Elio Petri rilegge Jean-Paul Sartre. Riflessione disordinata e ghignante su uno spettacolo privato
“Il senso della morte era un’ossessione. In certi momenti il sentimento della morte era così forte che non riuscivo più a mangiare e a dormire”. Per un regista dalla personalità poliedrica e complessa come Elio Petri le ossessioni personali, le disillusioni verso un mondo che stenta a riconoscere (e a riconoscerlo) prendono forma attraverso concetti scritti in ordine sparso come fossero degli appunti: la paura della morte, la depressione latente, le perplessità di fronte a una realtà storica che ha tradito le aspettative rivoluzionarie. “Per fare un film bisogna avere, oggi molta follia e molto amore per il cinema. E questo è probabilmente l’unico aspetto positivo della faccenda”. Nell’ultimo periodo della sua vita (stroncato da un tumore all’età di 53 anni il 10 novembre 1982), il regista si trova stretto in un vicolo cieco in cui le pareti dell’incomunicabilità da un lato e della paura della morte dall’altro, stritolano la sua ispirazione facendo emergere – sottoforma di sgradevolezza programmata – solo malessere e sofferenza dell’artista. Ecco allora che il cinema deve prendere strade diverse: non più metafora ma analisi esistenziale, non più dinamismo della messa in scena ma staticità (debordante del primo piano), non più ricerca del successo ma riflessione disordinata e ghignante su uno spettacolo privato come è quello della vita di coppia.
L’insuccesso e le feroci critiche dei colleghi durante le Giornate del Cinema Veneziano del 1973 (il Festival venne temporaneamente abolito e le proiezioni vennero fatte in piazza e con carattere pubblico) per il film La Proprietà non è più un furto e il susseguente fallimento dell’apologo politico e profetico (Moro viene ucciso nel finale del film) Todo Modo del 1976, provocano in Petri una profonda disillusione verso le potenzialità espressive e comunicative del mezzo cinematografico, portandolo all’esasperazione del pessimismo (da sempre presente nel suo cinema) e ad una visione della realtà sempre più astratta e metafisica in cui l’unica risposta possibile sembra essere quella dell’abbandono alla follia. Questa ricerca trova compimento nel film Buone Notizie – un apologo sociale e morale sul processo irreversibile di autodistruzione che ha contaminato la società – in cui – attraverso un umorismo macabro e mortifero, una recitazione nevrotica e sovraeccitata ed un’esasperazione cromatica e pittorica – il regista tende a raffigurare la condizione assurda dell’essere umano imprigionato nella gabbia del benessere e anestetizzato nei sentimenti.
La nevrosi sessuale, la ritrosia verso la responsabilità, l’assuefazione alla violenza e la regressione verso un comportamento infantile, convivono in un paesaggio urbano sommerso dalla sporcizia, squassato dall’urlo delle sirene, percorso da un’infinità di schermi televisivi. Le “buone notizie” del titolo, non sono, evidentemente, la cornice ghignante e stridente in cui è raffigurato il cittadino-medio: notizie di morte, di attentati, di allarmi bomba, di animali morti a causa dell’inquinamento; immagini di funerali, di cadaveri, di animali sgozzati e dei bambini del Biafra. Le “buone notizie” sono quelle dell’irruzione della vita nell’horror vacui del quotidiano. La vita che sta crescendo nella pancia di Fedora, il riscoprire il valore dell’amicia in Gualtiero (l’uomo romantico), la percezione che c’è un mondo e un potere che spingono a “non aprire” lo scrigno della vitalità, della felicità e della normalità.
La televisione è quindi schermo che separa, scinde e proietta racconti di violenze politiche, familiari e sociali, espresse tutte e indifferentemente dal volto sorridente della presentatrice del telegiornale. Ella racconta con distacco e con cinismo storie torbide e violente, incorniciate in immagini frigide, in una coazione a ripetere che non ammette stacchi, destabilizzando il cervello dello spettatore, minacciandone la sanità mentale, per immergerlo in una confusione (anche dei ruoli) che è totale, con l’intento di stimolarne la paura per indurlo a limitare la propria libertà e a consumare di più. Per questo durante la colazione, l’uomo rivolto alla moglie afferma: “Io non capisco perché cazzo noi due continuiamo a stare insime. Figli non ne vogliamo per non mettere al mondo altri infelici. Rapporti sessuali…squallidi e casuali. Sussiste soltanto il problema di come spartirci i beni materiali, perché sono dispari: tre, frigorifero, televisore e giradischi”. Nell’identificazione dei tre simboli del benessere – cioè cibo, immagini e divertimento – come unico elemento di unione tra i coniugi c’è l’evidente volontà del regista di mettere in mostra l’incapacità dell’uomo nel razionalizzare quanto sta accadendo.
Buone Notizie è un film ferocemente pessimista dipinto come un affresco ambiguo e surreale (debitore del cinema di Bunuel) ambientato in una Roma irriconoscibile, minacciosa e decadente, straziata e violentata dal consumismo i cui resti immondi marciscono ai piedi di monumenti millenari e popolata da una serie di personaggi paranoici e sociopatici che si esprimono con un linguaggio frantumato e incomprensibile pervaso da una vena di malinconico sarcasmo. Buone Notizie rilegge “L’essere e il nulla” di Sartre e restituisce l’immaginario di un mondo piccolo borghese alienato nei sentimenti e meccanizzato nei comportamenti. La sana curiosità che – digrignando, a denti stretti e con sofferenza – spinge l’uomo a strappare la busta lasciatagli da Gualtiero nel finale è un sintomo che, forse, la patologia, non è irreversibile. Quel “da non aprire” rappresenta il lascito dell’ultimo uomo romantico all’uomo moderno; è la tacita consegna dell’”essere” al “nulla”; è la testimonianza che c’è qualcosa di inconoscibile, cancellato obliato che l’uomo non deve riscoprire altrimenti si riumanizza.
