corpo allo studio di nuove sperimentazioni cinematografiche per poter realizzare propri film. Nel 1990 gira il suo primo cortometraggio Fierrot le pou, un simpatico e scanzonato rovesciamento del Pierrot le fou godardiano, mentre nel 1991 è la volta di Cauchemar blanc (incubo bianco) dove costruisce la struttura narrativa che poi utilizzerà per realizzare La Haine. L’anno successivo realizza un progetto, il corto Assassins che cinque anni dopo svilupperà ulteriormente in lungometraggio dando vita al controverso e maltrattato Assassin(s). Al Festival di Cannes 1995, durante la conferenza stampa di presentazione del film La Haine, Mathieu Kassovitz dichiara: “Un film è un film, e rimane tale; se si vuole fare la politica o la rivoluzione, bisogna avere il coraggio di prendere le armi, non fare cinema”. In questa frase c’è la sintesi di una carriera iniziata negli anni ‘90 tra propositi ”rivoluzionari”, cinematograficamente parlando, e proseguita nel nuovo millennio nell’enterteinement più confortevole, ma non per questo con risultati meno interessanti. Le parole del regista sono infatti una dichiarazione di intenti e se non comprese adeguatamente portano (come avvenuto) al fraintendimento di un artista deciso a fare intrattenimento e non ad essere autore.
Nel 1993, all’età di 25 anni, Mathieu Kassovitz dirige il suo primo film. Métisse racconta la storia di Lola (Julie Madeuch) che è in attesa di un figlio ma che ha forti dubbi sull’identità del padre: l’ebreo Felix (Mathieu Kassovitz), un piccolo pusher di periferia o il nero Jamal (Hubert Kounde) colto e rispettato figlio di un ambasciatore? Dallo scontro iniziale tra i due uomini nasce poco alla volta un’amicizia alla Jules et Jim, che permette a Kassovitz di concludere il film con una velata e sarcastica ironia. In questo piccolo film il cineasta parigino riflette sulla vita di coppia dove il “due” non è più il numero perfetto, ma anche dove il “tre” rappresenta un troppo che non può essere tollerato a lungo. L’ironia permette a Kassovitz di risolvere una questione assai intricata con leggerezza e mantenendo le debite distanze dalla banalità e dalla retorica. Métisse guarda con amore al cinema autoctono di Truffaut così come a quello “nero” di Spike Lee che sta nascendo oltreoceano. Nel 1994 durante la rivolta dei casseurs nelle banlieus parigine, Mathieu Kassovitz si sente offeso dalla continua disinformazione che la TV francese fornisce sull’avvenimento e decide di realizzare un film che racconti la vera realtà delle cose in modo crudo e semplice, per poter dare molteplici punti di vista e non solo quello conveniente ai giornali per garantirsi lo scoop. Con queste premesse “politiche e reazionarie” nasce La Haine un film che alla rabbia e all’indignazione per le vicende umane narrate, unisce un sorprendente risultato stilistico di rigore e fermezza che lo porta a vincere il premio per la regia al Festival di Cannes del 1995.
