L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.
Secondo “La morfologia della fiaba” di Vladimir Y. Propp, la fiaba deve iniziare con una situazione di partenza in seguito alla quale vengono elencati i membri della famiglia oppure viene presentato il futuro eroe secondo nome e condizione. L’immoralità invece, inizia in maniera opposta e antitetica presentando il cattivo in maniera simbolica e provocatoria. Il film si apre con una inquadratura dal basso che mostra un uomo con in braccio una bambina morta, un’immagine che già nella sua conformazione è, ontologicamente, pietistica. Quando quello stesso uomo, prima di allontanarsi velocemente con il furgone, però, seppellisce frettolosamente la bambina – e l’inquadratura mostra che ha le mutandine abbassate alle caviglie – ecco che quell’immagine primaria – che sembrava proporre una figura “buona” – diventa improvvisamente trasfigurazione di un “mostro”. Successivamente avviene la presentazione (per gradi) del nucleo familiare, ma il risultato è opposto rispetto alle volontà proppiane: quella proposta da Pirri è una visione spettrale della famiglia, che nulla a che spartire con l’immagine della fiaba. Il padre è costretto su una sedia a rotelle e vive in un mondo a parte situato ai piani alti della villa, la moglie Vera vive intenta a mantenere la tonicità del proprio corpo inteso da lei come lasciapassare sociale, mentre Simona è un misto di freddezza ingenuità sorrette da un animo torbido.
Il professore é una figura inesistente – per tutti tranne che per Simona – come sottolineato più volte dai personaggi del film. Per la bambina invece rappresenta sia il rifugio (ove cercare protezione) sia la conoscenza. E’ il padre che, all’inizio del film, fa le due affermazioni che guideranno l’agire di Simona. La prima é: “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. La seconda: “Per te Simona, il bosco è un luogo incantato…magico. Tu non ti accorgi di nulla di ciò che ti accade intorno, le lotte i conflitti, le tragedie. Il forte uccide il malato… o il più debole. Per sopravvivere…”. Il legame che intercorre tra padre e figlia – per quanto apparentemente labile e casuale – si rivela in realtà essere persino indissolubile: lo dimostra il fatto che la furia omicida e asettica della bambina si scateni alla vista del padre morto suicida. Sul tavolo di fronte a sé egli ha lasciato i due oggetti che lo rappresentano per tramandarli alla figlia: l’orologio che certifica che, ormai, non c’é più tempo e la pistola che indica la presa di coscienza e che é il momento delle decisioni irrevocabili.
Vera viene introdotta dal montaggio analogico – decisamente greve e irriverente – tra una bambola e lei, entrambe con le gambe divaricate. L’affermazione della donna mentre fa ginnastica appare come la sintesi della sua “filosofia di vita” che mostra all’interno del film. Ella, dopo l’amplesso con Federico nel capanno afferma: “I sentimenti servono quando sono funzionali” collegando il pensiero allo strumento che li rende tali: il corpo. Quello stesso corpo a cui fa riferimento durante gli esercizi fisici: “Le gambe rispondono…come sempre. Il corpo è importante! …Eh sì, é il mio complice. Trattiamolo bene. Si affloscia se non lo ami abbastanza”. Simona diventa, quindi, il ricettacolo inconsapevole (“Impari tutto così in fretta…senza capirci niente” – le dirà la madre nell’ultimo confronto) dell’immoralità dilagante con la differenza esiziale, però, che la sua età anagrafica comporta: quella di non tenere in considerazione le conseguenze del suo agire. Fatto questo che, teoricamente, la assolve da ogni colpa – anche perché la bambina si muove in una società-verminaio bloccata e annichilita dalla paura (non a caso la parola più ricorrente nei dialoghi dell’intero film). Condizione che porta tutti gli adulti a non portare mai a compimento le loro azioni – anche le più bieche, sgradevoli e volgari – per paura delle conseguenze e del giudizio degli altri. Solo Simona può permettersi il lusso di agire senza pensare, di seguire l’istinto animale che la anima e di spingersi fino alle estreme conseguenze di atti tanto eccessivi quanto irrazionali che però in virtù della sua condizione infantile risultano, non soltanto credibili, ma persino inevitabili.
La famiglia disegnata da Pirri è imprigionata nella villa, come un nucleo composto da pesci chiusi in un acquario. Il regista osserva lo sfacelo – in atto e in divenire – con una perizia da entomologo, inquadrando – da dietro/davanti ai vetri – personaggi che guardano fuori alla ricerca di se stessi e di una vita che non c’è più. La stanza del padre è piena di orologi che sembrano rappresentare l’ossessione di un tempo che non passa, e che conduce inevitabilmente verso la morte (cercata). Il contatto tra Simona e il “mostro” avviene secondo i canoni fiabeschi – non attraverso la parola bensì tramite la ripetizione alternata di un fischio (come quello degli uccelli) – per poi sfociare in un dialogo che è già espressione di senso: “Come ti chiami?” e la bambina risponde “Simona”, poi l’uomo guardandola, e accarezzandola con una mano, le dice: “Brava Simona”, ma lei risponde: “Non sono brava!”. Pirri mostra questa scena dell’incontro filtrando i volti dei personaggi attraverso grate, gabbie e raggi di ruote di bicicletta, consegnandoli alla prigionia, quindi, sin dal primo contatto. Ora che tutti gli elementi sono stati presentati e posizionati al loro posto, la caccia può incominciare.
I cacciatori sono altresì rappresentativi di quella visone doppia proposta in precedenza. C’è lo Stato, identificato in un commissario privo di potere, manipolabile e asservito supinamente al proprio interesse personale – più interessato alle grazie di Vera che ad occuparsi del proprio lavoro; un commissario, viscido e untuoso, perfetta antitesi di quelli “di ferro” che imperversano nelle sale della penisola. Un tenente dei carabinieri – quello a cui Andrea Franchetti conferisce un’indole da pusillanime e un espressione da incapace – capitato lì per caso, totalmente privo del senso di giustizia al punto di vederla barattare con il corpo di Vera. Un uomo di grado che é incapace di esercitarlo con l’aggravante di essere asservito e manipolabile dai redneks di provincia ai quali non concede spazio e libertà di azione solo per motivi di misera competizione maschile di fronte a Vera. Il gruppo, fascistoide, dei rangers è interessato ad affermare il proprio potere sulla comunità (“Lei non può fermarmi, perché adesso la gente ha più fiducia in me che nella legge” – così si rivolge Antonio al tenente), che ad apportare un concreto aiuto alle istituzioni. Entrambe le parti però sono speculari e rappresentano le due facce della stessa medaglia: quella dell’immoralità che dà il titolo al film, quella stessa che – nella visione di Pirri – appare congenita alla società stessa, in quanto non emerge solo da scelte, comportamenti e azioni, ma è endemica di un certo modo di pensare votato all’esaltazione dell’individuo e dalla sua affermazione apparente. Il darwinismo sociale che permea la pellicola, concretamente, si traduce nel paradosso della carneficina finale in cui la bambina – cioè l’elemento più debole secondo le convenzioni – si trasforma in boia spietato e meccanizzato per acquistare la sua libertà e indipendenza.