Ordinarie trasgressioni di religiose per forza
Girato interamente in Italia e prodotto da Giuseppe Vezzani per la Trust International e la Lisa Film, Interno di un convento è forse il caso più rappresentativo del genere sexy-conventuale dell’intera storia del cinema. Nel 1977 Walerian Borowczyk sta lavorando ad un progetto cinematografico da realizzare in Italia con protagonisti Monica Vitti e Michele Placido, ma essendo entrambi gli attori occupati su altri set, il regista polacco decide di realizzare un film completamente diverso. Essendo rimasto attratto dalle poche pagine dedicate agli amori conventuali all’interno de “Promenades dans Rome” (Le passeggiate romane) di Stendhal, Borowczyk chiama sul set Ligia Branice e Marina Pierro e costruisce il film Interno di un convento come una sorta di passaggio di consegna tra le due muse ispiratrici. Considerato osceno e blasfemo, il film viene bocciato in censura e su di esso vengono operati pesanti tagli al momento dell’uscita nelle sale, e viene ritirato per ben tre volte dalla programmazione. Grazie al DVD della tedesca X-Rated, editato con il titolo Unmoralische novizinnen è oggi finalmente possibile vedere il film nella sua forma più integrale e completa, tenendo presente che si tratta dell’opera più controversa del regista polacco. “È stato detto con ironia che, venendo a girare un film in Italia, il regista ci ha dato quello che meritiamo. Una boutade che si può utilizzare, notando che Boro – una vita spesa nel paziente, angelico, travaglio dell’animatore – è assediato dalla produzione che offre mezzi e vuole in cambio film secondo l’immagine “italiana” del “maestro dell’erotismo”. Un meccanismo che non giustifica e che non assolve, specie se si considera Interno di un convento non col metro del moralista ma con quello dello specifico filmico. Grezzo e sbrigativo, pacchiano e immotivato, il film girato nei dintorni di Roma a fine primavera del ’77, si può facilmente liquidare in poche battute”. (Valerio Caprara, Walerian Borowczyk, La Nuova Italia, 1980).
Anno 1829 in un convento marchigiano, malgrado la continua sorveglianza della badessa (Gabriella Giacobbe), le giovani monache si abbandonano ad ogni sorta di piacere erotico: si amano tra di loro, si concedono nottetempo a nobili e contadini, si masturbano. Suor Clara (Ligia Branice) ha un amante (Howard Ross [Renato Rossini]) e quando la badessa la scopre tra le sue braccia e la punisce facendo allontanare il giovanotto dal territorio del convento, la giovane suora si vendica facendo avvelenare la superiora da una conversa. Ucciderà allo stesso modo, temendo di venir scoperta, la sua complice e la nipote della badessa. La verità verrà egualmente fuori, ma per timore di uno scandalo tutto verrà messo a tacere.
Detto che si tratta di un’opera che traduce il metodo in maniera, e che quindi perde gran parte dell’eleganza e dell’erotismo suggerito (e pertanto più pregnante) del cinema precedente, è interessante notare come in Interno di un convento siano ancora presenti gli echi del capolavoro di Borowczyk La Bête (La Bestia, 1975), sotto forma di rappresentazione della sessualità maschile. Gli uomini del film, sono rozzi e primordiali (sia che si tratti dell’inserviente Silva sia del nobile Rodrigo), raffigurati come privi di cervello e dominati da un istinto sessuale incontrollabile: quasi una dicotomia tra uomo e fallo. Anche questo aspetto contribuisce alla rappresentazione cupa e morbosa della vita conventuale, luogo in cui il sesso è prevalentemente consumato in solitudine attraverso la masturbazione e soggiace alla repressione di pudori e pentimenti.
Il convento, altro luogo “chiuso” del cinema di Borowczyk è un microcosmo malato, in cui domina il caos e in cui una suora, per mascherare la disobbedienza alla “regola”, non esita a commettere tre omicidi. In Interno di un convento, il sesso è qualcosa di forzato, mai liberatorio, compresso tra ragione e costrizione, totalmente privo di amore e senza redenzione. La frustrazione dei sentimenti che attanaglia le suore “prigioniere” nel convento richiama le dinamiche e la condizione carceraria: chi per lignaggio, chi per obbligo familiare, chi per imposizione ecclesiastica, nessuna delle suore è consapevole della scelta (che non ha fatto) e, nonostante Suor Clara sia l’unica che dichiara la sua consapevolezza, è colei che – una volta entrata in contatto con la carne e con Eros – distrugge definitivamente la tranquillità del convento ed è colei che con il suo gesto estremo e volontario (far entrare furtivamente un uomo tra le mura del convento) desacralizza la santità del luogo.
