Un funerale collettivo, in cui tutti sono colpevoli…e nessuno è colpevole.
Prosseneta: Voce colta di origine greca; prosseneta significava in origine “aiutatore degli ospiti”, consigliere, guida, intermediario (nell’antica Grecia il pròsseno era il cittadino incaricato della protezione degli stranieri), mentre oggi sta per ruffiano e mezzano. I prosseneti, uscito nelle sale il 28 Aprile 1976 visibile oggi, solo grazie al passaggio in TV della durata di 90′ 32” (ma registrato in visto censura come 105′), è il decimo film da regista di Brunello Rondi: “Velleitario tentativo di denunciare la mercificazione di cui la donna è oggetto nella nostra società” (Centro Cattolico Cinematografico). Così il CCC liquidava questo film (centrando comunque appieno le intenzioni del regista) non tenendo in considerazione però che la denuncia della mercificazione del corpo femminile è solo una parte di quest’opera costruita narrativamente e figurativamente come una sorta di kemmerspiel esistenziale.
L’unità di luogo, cioè la villa e lo spazio a bordo piscina in cui si svolgono gran parte delle azioni non potrebbero esistere se non attraverso l’astrazione di un non-luogo immaginario, in cui agiscono i vari personaggi. Il non-luogo prende forma attraverso le stanze della casa-teatro, raccontate come spazi scenici in cui ogni cliente replica (con tanto di maschere e scenografie) stati d’animo turbati e passaggi vitali colmi di rimpianto e mai riconciliati: in tutto ciò la donna assolve all’unico ruolo possibile (secondo la società dei consumi), quello di un essere taumaturgo in grado – con la sua sola presenza – di guarire, o meglio, temporaneamente alleviare le sofferenze di uomini psicolabili e insicuri. È la stessa contessa Gilda a dichiarare le intenzioni dell’agire suo e di suo marito: “Le nostre camere non devono più sembrare camere normali ma… teatri, quadri di illusione…”, così come più tardi sarà un cliente che, rivolto alla prostituta Odile, dirà: “E il mio teatrino…tu devi soltanto obbedire e basta”.
Lo spazio teatrale – evocato anche attraverso l’episodio (tra il serio e il faceto volto a svelare, con ironia, il meccanismo della finzione) che vede protagonista Luciano Salce – oltre a essere parte integrante della messa in scena, diventa palco interattivo per costruire una dance macabre in cui ogni essere umano abdica ad essere se stesso per (ri)costruirsi un’identità fittizia e attoriale. In quest’ottica, il film è leggibile anche come una metafora, cinica e caustica, dell’arte cinematografica, in cui i registi (Davide e Gilda) dirigono gli attori (prostitute e clienti), mentre le maestranze (servitù e cameriere) preparano lo spazio dell’azione. A tal proposito è emblematico lo svolgersi dei titoli di testa, le cui immagini – partendo dall’alto della villa e arrivando fino a bordo piscina – presentano donne delle pulizie, camerieri, giardinieri e inservienti, impegnati a “ripulire” lo spazio e a prepararlo per gli attori che progressivamente giungeranno sul set.
I Prosseneti, è dunque uno spazio filmico, in cui una prostituzione ormai interclasse (come presentata nel catalogo sfogliato da Giorgio), un connubio indissolubile tra sesso, finanza, e culto dell’apparire, un disprezzo totale delle classi agiate verso quelle popolari, e un’incapacità trasversale dei protagonisti ad assolvere al proprio ruolo sociale, trovano compimento attraverso il racconto implicito e sottaciuto di un’Italia (le provenienze dei vari clienti) “morente” in cui il meretricio dell’amore è solo la punta di un iceberg. Sotto il livello dell’acqua, si sta sviluppando il cancro della trasformazione dei cittadini in spettatori, in cui il ruolo della televisione (come ben evidenziato dalla scena con il produttore) diventa determinante per definire ambizione e realizzazione di uomini e donne anonimi e sconosciuti, provenienti dalla strada ma pronti a salire sul palco per farsi illuminare dai riflettori. Davide rivolto a Linda (nomen omen) – la ragazza adescata che, come dice lei: “Sono venuta a Roma perchè voglio diventare qualcuno” – le replica: “Sai cantare…ballare? Chiamo la TV”, e poi con il produttore al telefono: “Ho qui una ragazza eccezionale, vuole cantare in TV…vorrei proprio che lei la ascoltasse…ne vale la pena. È un provino che non deve perdere…”. L’incontro-trappola con l’emissario televisivo, si apre con questi che rivolto alla ragazza dice: “Mi hanno parlato molto bene di te Linda…diventerai famosa”. Dopo i convenevoli di rito la ragazza viene prima drogata, poi abusata, e infine ricattata…
L’anziano Davide (Alain Cuny) e sua moglie, la contessa Gilda (Juliette Mayniel), hanno adattato la loro splendida villa a casa d’appuntamenti. In essa incontriamo Odile (Stefania Casini), figlia di una donna torturata dai mercenari, ed uno di costoro, che desta nella ragazza il desiderio di rivivere sul proprio corpo le sofferenze patite della madre; un’aspirante attrice e un regista teatrale, che si finge un personaggio di Conrad; un ambasciatore abbandonato dall’amata, che impone alla sua “partner” di reincarnarla; una povera ragazza del Sud, costretta con la forza a prostituirsi; una spregiudicata diciottenne, che inscena un’orgia tra gli anziani ospiti della villa, convenuti per il compleanno di Gilda.