Un anonimo funzionario (Giancarlo Giannini) di una società televisiva romana, sposato con l’insegnante Fedora (Angela Molina), trascorre le sue ore di lavoro guardando i sei televisori installati nel suo ufficio, che trasmettono soltanto notizie di attentati e disgrazie varie, e affliggendosi per il suo scarso successo con le donne. Un giorno ritrova, dopo quindici anni, un vecchio amico Gualtiero Milano (Paolo Bonacelli). L’uomo è convinto di avere alle calcagna nemici misteriosi decisi ad ucciderlo. Dopo un incontro con Ada (Aurore Clement), la moglie di Gualtiero, l’uomo a malincuore convince l’amico a farsi ricoverare in una clinica per la cura delle malattie nervose, ed è proprio lì dentro che Gualtiero viene ucciso.
Il protagonista è senza nome, perchè è un archetipo, un cittadino comune, un oscuro funzionario televisivo di cui non si capisce neanche troppo bene quale sia il suo compito: un uomo seduto davanti ai suoi televisori che a fatica mantiene la sua autonomia di robot professionale ma anche un dipendente confuso, intriso di paure (del buio, del sesso) alla costante ricerca di un angolo di tranquillità (rappresentato dal tramonto). Un uomo ossessionato dal tempo che passa e terrorizzato dalla possibilità di morire – evocata sin dalle prime inquadrature – quando durante il black-out dice: “Guarda qua, sembra una tomba, un sepolcro…”. Nel suo ufficio sulla parete di destra c’è Guernica, il quadro di Pablo Picasso simbolo dell’orrore provocato dalla guerra; un affissione srcastica perché egli è vittima-colpevole di una società che si autodivora senza lasciare più spazio né ai sentimenti né alle relazioni umane.
L’uomo ritiene pazzo l’amico Gualtiero che ripresentandosi dopo quindici anni gli confessa che qualcuno vuole ucciderlo; senza cercare di capire le ragioni di questa sua preoccupazione egli opta, tacitamente, per la versione decisa dalla moglie: Gualtiero è pazzo, dunque, bisogna rinchiuderlo in una clinica. Il funzionario abbozza una relazione – destinata a naufragare in un amplesso incompiuto a causa dei pensieri che animano entrambi – con la moglie di Gualtiero: il giudizio (“ma guarda cosa sta facendo questa troia”) e l’ossessione per il corpo pulito e perfetto (“avrà il tartaro sui denti, guarda quanti peli ha nel naso”, dice lei) sono i prodotti derivativi della pubblicità che annullano e cancellano la passione così come l’ebbrezza del tradimento. Tutto ormai è diventato troppo asettico per essere comprensibile (anche nei rapporti privati) . Ma la vera ossessione e tabù dell’uomo moderno è ancora quella del sesso. La domanda posta dal funzionario alla sua collega Tignetti – invitata ad esprimere un giudizio sul suo membro – e poi interrogata: “Io, Tignetti, prima di morire vorrei solo sapere perchè non piaccio alle donne”, mentre l’uso disinvolto e consuetudinario della volgarità è una necessità per apparire forti e per difendersi dal giudizio degli altri, per allontanare da sé ogni debolezza e ogni emozione: “Ho bisogno della trivialità… per difendermi…forse…dalla spiritualità”. Il finale del film, è ancora pieno di domande, che compaiono sotto forma di biglietti contenuti in una busta: biglietti mortuari su cui è scritto “Da non aprire”. All’orrore quotidiano non c’è fine: l’uomo moderno è sprofondato in un abisso di mercificazione che non risparmia niente e nessuno. Forse l’unica risposta possibile è quella della “follia” di Gualtiero: un romantico capace di coinvolgere l’amico in un valzer improvvisato e scoordinato (in una scena struggente e malinconica) ballato sull’orlo dell’abisso mentre in una frase sintetica e profonda afferma la verità che più nessuno vuole sentire: “Noi crediamo di continuare a ballare, invece strisciamo… come vermi”.
Buone Notizie contiene città sommerse dalla spazzatura, una volgarità dilagante ed esibita, un susseguirsi di episodi di cronaca nera, l’acuirsi dell’insicurezza delle persone, i continui allarmi-bomba (con cui viene puntualmente evacuato il palazzo della tv), una famiglia disgregata e assente, l’incomunicabilità eletta a sistema di vita, la ricostruzione televisiva di fatti di sangue… sembra girato in questi giorni. Petri, come tutti i grandi, aveva già capito tutto prima che tutto accadesse.
Le citazioni di Elio Petri sono tratte dal documentario Elio Petri. Appunti su un autore di Federico Bacci, Nicola Guarneri, Stefano Leone, Italia 2005
di Fabrizio Fogliato
BUONE NOTIZIE
(Italia/1979, 110′)
Regia, soggetto, sceneggiatura: Elio Petri
Direttore della Fotografia: Gigi Kuveiller
Scenografia: Amedeo Fago, Franco Velchi Pellecchia
Costumi: Barbara Mastroianni
Montaggio: Ruggero Mastroianni
Musiche: Ennio Morricone
Produzione: Elio Petri e Giancarlo Giannini
Interpreti principali: Giancarlo Giannin, Angela Molina, Aurore Clement,
Paolo Bonacelli, Ombretta Colli, Ninetto Davoli