Walerian Borowczyk, risolve i film attraverso tre elementi distinti e complementari: acqua, carne e sangue. La fotografia traslucida di Luciano Tovoli (reduce dal set di Suspiria di Dario Argento), ammanta l’interno del convento di colori pastello mentre dall’esterno proviene una luce bianca e fortissima che circonda di flou il profilo delle monache. I tre elementi sopracitati, sono tradotti attraverso i colori: l’azzurro dell’acqua del lago su cui guarda il monastero, “penetra”, con il suo riflesso lungo le pareti bianche dei corridoi del convento; il rosso carminio della carne macellata, si confonde con il rosso del sangue versato dalle stigmate, dalla deflorazione e con quello mestruale; infine l’azzurro dell’acqua è destinato ad assorbire il rosso del sange proveniente dalla carne, come si evince sia dalla scena in cui la suora bagna le proprie mani sanguinanti nella vasca piena d’acqua, sia in quella in cui la suora sorpresa dalla badessa mentre è intenta a masturbarsi, immerge il dildo di legno sporco di sangue all’interno del catino; ed infine il sangue simbolicamente versato, dalle tre suore morte nel finale del film viene ipoteticamente accolto dal lago sottostante il convento, attraverso il gesto della suora che getta l’ampolla del veleno fuori dalla finestra. Come ricordato da René Girard nel suo saggio “La violenza e il sacro”, il sangue è nascosto nel corpo, ma una volta che viene versato scatena l’istinto e contagia; quello femminile, poi, esce naturalmente attraverso “i mestrui che vanno considerati nel quadro più generale dello spargimento di sangue”, e questi possono essere l’elemento che frantuma gli equilibri degli uomini e che porta in luce la loro animalità perchè “appena si scatena la violenza il sangue diventa visibile, comincia a scorrere e non è più possibile fermarlo, si insinua dappertutto, si sparge e si spande in maniera disordinata. La sua fluidità concretizza il carattere contagioso della violenza.”
Questo aspetto del contagio è il motore di Interno di un convento: all’inizio del film Silva entra nel convento portando in spalla un quarto di bue, come a rappresentare la “carne” che entra nel luogo “sacro e casto” per portare scompiglio e disordine. Non a caso, nella scena successiva, ambientata nella chiesa, i preparativi per rendere omaggio alla Madonna si traducono in un ballo dissoluto e spensierato, che non diventa mai liberatorio, improvvisamente interrotto dall’entrata imperiosa e furente della madre Badessa. La scena, costruita su un montaggio serrato, attento ai dettagli, sia a quelli erotici che a quelli dei corpi inanimati, è girata a ritmo di musica con la macchina da presa volteggiante che “spia” (da lontano, di nascosto, sempre dietro a qualche ostacolo), il comportamento delle suore. Tra dettagli anatomici, impudici sguardi sotto le tonache, rose rosse disposte nei vasi o ai piedi delle statue, toccamenti fugaci, oggetti sacri, e contatti carnali, lentamente la festa degenera nella rappresentazione di una sessualità lubrica. La suora che si punge con le spine, prima guarda il sangue uscire dalla ferita e poi succhia il dito voluttuosamente, quella sulla scala intenta a sistemare la statua viene toccata da un altra suora che le accarezza le cosce sotto la veste abbassandole le calze, mentre le due suore “sorprese” (dalla m.d.p. volteggiante) a palparsi all’interno del confessionale, chiudono le tende come a proteggersi dall’intrusione, ma con il loro gesto svelano anche l’artificio cinematografico attraverso cui – con un’improvviso cambio di focalizzazione da interna ad esterna – Borowczyk opera la denuncia della “presenza” dello spettatore-voyeur.
La violenza, nel film è incarnata dalla figura della madre Badessa, la quale non esita ad entrare nottetempo nelle celle delle monache, a trafiggere il materasso con una spada alla ricerca di “oggetti proibiti”, o a rovistare all’interno di mobili e cassetti alla ricerca della prova della colpa. L’immagine di dominio e di relazione coercitiva che ella ha con le suore è esplicativa dell’ipocrisia e del perbenismo repressivo incarnato dall’istituzione ecclesiastica. Tale atteggiamento, porta all’anarchia, e poi al suicidio e all’omicidio, in una rappresentazione della vita conventuale totalmente priva di qualsivoglia aspetto spirituale e/o salvifico. Tra le mura del convento, regna la follia, e non a caso, nel film, è concesso poco spazio agli esterni, come a voler trasformare il luogo chiuso, in una trappola senza via d’uscita e in cui l’unica speranza consentita per rincorrere la libertà è quella della morte. Aspetto esplicitato dalla domanda insistente e quasi fastidiosa, che viene posta da vari soggetti alla fine del film è: “Chi ha aperto la porta?”. Ecco il vero sacrilegio, il quale, come denuncia sarcasticamente Borowczyk, non è contenuto all’interno dell’agire blasfemo, della sessualità esibita e peccaminosa, di un peccato stesso che non è più tale se coinvolge persone aristocratiche, di uno scandalo che è “impossibile” denunciare, perchè si andrebbe a minare la credibilità della Chiesa, ma la “trasgressione” è racchiusa nella banalità di un’unica colpa: quella di aver aperto uno spiraglio (la porta) in un luogo che deve mantenersi “sepolcrale”.
