I grandi maestri: William Friedkin, Luis Buñuel, John Cassavetes, James Toback – ispirazioni sublimi su un cattivo tenente
Il poliziotto è nudo pertanto (e Ferrara opportunamente mostra un full-frontal mantegnano di Harvey Keitel in una delle prime scene del film), stretto in una città in cui la violenza dilaga e contagia ogni essere umano come una vera e propria epidemia o malattia. Non è casuale che Bad Lieutenantsia oltremodo accomunabile con uno dei film più controversi degli anni ’80, Cruising (id., 1980) di Williamn Friedkin e che la parabola di Lt ricalchi sul versante spirituale quella materiale di Steve Burns (Al Pacino). In Cruising, il poliziotto Steve Burns (Al Pacino) si addentra come infiltrato nella New York omosessuale alla ricerca di un serial killer che uccide e mutila i gay; la sua indagine però lo porterà a mettere in discussione la sua identità sessuale e a confrontarsi con il lato oscuro della sua anima. Anche qui, come in Bad Lieutenanttroviamo un’indagine poliziesca a fare da sfondo ad un tema ben più ampio e profondo: la conoscenza di se stessi fino alle estreme conseguenze. Come in Bad Lieutenant anche nel film di Friedkin, è fondamentale il contributo del sonoro: nel film di Ferrara i rumori nascondo i dialoghi, in Cruising il rumore del cuoio e della pelle e il battere dei tacchi e degli stivali delimitano luoghi e spazi e sono rivelatori di una minaccia costante. Steve Burns come Lt è spettatore passivo dei rapporti sessuali: se in Bad Lieutenanterano performance recitate, in Cruisingsono gli accoppiamenti e le orge dei locali sado-maso del Greenwich Village a sconvolgere ed affascinare la mente del protagonista, progressivamente compresso in spazi sempre più asfittici: azzeramento dello spazio quindi, cioè il vuoto.
Più i registi compiono opera di astrazione isolando i loro personaggi più la città diventa incarnazione di una condizione umana generale: in Bad Lieutenant quella di un mondo che ha perso Dio; in Cruising, dove Dio non esiste, la minaccia è quella dell’AIDS, la malattia che viene dall’uomo per uccidere l’uomo. Così la città descritta, New York in entrambe le pellicole, sembra reale, ma in effetti ha la densità di una proiezione partorita dalla mente dei protagonisti e possiede una particolare atmosfera onirica. È una città espressionistica, notturna e minacciosa illuminata e frammentata dai flussi dei neon e dei fari delle auto, in cui l’individuo è separato dai suoi simili e disperatamente scisso nei confronti di se stesso. Entrambe le discese nell’animo umano sono guidate dalla violenza: quella oscena sulla suora in Bad Lieutenant; quella, altrettanto oscena, delle pratiche omosessuali estreme come il fist-fuckingin Cruising, che. poco per volta. introducono una mutazione sia psicologica che fisica nei due protagonisti. La storia di Steve Burns (che già nel cognome ha le fiamme dell’inferno), è la storia di un uomo che rinuncia alla sua identità per svolgere al meglio la sua professione, un uomo che mantiene tutta la sua ingenuità (la stessa presentata all’interno dell’ufficio del capitano Edelson all’inizio del film), ed è impreparato a confrontarsi con l’universo orgiastico e ancestrale in cui sta per entrare, inconsapevole (o forse no?) di dover (ri)mettere in discussione tutto se stesso.
Lentamente Steve Burns viene “infettato” da un Male che non conosce e che non riesce a decifrare (in contrapposizione a Lt che viene invece sfiorato dalla Grazia): la sua è una discesa in un girone infernale in cui scompare ogni certezza e in cui l’ambiguità diventa la chiave di lettura di ogni situazione. William Friedkin, costruisce una pellicola affascinante e oltraggiosa, in cui tutto è filtrato da una lente opaca che modifica la percezione degli eventi e in cui non c’è distinzione tra attività sessuale e violenza (così come in Bad Lieutenant in cui il sesso determina la violenza e viceversa), al punto che il regista non esita ad introdurre immagini hard subliminali che mostrano la penetrazione anale in parallelo alla “penetrazione” del coltello dell’assassino nella carne della vittima. William Friedkin è agnostico, pertanto, il suo film non è intriso di quella componente trascendente cara a registi come Abel Ferrara, ma entrambi perseguono la rappresentazione dell’ “estremo” per spingersi in territori al di là del Bene e del Male, in cui emerge il surrealismo di una rappresentazione provocatoriamente sincretistica in cui tanto la sessualità deviata e onanistica, quanto la nevrosi patologica costituiscono lo svelamento della “Verità” in contrapposizione alle false apparenze dettata dal grado che sia Lt che Steve Burns ricoprono nel loro lavoro.
