“L’unica differenza tra la realtà e la finzione è che la finzione deve essere credibile” (Mark Twain)
Famoso senza mai diventarlo: John Sheardown, il diplomatico canadese che coordinò le operazioni di copertura durante la crisi degli ostaggi americani a Teheran. È morto, all’età di ottantotto anni il 30 Dicembre 2012. Sheardown è l’uomo centrale (da parte canadese) dell’operazione “ARGO” – quella descritta e raccontata nel film di Ben Affleck. Il diplomatico canadese – responsabile per l’immigrazione a Teheran – non compare nel film; il suo ruolo è stato cancellato per dare spazio e visibilità a quello, ben più cinematografico, dell’ambasciatore Ken Taylor. I sei americani, rifugiati e clandestini, nella, realtà si rivolsero a John Sheardown per ottenere protezione un volta fuggiti dall’ambasciata americana assaltata dalle milizie dell’Ayatollah Ruhollāh Muṣṭafā Mosavi Khomeyni il 4 Novembre 1979. A differenza che nel film – dove “gli ospiti” sono tutti reclusi nella casa dell’ambasciatore – nella realtà quattro fuggiaschi si nascosero a casa di Sheardown e solo due nell’appartamento di Taylor. Quello che il film, non mostra, perché sarebbe superfluo, è la quotidianità del gruppo nascosto in casa dei coniugi Sheardown, i quali prendono ogni possibile precauzione per mantenere la copertura: acquistare vivande in luoghi sempre diversi; sparpagliare la spazzatura nei cestini della città per occultare la presenza dei quattro clandestini. I sei grazie all’ingegno e alla “follia” dell’agente C.I.A. Antonio “Tony” Mendez riuscirono a ritornare negli Stati Uniti il 28 Gennaio del 1980, mentre i circa sessanta ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran vennero rilasciati il 21 Gennaio 1981 dopo ben 444 giorni di prigionia. L’operazione “Argo” classificata e quindi nascosta agli occhi del mondo – tanto è vero che, come mostrato nel film, il merito della riuscita è tutto ad appannagio dei canadesi – è stata resa nota all’opinione pubblica solo nel 1997 in seguito ad un decreto del Presidente Bill Clinton.
Argo (id., 2012) il film che Ben Afleck gira tra Los Angeles, Washington D. C. ed Instanbul, è sceneggiato da Chris Terrio a partire dalla relazione Master in Disguise di Antonio Mendez e dall’articolo How The CIA Used a Fake Sci-Fi Flick to Rescue American from Theran a firma Joshuah Bearman presente sul numero della rivista “Wired” dell’Aprile 2007. L’articolo di Bearman mette in evidenza le difficoltà logistiche dell’operazione e come, quotidianamente, aumentassero le probabilità che i sei clandestini potessero essere scoperti. Questo aspetto è trattato dallo sceneggiatore con una messa in scena, contemporaneamente, istintiva e claustrofobica, in perfetta antitesi, con quanto avviene fuori – tanto negli uffici della C.I.A. in Virgina, quanto nell’assedio all’ambasciata di Teheran. L’appartamento dei Taylor è un luogo chiuso da cui non è possibile uscire, una trappola che ha come unica via di fuga l’intercapedine sotto il pavimento della sala da pranzo. La bravura di Chris Terrio è quella di rendere la dimensione caverna-tana-rifugio dell’abitazione all’ambasciata canadese, perfettamente complementare alle altre location presenti nel film. Il problema più grosso che sceneggiatore e regista devono affrontare, infatti, è quello di dare credibilità ad una storia come quella di Argo e, per fare ciò, l’unica via che è perseguibile è quella della impressione della realtà.
Cinematograficamente non sono dunque i fatti ad essere pregnanti ed empatici bensì l’empatia e l’atmosfera che emanano dalla messa in scena. Non si tratta di un documentario ma di una vicenda drammatizzata, opportunamente, secondo una messa in scena che ha l’obiettivo di fare emergere dal grande schermo le sensazioni dei personaggi (non le parole) attraverso un’operazione di sottrazione dei fatti finalizzata a delineare la condizione tangibile degli ostaggi e di far condividere al pubblico tanto le loro paure quanto il loro sollievo. È solo così che l’improbabile può diventare verosimile, attraverso la narrazione di una storia – quella che Ben Affleck delinea mediante una costruzione cinematografica – in cui inganno e menzogne viaggiano allo stesso livello di verità ingannevoli. Lo scambio di battute tra Turner che dice: “Non avete una cattiva idea migliore di questa?” e O’Donnel che replica: “Questa è la migliore cattiva idea che abbiamo avuto, signore. Di gran lunga la migliore”, sintetizza al meglio il concetto centrale del film: quello secondo cui, come dice Mark Twain, “L’unica differenza tra la realtà e la finzione è che la finzione deve essere credibile”. Per dare questa credibilità (fondamentale per la riuscita del film) Affleck ricorre all’utilizzo di un processo antinarrativo in cui la narrazione è progressivamente destrutturata e frammentata, parallelamente ad una costruzione filmica il cui fine è quello di giungere all’unità di luogo che è punto d’arrivo dei vari percorsi narrativi: l’aeroporto.