Un solo giorno nella vita di tre amici post-adolescenti, seguiti dalle 10:38 fino alle 06:01 del mattino dopo. Ragazzi, di origine araba, provenienti da famiglie immigrate che vivono in una povera periferia multietnica. Vinz (Vincent Cassel), è ebreo e pieno di rabbia. Egli si vede come un gangster pronto ad esigere il rispetto dovuto, solo dopo aver ucciso un poliziotto (il regista, attraverso la scena dello specchio, equipara il suo ruolo a quello di Travis Bickle (Robert De Niro) nel film Taxi Driver (id., 1976). Hubert (Hubert Koundé) è un afro-francese appassionato di pugilato che nel quartiere si è faticosamente costruita un palestra che è stata bruciata durante gli scontri. E’ il più riflessivo il più silenzioso, e (apparentemente) il più maturo dei tre: un ragazzo solo che contempla con disillusione l’orrore (quello del ghetto e dell’odio) che lo circonda. Saïd (Saïd Taghmaoui) è un magrebino posto nella terra di mezzo tra le risposte dei suoi due amici, incapace (non ne ha gli strumenti) di scegliere e facile al condizionamento e all’impulso momentaneo, per poi subitaneamente pentirsi o ritrarsi di fronte alle accuse e alle minacce dell’amico di turno (come nel caso di Vinz che lo rimprovera per aver dato la mano ad un poliziotto). I tre passano attraverso una quotidianità annoiata e senza meta, fino a quando prendono il treno per Parigi. Giunti nella capitale con molte aspettative e con l’illusione di trovare un “mondo diverso”, vanno incontro, invece, alle stesse frustrazioni della banlieu, e il loro desiderio di integrazione naufraga sotto il peso di un odio che non risparmia niente e nessuno….
“Un tizio precipita da un grattacielo di cinquanta piani. Ad ogni piano si dice, per farsi coraggio: fin qui tutto bene, fin qui tutto bene…Già ma il problema non è la caduta…è l’atterraggio!” Con questo refrain sarcastico si apre un film che segna un’epoca e che fa diventare Mathieu Kassovitz un cineasta di fama internazionale, fautore di un cinema che è rigore e spettacolo allo stesso tempo, che non gioca sull’accumulo effettistico, ma che articola la tecnica in relazione ad una ferrea struttura narrativa, con cui indaga il malessere della società e che non moraleggia sulle scelte: motivi questi con cui la critica lo porta a diventare, volente o nolente, l’anti-Luc Besson. La Haine è u film “in prima persona”, un film di inaudita potenza che in soli 95min. riesce ad essere incisivo come un reportage e ad aprire squarci di poesia e indulgenza in una realtà che Kassovitz riesce a radiografare con la freddezza e la razionalità di un sociologo professionista. Nel lento e cadenzato deambulare senza meta dei tre protagonisti Vinz, Hubert, e Saïd, c’è tutto il senso di inadeguatezza di una generazione che non sa come spendere la propria rabbia. Sono gli immigrati di seconda e terza generazione, “ghettizzati” nelle banlieus delle grandi città, che vivono una realtà altra e che una volta giunti a Parigi si stupiscono della gentilezza di un poliziotto. Vivono tra casermoni di odio e cemento, nel degrado culturale e sociale più abietto, senza punti di riferimento né modelli se non quelli dell’autodeterminazione offerti dal cinema. Emblematiche a questo proposito le due scene di Vinz che davanti ad uno specchio imita Travis Bikle e dello stesso Vinz che entra in un cinema dove stanno proiettando un film dell’ispettore Callaghan.
