Erotismo latente, ambienti psicologici, rapporti crudeli, personaggi immorali, seduttori sordidi e luciferini nel primo film di Erich Von Stroheim
La biografia di alcuni registi spesso sfocia nella leggenda. Soprattutto durante il periodo della Silent Era in cui il personaggio pubblico diventa predominante su quello privato e – particolarmente durante gli anni ’10, in cui la figura di alcuni registi diventa sinonimo di clamore e successo – si registrano biografie prevalentemente immaginarie in grado di rappresentare al meglio personaggi dai contorni ben definiti senza creare distinzione tra dentro e fuori lo schermo. È il caso questo di Erich Von Stroheim il quale è prima attore, poi aiuto regista per David W. Griffith (Intollerance, 1915 e Hearts of the world, 1918) e, infine, regista dei suoi film.
Nato vicino a Vienna nel 1885, emigra negli Stati Uniti all’inizio del ‘900. Sin da subito arricchisce il suo passato biografico di particolari inventati: il prefisso “Von” che richiama ad una discendenza nobile (mentre i genitori sono mercanti), il grado di ufficiale di cavalleria dell’impero austro-ungarico, (mentre a vent’anni diserta l’esercito) e una vocazione alla magniloquenza che se da un lato si manifesta nel suo cinema titanico, dall’altro diventa la zavorra che appesantisce ogni sua produzione – solo il primo dei suoi film può considerarsi veramente suo. L’intento di Stroheim è soprattutto quello di incarnare fuori e dentro lo schermo il suo personaggio feticcio, quello del militare prussiano, arrogante, perfido e meschino che indossa la divisa come una seconda pelle e che si atteggia con comportamento marziale e impeccabile salvo poi di svelare un animo dissoluto e immorale.
La figura di Erich Von Stroheim, si distingue dai grandi registi coevi per la peculiarità maniacale attraverso cui “ricostruisce” il realismo tanto dei luoghi quanto dei caratteri. Le sue non sono storie edificanti, i suoi personaggi peccatori quasi mai trovano redenzione e i suoi seduttori luciferini e sordidi non sopravvivono al loro stesso cinismo. Se confrontato con il cinema di De Mille – cui per temi e soggetti sembra essere affine – in realtà l’opera di Von Stroheim rappresenta per il pubblico degli anni ’10 e ’20 qualcosa di estremo ed “eversivo”, al punto che – dopo l’inaspettato (e per certi versi incomprensibile successo del suo primo film) – quelli che seguono incontrano enormi ostacoli produttivi e mai diventano successi commerciali. Egli interpreta il ruolo di regista in maniera ossessiva e monomaniacale esasperando tutti i caratteri della messa in scena: l’insistenza con cui spinge gli scenografi a ricostruzioni minuziose anche nei dettagli meno importanti e talvolta persino fuori dal profilmico; il conflitto permanente con majors e produttori a causa degli esorbitanti costi dei suoi film e delle continue richieste di incremento di budget durante la lavorazione; la persistenza con cui modifica ogni scena al momento delle riprese contraddicendo e/o stravolgendo il contenuto della sceneggiatura; il rapporto tormentato e burrascoso con gli attori – acuito dall’obbligo imposto di ripetere in maniera estenuante le scene (con un numero impressionante di ciak) – alla ricerca di una perfezione attoriale che non tralasci le sfumature.
Memorabili sono i suoi scontri sul set con divi del calibro di Gloria Swanson e John Gilbert i quali, apparentemente, sembrano lamentarsi dei modi autoritari e brutali del regista, in realtà sono gelosi del fatto che il nome e la personalità di Stroheim prevalgano e che la loro stella venga offuscata da quella del regista. È altresì vero, comunque (e le sue stesse dichiarazioni lo dimostrano), che quello di Stroheim è un sogno “irragionevole e spropositato” di realismo secondo cui il film deve durare anche cinque o sei ore e deve essere girato: “…In vere città e non in frammenti di città disegnati da Cedric Gibbons o Richard Day, lungo veri viali, fiancheggiati da alberi veri, con tram, bus, automobili reali, lungo piccole strade vere, con sporcizia e fetori reali, nel fango vero, così come nei palazzi e nei castelli reali. Volevo girare le mie scene e popolarle d’uomini, donne e bambini reali, come se ne incontrano tutti i giorni nella vita reale; volevo vestirli come si vestono veramente nella vita, con buon gusto o cattivo gusto, puliti o sporchi, impeccabili o sbrindellati… volevo filmare storie verosimili come la vita, anche se avessi dovuto perseguire il loro realismo fino all’ennesimo grado. […] credevo che la produzione cinematografica potesse essere una testimonianza dei drammi reali, di tragedie reali che scoppiano ogni momento e ogni giorno in tutti i paesi; amore vero, odio vero, uomini e donne reali che vivono pienamente le loro passioni”. (Scritto autografo postumo del 1958 in Alessandro Cappabianca, Erich Von Stroheim, La Nuova Italia, 1979).