I Prosseneti, cioè i “procuratori di piacere”, in realtà sono vampiri. Brunnelo Rondi è abilissimo a giocare ambiguamente sulle figure dei Conti (non a caso), non rendendo mai esplicita la loro condizione ma – sottacendo la loro stessa natura – li dipinge a tinte fosche, come “cannibali” del piacere (degli altri) prima e come sanguisughe dalla vita (sempre degli altri) dopo, per poi, definitivamente, condannarli alla pena e alla dannazione – perpetrata attraverso il proseguimento della loro “arte” nefasta nel finale del film. Il momento rivelatore è nascosto nelle pieghe del dialogo iniziale tra Davide e Aldobrando, il mercenerio venuto in cerca di piacere attraverso la figlia di una donna da lui torturata, seviziata (e forse uccisa) anni addietro. Davide rivolto al soldato di ventura afferma: “Ecco abbiamo pensato, io e mia moglie, di non dare più dei nomi esotici. I miei cocktail li battezzeremo con i nomi dei nostri amici…di quelli che frequentano la nostra casa”; parole, che sono un primo accenno alla necessità di “nutrimento” dei Conti.
E’ solo un accenno, un’allusione criptica perché, a questo punto del film, tutto è ancora nebuloso nel definire i registi della messa in scena. Subito dopo, Davide insiste nel sottolineare la natura stanziale dell’esistenza sua e di sua moglie: “Non ci siamo mai mossi da qui, è anche la nostra villeggiatura…Naturalmente vediamo un sacco di gente e il tempo passa”. Proprio questo richiamo al trascorrere sempiterno del tempo, si ricollega al finale del film, in cui, pezzo dopo pezzo, si ricompone il quadro del puzzle-enigma sulla natura dei “prosseneti”. In un’atmosfera funerea, dominata dalla luce delle candele, priva di illuminazione artificiale, riscaldata dalle fiamme sempre in primo piano, è Gilda, rivolta a Davide, a denunciare il suo malessere: “Questo schifo di vita. L’inferno prima e dopo”.
La scena del banchetto/orgia è costruita interamente sulla condanna dei coniugi-vampiri. Questi vecchi, dall’età indefinita, si nutrono della linfa vitale delle giovani vittime che reclutano, plagiano, e infine “divorano” per mantenersi in vita. L’arrivo di Jules serve da pretesto per denunciare l’impossibilità di un’esistenza normale da parte dei Conti, i quali hanno la continua necessità di nutrirsi di giovinezza. È Davide stesso a dichiararlo: “E arrivato l’ospite più desiderato, senza offendere nessuno, la giovinezza stessa. L’oggetto di tutte le nostre ansie, di tutti i nostri rimpianti. Quello che noi non siamo mai stati…quello che noi non saremo mai”; Jules, in risposta, si rivolge a Gilda dichiarando la sua consapevolezza verso ciò che rappresenta e, contemporaneamente, si trasforma (letteralmente) in cibo: “E’ solo soffrendo quando non ci sono che puoi essere felice con me. Vuoi i miei diciotto anni? Mi apro le vene e ti offro il mio sangue. C’è un forte odore di incenso qua dentro. Incenso da camera ardente. (…) Sarò il vostro cibo, mangiando di me vi porterete vie un po’ della mia giovinezza…mangiatemi, bevetemi, uccidetemi se volete, ma presto però perchè tra mezz’ora me ne vado”. Nel pronunciare queste parole, Jules si spoglia, si sdraia sul tavolo e si lascia bagnare dal vino e cospargere di cibo, e mentre questi vecchi, cadenti e mortiferi, ansimando cercano di succhiare l’essenza della sua natura, Gilda si china sul collo di Jules per morderla alla giugulare: è appena un attimo e poi la donna si ritrae spaventata, mentre accanto a lei Davide osserva la ragazza fuggire e chiosa: “Odore di sangue, sempre odore di sangue…”. Solo quasi fuori tempo massimo, Rondi svela la natura dei “suoi” demiurghi, mantenendo per tutta la durata del film un’ambiguità enigmatica e priva di giudizio. Questi vampiri, normalizzati, integrati nella società e nascosti dietro lo specchio del potere, sono un’evidente metafora di un conflitto che non è più di classe, ma è solo più generazionale, e pertanto più subdolo e pericoloso.