Se proprio devono essere messi al centro, dei film di Kassovitz, dei contenuti sociali, La Haine è il ritratto, ovviamente in bianco e nero, di una intera generazione, e come spesso accade è il preludio cinematografico alle violenze che sconvolgono la periferia di Parigi e di altre grandi città della Francia nel 2005. Rivolte iniziate in seguito all’episodio che vede protagonisti Giovedì 27 ottobre 2005, a Clichy-sous-Bois, due adolescenti, Zyed Benna e Bouna Traoré che muoiono fulminati da un trasformatore all’interno di una cabina elettrica ed un terzo, Muhittin Altun di 17 anni che rimane gravemente ferito. Non è chiaro il motivo per cui i tre si trovassero all’interno del trasformatore, Secondo alcuni i tre ragazzi, essendo inseguiti da una pattuglia di polizia, i tre giovani vi si erano rifugiati dentro (versione confermata anche da alcuni giornalisti). Inizialmente circoscritta al comune di Clichy-sous-Bois le rivolte, con lanci di sassi e molotov, auto incendiate e numerosi feriti lasciati sul campo da entrambe le parti (giovani e poliziotti) si sono poi estese a Montfermeil e ad altri centri del dipartimento di Senna-Saint-Denis per poi esplodere nel mese di novembre anche Rennes, Lilla, Valenciennes, Dijon, Tolosa, Marsiglia e Nizza. Il cinema anticipa la realtà dunque e come nel caso del film di Kassovitz le coincidenze tra finzione e realtà sono sorprendenti e inquietanti. In merito al film il regista, infatti dichiara: “Me lo sono chiesto se sarei stato capace di osservare in modo distaccato, poi mi sono detto: “Cosa succede?”. I ragazzi aggrediscono i poliziotti, i poliziotti aggrediscono i giovani. Disgraziatamente, i poliziotti hanno le armi e, quando perdono le staffe, sparano. E’ un circolo vizioso di odio. Per fortuna io non sono all’interno di questo circolo e posso mettere una distanza tra me e le cose che ho visto” (L’Unità 28 maggio 1995)
Il regista dunque, si erge a “cantore” di una generazione senza appartenervi. Mostrando disprezzo totale verso i media tradizionali (come dimostra l’episodio tra i tre ragazzi e i giornalisti) e come confermano le parole dello stesso cineasta: “Mi ha dato fastidio il fatto che la TV francese facesse praticamente disinformazione, anche perché i giornalisti non riescono a capire nulla di quello che accade. Cercano solo lo scoop. D’altra parte la tv non può raccontare i diversi punto di vista, né farti vedere quello che accade in un commissariato. Un film invece affronta la questione da molti punti di vista” (ibidem). Quella di La Haine è una generazione che ha perso definitivamente ogni identità e che riesce a trovare un proprio linguaggio nel “verlan” una sorta di dialetto parigino in cui le parole sono pronunciate al contrario, quasi per dimostrare la mancanza di possibilità di comunicazione tra il loro mondo e quello degli altri. Le monde est à vous recita un cartellone pubblicitario promettendo un paradiso artificiale (omaggiando Scarface (id., 1939) di Howard Hawks), ma l’unico paradiso per i protagonisti de La Haine è quello della musica rap, come sembra suggerirci Kasssovitz con una delicata e poetica ripresa con la louma che diffonde nel cielo la musica che esce dalla finestra mixata da un frenetico rapper.
Il tempo nelle banlieus è una minaccia perché nel rapporto/scontro tra giovani e poliziotti scandisce didascalicamente il lento ma inesorabile accrescere dell’odio reciproco destinato ad implodere anziché esplodere e quindi a far precipitare nel baratro giovani vite messe le une accanto alle altre da una folle logica di segregazione. Mathieu Kassovitz circoscrive il film in un arco di tempo di una ventina di ore dalle 10,38 del mattino alle 6,01 del mattino seguente, costruendo la cronaca di qualcosa di intangibile e imponderabile che sembra debba succedere da un momento all’altro ma che in realtà non arriva mai. L’attesa, la sospensione del possibile, si fanno snervanti e immanenti al contempo, e il “vuoto” che colma le vite di questi tre ragazzi-archetipi, sembra poter essere riempito solo dalla visione surreale dell’esistenza (la vacca vista da Vinz, simbolo di una realtà altra e impossibile). Ma anche il racconto, sia che si tratti di una barzelletta, di una storiella ironica o di un episodio grottesco, al limite del sarcastico, come quello della toilette, assume un valore aggiunto: quello di parabola morale attraverso cui il regista (che non a caso concentra i tre personaggi in un’unica inquadratura precedente) diffonde segnali premonitori (inascoltati) prima che la vicenda precipiti verso la tragedia. Il racconto del nano, infatti sembra consegnare ai ragazzi un destino ineludibile e prelude, non a caso, all’ironia fatta sul cinema (“non siamo mica in un film”) in merito alla possibilità di spegnere la Tour Eiffel da parte di Saïd, ma che una volta che i tre si sono allontanati dalla terrazza panoramica, puntualmente, invece, avviene. Il cinema è racconto, e il racconto è cinema, non c’è altro per Kassovitz. Ma nel finale il regista ricorda al pubblico che, nella realtà, basta un minuto (dalle 6,00 alle 6,01) per far precipitare il tutto e per fare deflagrare l’odio inespresso ma covato gelosamente per tutto il resto del film.