Così come si è solito dipingere Erich Von Stroheim come un regista “mitico”, allo stesso modo si tende a definire i contorni della fine della sua carriera di regista secondo lo stesso metodo: egli smette di fare film a causa dell’entrata in vigore del Codice Hays (il codice di censura, promulgato da Will H. Hays, secondo cui sesso e violenza non possono essere né mostrati, né nominati in maniera diretta). Se così fosse, però, non si spiega il fatto che ogni suo film precedente venga costantemente sottoposto a tagli ed epurazioni a causa della rappresentazione di situazioni trasgressive, esplicite e/o perverse e immorali. Pertanto risulta molto più attendibile la tesi secondo cui – oltre al passaggio dal muto al sonoro – sia stata la necessità di dover costantemente scendere a compromessi per poter continuare a raccontare le sue storie attraverso il suo iperrealismo titanico che l’hanno coraggiosamente portato ad autoescludersi. Senza dimenticare che il codice Hays – come tutti gli strumenti di censura – risulta essere ipocrita, visto che non prende in considerazione la produzione clandestina (riservata ai postriboli e a ricchi facoltosi) di pornografia, ma colpisce la produzione mainstream che, attraverso un autore come Stroheim, cerca di trasportare i contenuti “clandestini” nel cinema ufficiale, reinventando la scrittura filmica e modulandola su coordinate erotiche suggerite, implicite e nascoste, ma senza occultarne il lato perverso. Pertanto, un giudizio sul cinema del regista austro-americano non può non essere viziato dal preconcetto sulla sua figura “mitica”, mentre invece bisognerebbe constatare come sia impossibile esprimere pareri esaustivi sui suoi film a causa sia della mutilata trasgressione dei contenuti (rispetto al periodo in cui sono realizzati), sia della inconpletezza delle sue opere (manipolate tagliate e stravolte dai produttori), sia perchè bloccate o inibite da codici di censura interni (pre Hays).
Il primo film da regista di Erich Von Stroheim, Blind Husbands (Mariti ciechi/La legge della montagna, 1919), è da considerarsi l’unica sua pellicola completa e fedele alle volontà dell’autore – oltre ad essere stato l’unico successo commerciale. Blind Husbands è prodotto dalla Universal e il regista instaura con il tycoon della major Carl Leammle un rapporto di fiducia reciproca sostenuto dall’ammirazione sconfinata del produttore per il regista: serenità e stima che portano (non a caso) alla realizzazione del film nei tempi e nei modi voluti, e che si incrinano leggermente solo al momento del lancio pubblicitario del film a causa delle resistenze di Stroheim al cambiamento del titolo. Il film – tratto da un racconto autografo (ma sarà vero?) e mai pubblicato del regista dal titolo The Pinnacle – mantiene questo titolo per tutta la lavorazione fino a quando il direttore del settore pubblicitario della Universal chiede a Carl Leammle il perchè di un titolo così anonimo e fuorviante. Si instaura così all’interno della major un lungo contenzioso tra autore e produttore che coinvolge molte personalità dello studio e che porta alla stesura di un elenco di oltre quattrocento possibili titoli. La vertenza si chiude quando un impiegato del settore pubblicitario Edward Moffet, propone Blind Husbands, cioè un titolo a metà strada tra la matrice letteraria e quelli dei successi di De Mille. Stroheim – spingendosi fino a pubblicare un lettera di vibrata protesta sul Motion Picture News – non accetta il cambiamento e rimprovera a Leammle di essersi piegato all’avidità e al calcolo commerciale; sulla stessa testata riceve la risposta del produttore che afferma che senza buoni incassi l’arte non può essere finanziata.
Blind Husbands viene girato tra il 3 aprile e il 12 giugno 1919 e costa circa $125.000; le riprese vengono effettuate, per gli interni, negli studios Universal (dove viene ricostruita Cortina d’Ampezzo) e per gli esterni tra il picco Idlewild a San Bernardino e il Big Bear Lake in California. La figura di Sepp è ispirata a quella di Sepp Innerkofler (conosciuto (presumibilmente) da Stroheim durante una vacanza trascorsa in Tirolo ai primi del’900.) guida alpina di Sesto Val Pusteria che sul finire dell’800 diventa albergatore, amplia il rifugio delle Tre Cime e apre l’hotel Dolomitenhof Nel film è presente, nel ruolo della giovane sposa, Valerie Germonprez, futura moglie del regista. Il film esce, in prima mondiale, il 19 ottobre 1919 al Rialto Theatre di Washington e si rivela sin da subito un grande successo.