La stessa linea adottata da Luis Buñuel nella costruzione del suo film più profondamente personale e autobiografico: Él (Lui, 1953). Il protagonista Francisco Galvan de Montemayor (Arturo de Cordoba) è un borghese, apparentemente normale, tenuto in grande considerazione dal milieu di cui fa parte e onorato e rispettato dal clero (così lo definisce padre Velasco:“Francisco è un uomo normale sensato, e non è mai cambiato”) e protetto (come Lt) dal ruolo sociale che ricopre; in realtà egli è uno psicolabile affetto da gravi patologie, dedito al feticismo e schiavo di manie di persecuzione e di una gelosia sfrenata nei confronti di Gloria Milalta (Delia Garcés) la donna che ha sposato. Francisco è protagonista di una parabola degenerativa assimilabile a quella di Lt e la scena in cui disperato, piangente e sofferente, sdraiato sulle scale, si abbandona ad un lungo mugugno accompagnato da gesti sconnessi e ripetitivi non ha nulla da invidiare a quella della disperazione di Lt in chiesa di fronte all’immagine di Cristo. Le continue e grottesche aggressioni fisiche e verbali nei confronti di Gloria, la disperazione che si accompagna ad una progressiva autodistruzione e il finale allucinatorio in chiesa ripercorrono una scansione degli eventi che è la stessa di Bad Lieutenant.
Il finale di entrambe i film presenta due diverse forme di redenzione: mentre quella di Lt è piena perché coincidente con il sacrificio del martirio, quella di Francisco è solo apparentemente raggiunta, come dimostra l’ultima sequenza, ambigua e provocatoria, in cui Francisco chiuso in convento prima afferma: “Quì ho trovato la vera pace dell’anima”, e poi di spalle si allontana lungo un viale del giardino dirigendosi verso un passaggio oscuro e comincia a camminare a zig zag replicando l’atteggiamento e le nevrosi della vita coniugale. Se ci si allontana sia dal genere poliziesco, sia dai modelli cinematografici reali o presunti (va ricordato che Ferrara è spettatore onnivoro e diseguale), che hanno portato alla definizione di Bad Lietenant, per capire la profondità del film di Ferrara è importante prendere in considerazione alcuni aspetti fondamentali e “autoriali”: il corpo, la trascendenza, e l’ambiguità dell’ impianto spirituale. Il primo è indissolubilmente legato, da un lato a quello reale del suo protagonista Harvey Keitel, e dall’altro a quello celebrato in ogni forma da un cineasta irregolare e volutamente indipendente come John Cassavetes.
Per capire l’importanza del corpo in questo film di Ferrara sono rivelatrici le parole dello stesso Keitel: “L’attore non deve risparmiarsi, ma bruciare; non deve interpretare, ma incarnarsi. L’attore non conosce limiti e pudori”.[1]Harvey Keitel nell’interpretare Lt, non solo dimostra una ineccepibile coerenza con le sue parole ma in fondo altro non fa che replicare una performance di quattordici anni prima, quando, allora trentenne è protagonista di Fingers(Rapsodia per un killer, 1978) di James Toback. L’esordio registico di Toback, non solo presenta una prestazione attoriale di rara efficacia e trasfigurazione, ma può a tutti gli effetti, sia per temi, per sviluppo, e persino per la costruzione di certe scene può essere considerato quasi come la “prova generale” di Bad Lieutenant. A New York, Jimmy Angelelli (Harvey Keitel), aspirante concertista è incaricato dal padre (Michael V. Gazzo), un piccolo bookmaker, di riscuotere i crediti da due scommettitori renitenti ed entra in una spiarle di forsennata violenza. James Toback, in Fingers,ritrae un nevrotico che usa le dita delle mani (da qui il titolo) per suonare come per uccidere: man mano che la violenza si impadronisce di lui, Jimmy perde confidenza con i tasti del pianoforte – come dimostra il fallimento dell’audizione alla Carnagie Hall. La nevrosi lo tormenta, non riesce a tenere ferme le mani (come Lt che spesso se le passa nei capelli o si pettina), i tic si moltiplicano e il suo corpo, lentamente, si “trasforma”, si animalizza. In una New York livida e autunnale (la fotografia del film è di Michael Chapman che due anni prima ha illuminato Taxi Driver), Jimmy da sfogo alla sua frustrazione di artista incompiuto e si abbandona, inesorabilmente, alla violenza per compensare il suo fallimento come artista – come testimonia la scena in cui l’ascensore si blocca mentre Jimmy si sta dirigendo all’audizione, e in cui si fa male alle dita a causa di uno scatto d’ira: quelle stesse che da lì a poco lo tradiranno alla tastiera del pianoforte.