La giovane donna manipolatrice di Tecnica di un amore, è diventata un Giano bifronte, scomposta nella divisione di genere e (ri)unita nel matrimonio della mercificazione: i Conti e gli ospiti della villa altro non sono che fantasmi mascherati da borghesi, endemici alla società e conglobati nel sistema produttivo e finanziario. La donna ha perso ogni consistenza (anche corporea) e si è tramutata in una merce (uno dei clienti rivolto a una ragazza dice: “Perchè parli, stai zitta, tu non devi parlare mai… tu devi essere solo un’ombra”) e al più un pezzo da collezione, messo in un archivio (le diapositive di Davide) necessario per esibire in pubblico un senso di possesso e di dominio. L’atto sessuale e l’amplesso, non rappresentano quasi più nulla, sono ormai divenuti lo sterile corollario necessario per dare forma a quadri astratti ed esotici. È lo stesso Giorgio a richiedere la cornice per ambientare la messa in scena del suo amplesso (mai consumato) con la giovane prostituta: “All’alba, un’alba malese, Conrad, Rimbaud, anche Salgari. Lei è la figlia di un capo tribù, di cacciatori di teste… qui siamo già più vicini a Melville…e io sono Almayer, il reietto delle isole”.
Ne I prosseneti, nessun amplesso è mai consumato, tutto vive nella superficie di uno sterile divertissement in cui la fisicità del sesso ha perso ogni consistenza. Si tratta di “avventure” ricalcate su stereotipi da fotoromanzo, che contano – indipendentemente dal possibile piacere – più per le relazioni che stabiliscono e per i benefici che garantiscono. Senza volerlo quindi (ma forse, presagendolo), Brunello Rondi racconta in questo film ciò che succederà trent’anni dopo: spettatori e attori sono due parti di una realtà, basata esclusivamente sull’immagine, la donna, si trasforma in tangente e sostituisce il denaro come strumento di corruzione, finanza e sesso si stringono in un improbabile abbraccio, per dare vita ad un sistema plutocratico, in cui la vecchiaia si nutre di giovinezza.
I due Conti de I prosseneti sono la rappresentazione di una gerontocrazia che vampirizza la giovinezza, la quale non è vittima (come dimostra la figura di Jules) ma è complice, anzi non esita ad offrirsi come agnello sacrificale pur di soddisfare la propria inusitata ambizione. Il film infatti, si chiude con il ritorno di Linda (di lei Giusy aveva detto: “Quante balle dice quella ragazza, vedrete che torna. Tornerà prima di stasera”), mentre un’incredula e morbosa Gilda, prima la supplica di andarsene, ma poi la accoglie come una figlia prodiga che, dopo un breve sbandamento, ritorna sui suoi passi. I Prosseneti, non è altro che uno squarcio profetico sull’Italia che verrà, costruito attraverso l’astrazione di una messa in scena metaforica, ma carica di disillusione e impregnata di morte: un funerale collettivo, in cui tutti sono colpevoli…e nessun è colpevole.
di Fabrizio Fogliato
I prosseneti (1976)
Regia/Director: Brunello Rondi
Soggetto/Subject: Brunello Rondi
Sceneggiatura/Screenplay: Brunello Rondi
Interpreti/Actors: Alain Cuny (Davide), Juliette Mayniel (Gilda), Luciano Salce (Giorgio), Stefania Casini(Odile), José Quaglio (José, l’ambasciatore), Silvia Dionisio (Silvia), Jean Valmont (Aldobrando), Consuelo Ferrara (Linda), Sonia Jeanine (Angela), Ilona Staller (Lil), Gabriella Lepori (Giusi)
Fotografia/Photography: Gastone Di Giovanni
Musica/Music: Luis Enriquez Bacalov
Scene/Scene Design: Elio Micheli
Montaggio/Editing: Marcello Malvestito
Produzione/Production: Helvetia Films
Distribuzione/Distribution: Helvetia Film
Censura: 68354 del 22-04-1976