La guida alpina Silent Sepp (Gipson Gowland), riceve un telegramma che annuncia l’arrivo di un suo amico all’Hotel Croce Bianca di Cortina D’Ampezzo. Il dottor Amstrong (Sam De Grasse) in passato ha salvato la vita a Sepp ed diventato suo amico, e adesso sta per raggiungerlo per una breve vacanza in compagnia della moglie Margaret (Francella Billington). La donna, sin al suo arrivo, si sente trascurata dal marito e si interessa alle attenzioni di un giovane ufficiale austriaco anch’egli in villeggiatura. Erich Von Steuben (Erich Von Stroheim), è un millantatore che dietro la divisa di sottotenente nasconde l’atteggiamento meschino di un dongiovanni senza scrupoli. Egli si accorge ben presto della noncuranza con cui il Dottor Amstrong tratta la moglie e pensa di approfittare della situazione iniziando un pedante corteggiamento che ad un certo punto sembra concretizzarsi in una relazione. Sul punto di cedere alla seduzione di Von Steuben, Margaret si ritrae, anche grazie alla presenza saggia e silenziosa di Sepp, che discretamente vigila sui comportamenti della donna. Durante l’ascesa al Pinnacolo si consuma la “sfida” tra Von Steuben e il Dottor Amstrong, il quale ha preso coscienza delle insidie portate alla moglie dal falso ufficiale.
Il paese di Cortina D’Ampezzo e la sua comunità montanara fanno da sfondo alla vicenda. Il paese di Cortina è frequentato da facoltosi turisti i quali, nell’ottica del regista, corrompono la tranquilla vita di paese attraverso il loro atteggiamento arrogante e altezzoso. Allo stesso tempo, però, il regista mostra come l’apparente felicità della comunità altro non sia che la superficie di un mondo desideroso di essere corrotto, non immune né dal peccato e né dalla colpa. Le figure della serva e della popolana che cedono facilmente alle lusinghe e alla seduzione di Von Steuben ne sono la chiara e più diretta personificazione. In fondo, in questo film come nei successivi il teorema di Von Stroheim è semplice e immediato: il peccato non è legato né alla condizione sociale né a fattori economici né al genere di appartenenza ma esso è connaturato alla natura umana. In Blind Husbands, non a caso, non ci sono personaggi esenti da colpe, tutti sono colpevoli, responsabili delle proprie azioni e vittime di se stessi (più che degli altri); l’unico personaggio positivo, è quello (anche metaforico) di Silent Sepp che, dietro la personificazione della guida alpina, nasconde l’incarnazione del destino: silenzioso, infallibile e saggio – quasi una divinità pagana emanazione delle vette alpine.
A sancire la rappresentazione pessimista e colpevole della natura umana interviene nel film un cartello che ricorda – durante l’ascesa al Pinnacolo – un episodio (plausibilmente reale e di vita vissuta) coincidente con la vicenda narrata nel film. Mentre il Dottor Amstrong , Margaret e Von Steuben salgono verso il rifugio, dalla nebbia emerge una lapide con su scritto: il 16 Settembre 1879 Franz Huber fu scoperto da Alois Bauer durante un incontro segreto con sua moglie e nella lotta che seguì fu gettato in un precipizio dal marito tradito. Prega, viandante, per la sua povera anima! Questo cartello che richiama la cruda realtà della vita coniugale, contrasta tanto con la presenza nel film della coppia di giovani spos – mostrati continuamente come termine di paragone rispetto alla vita di coppia degli sposi maturi e affermati – tanto con l’impianto fortemente simbolico e psicanalitico del film, in cui, sin dalle scene iniziali il Monte Cristallo e il paese di Cortina steso ai suoi piedi sembrano assumere i contorni della rappresentazione dei generi sessuali.