La scelta, non casuale, di chiudere il film all’interno di un centro commerciale desolatamente vuoto ma luminoso e luccicante, con le superfici dei vetri e dei pavimenti che rimandano l’immagine dei tre ragazzi, con il video-wall che ripropone immagini di morte provenienti da tutto il mondo e che dà la notizia ai ragazzi dell’avvenuto decesso dell’amico, rientra nell’ottica di Kassovitz di mettere in conflitto esperienze sociali diverse. Hubert, quando vede l’uomo scendere immobile sulla scala mobile, spiega, come un fratello maggiore, a Saïd, che quello è diverso da loro, è uno che aspetta che la vita gli passi accanto, perché ha i soldi e perché ha tutti i confort che richiede. Hubert dice al più giovane amico che a quelli come quell’uomo di quelli come loro non interessa nulla e solo di fronte all’impatto della violenza che “loro” si accorgono che esistono gli emarginati e i poveri e sono subito pronti a condannarli senza neanche conoscere i fatti. E’ una lezione di vita quella che Hubert impartisce a Saïd e che per traslato il regista impone allo spettatore. Lezione inutile, che se da un lato permette a Vinz di rinunciare ad uccidere il naziskin, mostrando tutta la differenza che passa tra le parole (per tutto il film Vinz dice di voler uccidere un “piesse” per pareggiare i conti), dall’altro non evita che il riflessivo e “pacifista” Hubert sia invece colui che spara. Il centro de La Haine è dunque il conflitto sociale, quello che si genera quando diverse comunità vivono “forzatamente” fianco a fianco senza conoscersi, ma una alternativa è ancora possibile se il regista sulle banlieus si esprime in questi termini: “Si vive fianco a fianco, ci sono zone dove i negozi arabi ed ebrei si alternano senza problemi. Non è una forzatura del film”. La benzina del film è la paura e tutto avviene e accade a causa della paura del diverso che diventa nemico da abbattere. Ecco perché Vinz all’inizio del film e Saïd alla fine strizzano gli occhi: entrambi sembrano non voler credere a ciò che sta succedendo e allo stesso tempo non si accorgono che loro stessi sono una delle concause.
La Haine è un pugno nello stomaco iperrealista e politically incorrect, che per quanto dichiaratamente schierato riesce miracolosamente a mantenersi in equilibrio sulla rappresentazione di una condizione umana e, privo di qualunque moralismo, mantiene sempre la giusta distanza dallo stato delle cose senza mai urlare e senza mai indignarsi. La Haine cerca di capire all’interno del (non)-rapporto tra giovani e polizia come sia possibile che oggi, nella periferia di una grande città, un giovane che si sveglia tranquillo la mattina, viene ucciso la sera stessa da un poliziotto. Visto oggi a distanza di più di quindici anni acquista il valore aggiunto di essere anche un film premonitore che oltre a leggere le motivazioni che avrebbero portato rivolta delle banlieus francesi di sette anni fa, affronta con largo anticipo il problema della perdita dell’identità etnica come motore delle tensioni multilaterali che agitano il mondo globalizzato.“E’ la storia di una società che precipita, e che mentre precipita si dice: fin qui tutto bene, fin qui tutto bene…Ma il problema non è la caduta, è l’atterraggio…” Nel film successivo Mathieu Kassovitz prende coscienza che la società è già precipitata e che l’atterraggio ha portato ad un nichilismo sconcertante e ad un aberrazione delle dinamiche che regolano i rapporti umani.
di Fabrizio Fogliato