Colpisce il fatto che l’incontro tra Rodrigo Andriani e Suor Clara venga accompagnato da una preghiera laica pronunciasta dalla donna/suora durante l’amplesso. Preghiera carica di allusività e doppi sensi come si evince dal testo: “Vieni nella mia mente con tutti gli affetti del cuore, penetra con la tua grazia nell’anima mia…vieni, vieni, mio signore”, che rilancia la promiscuità e al contempo svela il bigottismo e l’ipocrisia ontologica di una monacazione forzata, pronta a dissolvere i suoi valori nella carnalità più greve e negletta. Embelmatico dunque il finale, con il Cardinale che – mentre in Chiesa giace il feretro della madre Badessa – tra le urla dissennate delle suore, mentre l’organo suona note “apocalittiche” e con il volto imbrattato di sangue, pronuncia le seguenti parole: “Dio onnipotente, perdonaci. Poveri servi della tua potenza e schiavi di nostri peccati. Noi ti promettiamo di impegnarci con tutti i nostri mezzi, con tutta la nostra intelligenza, con tutta la nostra forza per custodire tutto quello che è accaduto in questi sacri luoghi….affinchè nulla arrivi al di fuori…Amen.
Anche in un film apparentemente secondario e/o minore come Interno di un convento, Borowczyk non rinuncia alla furia iconoclasta che contradistingue il suo cinema. Nonostante nel film siano evidenti le concessioni ad un erotismo di maniera, talvolta al limite della pornografia, privo del fascino e del mistero dei film precedenti, è indubbio che Interno di un convento rappresenti un tentativo commerciale “all’italiana”, nella consapevolezza che solo una rappresentazione della vita conventuale, così estrema e pacchiana, persino volgare, possa giungere a scuotere e a turbare le coscienze del pubblico di una nazione che ospita la Città del Vaticano. Non a caso Interno di un convento è uno di quei film messi all’indice dalla Chiesa (a differenza dei numerosi epigoni di nunexploitation, intenti solo ad inanellare una serie “innocua” di nudi e amplessi lesbici e non), e che tutt’oggi trova posto nella classifica dei film proibiti stilata dal Vaticano (assieme a I Diavoli di Ken Russel, Je vous salut Marie di Jean-Luc Godard, L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, Il Ritorno di Jens Jorgen Thorsen, e altri), perchè, nonostante il suo essere in pericoloso equilibrio tra dramma e barzelletta, mette a nudo (in tutti i sensi), in modo credibile, le contraddizioni di un sistema coercitivo, violento e irrazionale di reclutamento delle vocazioni.
di Fabrizio Fogliato
INTERIEUR D’UN CONVENT
TITOLO ITALIANO: Interno di un convento
ANNO: 1977
PAESE: Italia
DURATA: 100 Min
REGIA: Walerian Borowczyk
SCENEGGIATURA: Walerian Borowczyk,Marcello Lizzani, Giuseppe Vezzani
FOTOGRAFIA: Luciano Tovoli
MONTAGGIO: Walerian Borowczyk
PRODUZIONE: Giuseppe Vezzani Per La Trust International Film, Lisa Film (Monaco)
DISTRIBUZIONE: VIS STAR (1978) – Capitol International Video
ATTORI: Ligia Branice, Renato Rossini, Marina Pierro, Gabriella Giacobbe, Rodolfo Dal Prà, Loredana Martínez, Mario Maranzana, Alessandro Partexano, Olivia Pascal, Paola Prosdogemi, Antonietta Patriarca, Rossella Pescatore, Valeria Pescatore, Elisabetta Pedrazzi, Romano Puppo, Gina Rovere, Jole Rosa, Patrizia Mauro, Paola Morra, Mike Morris, Simona Villani, Greta Vayan, Miana Merisi, Romana Monti, Imelde Marani, Elisabeth Jane Long, Raymonde Carole Fouanon, Dora Calindri