Le tre didascalie che legano i campi lunghi del monte, del paese, e della comunità recitano così: Sotto il cielo blu…vecchio… come il mondo stesso…sta il Monte Cristallo/ …E come una pietra preziosa, quasi oppresso dalla vicinanza del massiccio alpino, sta il paese di Cortina. /Cortina D’Ampezzo, la meta dei turisti americani. Stroheim inquadra il massiccio come un enorme fallo piantato nella terra e la piazza di Cortina (con la fontana al suo interno) hanno entrambe la forma circolare che richiama all’universo femminile. Le categorie psicanalitiche della sessualità si ripetono più volte all’interno del film – utilizzando anche la figura del triangolo come simbolo della relazione che lega i tre personaggi. All’arrivo del Dottor Amstrong, della moglie e di Von Steuben sulla stessa carrozza, Stroheim ricalca attraverso tre stacchi simbolici – tutti di matrice sessuale – i rapporti erotico-sentimentali che legano il desiderio tra Margaret e Von Steuben: un primo piano mostra la donna che solleva la veletta per mostrare il viso (mentre nel finale – con la stessa inquadratura sulla stessa carrozza – si vede la donna che indossa, al momento della partenza, un grosso cappello e abbassando la testa nasconde il suo volto); un dettaglio mostra l’elsa della spada posizionata tra le gambe del finto ufficiale; un altro dettaglio mostra la caviglia dondolante della donna offerta allo sguardo di Von Steuben.
Successivamente – durante l’incubo notturno di Margaret assistita dal marito vicino al letto – Stroheim utilizza nuovamente tre stacchi che si aprono e si chiudono sul primissimo piano di Margaret intenta a dormire, in cui si susseguono, l’avanzare su fondo nero del primo piano del volto ghignate e minaccioso di Von Steuben (con bocchino e monocolo) e il dettaglio di una mano maschile che prima simula una masturbazione e poi alza l’indice (come un fallo) e lo punta contro la donna. Nello stesso istante Margaret si risveglia sconvolta e turbata e sul suo volto sono visibili tanto il senso di colpa quanto il desiderio. Allo stesso modo, come detto in precedenza, la figura simbolica di Silent Sepp agisce da “vigilante” sulle virtù femminili e da interlocutore verso lo spettatore. La guida alpina, viene presentata da una didascalia che recita: Figlio delle eterne montagne, forte e taciturno come l’oro, il silenzioso Sepp. Durante la notte passata al rifugio si concretizza visivamente il suo carattere simbolico – precedentemente solo suggerito attraverso la simbiosi tra lui, la sua pipa e il suo grosso cane San Bernardo. Quella del rifugio è una meravigliosa scena girata in profondità di campo (il cui contenuto narrativo anticipa di molti anni le dinamiche dei personaggi di Citizen Kane di Orson Welles), all’interno della quale si stabiliscono tanto i rapporti di forza tra i personaggi quanto i ruoli che essi incarnano. La scena è interamente costruita sull’inquadratura dall’interno della stanza di Von Steuben prospiciente a quella di Margaret. L’inquadratura a mezza figura – da dietro le spalle dell’ufficiale – mostra Margaret (anch’essa a mezza figura) in profondità di campo davanti alla finestra. Poi, la donna gira lo sguardo e incrocia quello di Von Steuben. Tra i due nel corridoio (in piano americano) è frapposta la figura di Sepp che, in compagnia del suo cane San Bernardo, si pone come baluardo al possibile ed eventuale tradimento della donna.
La scena rappresenta anche il punto più alto del conflitto – interamente fatto di sguardi – tra la guida alpina e Von Steuben. Quando quest’ultimo arriva a Cortina, la didascalia lo presenta così: un millantatore che usa l’uniforme da ufficiale per compiere più facilmente le sue furfanterie, poi una volta sceso dalla carrozza si rapporta con Sepp. La breve sequenza è rappresentativa tanto del carattere dei due uomini quanto dell’idiosincrasia che esiste tra loro. Von Steuben guarda Sepp dal basso verso l’alto: una panoramica a salire sulla guida alpina ne mostra i pantaloni rattoppati, la giacca di panno e i capelli arruffati, a cui segue lo sguardo altezzoso di Von Steuben. Le stesse inquadrature vengono ripetute nel controcampo che mostra lo sguardo di Sepp – questa volta dall’alto verso il basso: una panoramica a scendere su Von Steuben che mostra la perfetta aderenza della divisa militare, e il successivo sorriso ironico di Sepp. Sin da subito, quindi, Stroheim tende ad evidenziare l’incompatibilità dei due uomini e – nella scelta di realizzare due panoramiche opponenti – descrive il loro modo di osservare e di giudicare il mondo.