La meticolosità, quasi maniacale, con cui operano gli scenografi del film (come dimostra la costante presenza “politicamente scorretta” (oggi), di posaceneri e gente che fuma) serve al regista per evidenziare il tratto di verosimiglianza della vicenda, come dimostrano alcuni espedienti narrativi in grado di rendere metacinematografico il racconto, e di far diventare il copione di Argo – come dice Tony Mendez rivolto a Joe Stafford: “L’unica risorsa tra voi e una pistola puntata contro la vostra testa.” Ecco, dunque, che: l’ufficio cinematografico nei Burbank Studios si chiama Studio Six Productions (chiaro richiamo al numero degli ostaggi); l’operazione, in un primo momento viene denominata “Canadian Caper” (colpo gobbo canadese); con una scelta da Actor’s Studio, Ben Afleck- prima dell’inizio delle riprese – tiene i sei attori che interpretano gli ostaggi chiusi per una settimana all’interno della stessa casa che poi diventerà set per le riprese; spogliandoli di tutto, computer, cellulari, e qualsiasi strumento di comunicazione con l’esterno. Così il risultato finale della messa in scena appare pienamente coerente e credibile. L’ambizioso obiettivo di Affleck non è solo quello di raccontare una storia ma di farla vivere in presa diretta tanto ai suoi attori quanto agli spettatori seduti in sala. Per raggiungere il ragguardevole fine il regista opera direttamente sull’estetica del film e sulle modalità di ripresa diversificate in funzione delle location e degli eventi.
Le sequenze girate nel compound dell’ambasciata – per trasmettere al meglio disagio e inquietudine – vengono realizzate in modo da sgranare l’immagine. Nell’appartamento dei Taylor le riprese vengono effettuate camera a mano e gli ostaggi vengono ripresi come se fossero “spiati” da un occhio indiscreto e incombente. Parallelamente, anche la recitazione, così come la ripresa, sono state gestite nell’appartamento in funzione più dell’improvvisazione che del seguire un copione prescritto. Le riprese negli uffici della CIA, per mostrare l’efficienza e il rigore del servizio segreto U.S.A. sono state effettuate con inquadrature fisse, uso di cavalletti, dolly e carrelli. In perfetta, ma coerente antitesi, le riprese di Hollywood fruiscono della tecnica utilizzata alla fine degli anni ’70 con l’alternanza di ampie panoramiche e di zoom improvvisi. Ma l’effetto più disorientante, efficace e spaventoso Affleck lo raggiunge nella sequenza iniziale: per i primi dieci minuti di film – che mostrano l’assalto all’ambasciata – il regista ha “annegato” tra le comparse operatori armati di cineprese in 16 mm e lui stesso (con altri operatori) ha ripreso alcune immagini utilizzando una vecchia super-8.
Queste diverse ed eterogenee tecniche di ripresa, sono state assemblate dal montatore William Goldenberg seguendo un perfetto schema fatto di continue triangolazioni tra Teheran, Washignton D.C. e Hollywood. Il montaggio di Argo – che per gran parte dello sviluppo della pellicola segue un andamento di tipo parallelo mettendo continuamente a confronto le evoluzioni narrative del tre ambienti cinematografici – nell’ultima mezz’ora innesca un procedimento alternato, in cui le diverse unità spaziali si avvicinano sempre di più fino a sovrapporsi, magistralmente, nella sequenza – quasi insostenibile per l’empatia che crea – all’aeroporto di Teheran. Solo così, Ben Afleck – operarando sui codici cinematografici della scrittura, della ripresa, e del montaggio – riesce a rendere verosimile, credibile e avvincente una storia “hollywoodiana”, “da film”, nel senso ben sintetizzato da due frasi pronunciate da Lester; il quale, rivolto a Tony prima gli dice: “Bene, sei venuto ad Hollywood per fare un finto film, sei nel posto di giusto…, quello in cui si mente per mestiere”, e successivamente, con fare beffardo replica ad una domanda dell’agente C.I.A. dicendo: “Perfino una scimmia riuscirebbe a diventare regista in un giorno!”.
di Fabrizio Fogliato
ARGO
Paese: USA
Anno: 2012
Durata: 120′
Regia: Ben Affleck
Soggetto: Tony Mendez (dal suo libro The Master of Disguise e dall’articolo Escape from Tehran di Joshuah Bearman)
Sceneggiatura: Chris Terrio
Fotografia: Rodrigo Prieto
Montaggio: William Goldenberg
Musiche originali: Alexandre Desplat
Scenografie: Sharon Seymour
Produzione: Warner Bros. Pictures, Smoke House in associazione con GK Films
Interpreti: Ben Affleck (Tony Mendez), Bryan Cranston (Jack O’Donnell), Alan Arkin (Lester Siegel), John Goodman (John Chambers), Victor Garber (Ken Taylor), Tate Donovan (Bob Anders), Clea DuVall (Cora Lijek)