L’ascesa finale, però, mette a confronto altri due uomini, il marito “cieco” Robert Armstrong e l’ufficiale arrogante Erich Von Steuben. I due uomini sono uniti dalla presenza di una lettera – il cui contenuto rimane ignoto (allo spettatore come al Dr. Armstrong) fino al momento in cui si consuma la tragedia – per poi rivelarsi opposto rispetto a quanto presunto. Scelta, oltremodo simbolica, con cui il regista tende ad evidenziare come la natura umana – sconvolta dal turbine dei sentimenti – non sia in grado di produrre comportamenti logici e razionali ma agisca solo ed esclusivamente in preda ad un virulento istinto animale; non si spiegano altrimenti, né il tentato omicidio da parte di entrambi sulla punta del Pinnacolo, né tanto meno, il taglio della corda che costringe Von Steuben a rimanere bloccato in cima alla vetta e Armstrong a dover scendere da solo e senza protezione: il primo precipita a valle e muore, il secondo – dopo aver letto la lettera e aver scoperto che la moglie gli è rimasta fedele – precipita su uno spuntone di roccia e si ferisce gravemente (ma sopravvive).
In Blind Husbands domina uno dei temi più cari al regista, e di cui egli stesso è artefice e massimo esponente, quello del “desiderio” e della sua rappresentazione “fuori scena”. In tutti i suoi film, il “desiderio” è un elemento latente, che si manifesta tragicamente solo al momento della “rivelazione”, perennemente circoscritto e ubicato nel fuori campo ma, continuamente, interattivo con le scene e i comportamenti dei personaggi. In questo film la più chiara rappresentazione di questo aspetto è la scena dello specchio di fronte al quale si pone Margaret (dopo il ritorno in stanza al termine della Festa della Trasfigurazione). La scena è un piano sequenza costruito su un intreccio di fuochi e dissolvenze che, scientemente, nega la visione del campo grazie alla presenza dello specchio. Ciò che si vede sono solo i riflessi dei personaggi che sono nel fuori campo: un primo piano ravvicinato della donna di fronte allo specchio nel cui riflesso, sullo sfondo, si vede il marito immobile e intento a leggere. Una dissolvenza “vibrante” introduce l’immagine di Margaret in primo piano e fuori fuoco mentre sullo sfondo, al posto dell’uomo, si sostituisce l’immagine dei due giovani sposi abbracciati e affettuosi (la rappresentazione del desiderio). Una dissolvenza inversa introduce nuovamente la realtà del marito che dorme per poi portare l’uomo fuori fuoco e rimettere a fuoco il primo piano della donna.
In un un’unica sequenza, Stroheim concentra la rappresentazione del desiderio per una vita coniugale diversa e al contempo la cecità di un marito preso solo ed esclusivamente dal suo lavoro e dai suoi interessi – il primo piano riflesso dalla donna rimanda a quella che è l’immagine di se stessa che lei vorrebbe avere nella vita reale (e quindi in campo) ma che invece esiste solo nella superficie speculare (e quindi nel fuori campo). Blind Husbands dietro alla semplicità della trama nasconde un intreccio stratificato di rimandi e sottotesti, testimonianza diretta della grandezza di Eric Von Stroehim, l’unico regista (assieme ad Orson Welles) che ha tentato, inutilmente, di modificare e di plasmare i gusti del “grande” pubblico verso un ottica non più edulcorata, superficiale e ridanciana ma incentrata sulla metà oscura dell’uomo, sulla sua fragilità e sulla sua complessità. Ha (prevedibilmente) fallito: i suoi film sono stati mutilati e stravolti, il suo ego smisurato alla lunga ha finito per travolgerlo, ma tutto ciò non toglie che, nel bene e nel male, egli sia (a nostro modesto parere) uno dei pochi artisti nella storia a potersi fregiare, senza esagerazioni, dell’etichetta di “genio”, perchè i suo film – anche visti oggi – danno vita ad un turbine fiammeggiante di emozioni, non lasciano mai indifferenti, turbano e interrogano lo spettatore (anche quello moderno).
di Fabrizio Fogliato
BLIND HUSBANDS
TITOLO ITALIANO: Mariti ciechi/La legge della montagna
PAESE: Stati Uniti
ANNO: 1919
DURATA: 91 MIN.
REGIA, SCENEGGIATURA, SCENOGRAFIA: Erich Von Stroheim
SOGGETTO: dal dramma “The Pinacle” di E. Von Stroheim
MONTAGGIO: Franck Lawrence, Eleanor Fried;
FOTOGRAFIA: Ben F. Renolds
DIDASCALIE: Lilian Ducey
PRODUZIONE: CARL LAEMMLE – UNIVERSAL
INTERPRETI E PERSONAGGI: Erich Von Stroheim (Ten. Erich Von Steuben), Gibson Gowland (Sepp), Sani De Grasse (Dott Armstrong), Francilla Billington (Margaret Armstrong), Fay Holderness (La Cameriera), Valerie Germonprez, Jack Perin, Euby Kendrick, Richard Cummings