Jimmy come Lt, intraprende un declino morale e fisico che lentamente lo porta ad annullare se stesso e a diventare spettatore della sua vita e di quella degli altri. La scena del rapporto a tre tra Dreems (Jim Brown), Carol (Tisa Farrow) e Christine con il balletto orgiastico anticipa quella di Bad Lieutenanttra Lt e le due lesbiche: ma in Fingers,Jimmy è solo spettatore-voyeur prima, e sbigottito poi, a causa dell’imprevisto e violento epilogo del quadretto. La regia di James Toback, così come quella di Abel Ferrara, alterna lunghi piani fissi a piani-sequenza dalla dinamica complessa, esalta la fisicità (quasi insostenibile) delle scene di violenza come quella del pestaggio finale in cui la m. d. p. rimane impassibile di fronte all’escalation mortale. Sia quella di Toback che quella di Ferrara è una regia asciutta, quasi asettica, volta ad osservare chirurgicamente il crollo nervoso e psicologico del protagonista del film. L’inquadratura finale di Fingers, con Jimmy nudo e “crocifisso” tra il pianoforte e la finestra – diviso tra il sogno di ciò che non diventerà mai e la realtà che l’ha schiacciato – è già anticipazione tanto del nudo full-frontal che del cammino Cristologico di Lt inBad Lieutenant. Così come Ferrara, anche Toback ricorre all’utilizzo simbolico della colonna sonora. La musica diegetica, con le hit del momento, che proviene dal registratore-feticcio di Jimmy Agelelli acuisce la crudezza e la fisicità degli scontri, così come in Bad Lieutenantdetermina il carattere degli eventi e ne sottolinea la brutalità o l’inconsueta (quanto improbabile) dolcezza.
Il rapporto compulsivo con il sesso è lo stesso sia per Jimmy che per Lt, e se quest’ultimo si abbandona spesso e volentieri alla masturbazione, Jimmy ha rapporti fugaci e istintivi, brevi e fulminanti (come quello con Julie nel bagno del club), evidenziando, in entrambe i casi, un senso profondo di frustrazione e fallimento. Infine, va sottolineato, che la performance attoriale di Harvey Keitel è pressochè la stessa sia a trent’anni (Fingers) che a quarantaquattro (Bad Lieutenant), al punto che il film di Toback può anche essere letto come uno pseudo documentario sulla recitazione dell’attore. L’altro aspetto della riflessione sul corpo proviene dalle dinamiche del cinema di John Cassavetes, regista che, non solo per la città d’elezione cinematografica, New York, ma anche per una comune idea di cinema, non può essere separato dalla poetica di Abel Ferrara. Il cinema di John Cassavetes emerge dall’anima più profonda di New York e affonda le sue radici in un modello cinematografico totalmente indipendente, lontano da condizionamenti industriali e da codificazioni espressive. La macchina da presa è immersa nella realtà, come dimostra il capostipite di questo modo di realizzare film nato sul finire degli anni ’40. The Quiet one(id., 1948) di Sidney Meyers è un lungometraggio in 16mm. che racconta “dal vivo” la segregazione razziale nel ghetto di Harlem. Meyers assieme ad un pugno di altri cineasti dà origine ad un modo di fare cinema che prevede prerogative care tanto a Cassavetes quanto a Ferrara: idee “rubate” dalla realtà, improvvisazione e repentini cambiamenti della sceneggiatura (quasi inesistente), budget ridottissimi, troupe fatte di amici intente in un lavoro collettivo, e totale noncuranza per l’aspetto estetico (ma non per quello tecnico).
Nel 1953, The Little Fuggitive (id., 1953) di Morris Engel, racconta una vicenda di autentica inquietudine attraverso il pedinamento (zavattiniano) del piccolo protagonista e il racconto trasmesso attraverso il suo stesso occhio. Sei anni dopo, nuovamente Meyers realizza con Ben Maddow e Joseph Strick, il seminale The Savage eye (id., 1959), archetipo del cinema diretto, che traduce un’ipotetica giornata di vita di una divorziante attraverso il racconto di una quotidianità sociale mostruosa (la stessa delle immagini di Diane Arbus), che si conclude con il suicidio della donna. Sono esempi irripetibili, che stanno alla base del movimento che nasce stretto attorno all’intellettuale, di origini lituane, Jonas Mekas e che si consolida nel 1960 con il nome di N. A.C. John Cassavetes che tra il 1957 e il 1959 realizza la prima versione di Shadows(Ombre, 1961) prima di quella definitiva del 1961, non aderisce al movimento, non sottoscrive il manifesto di Mekas e si mantiene a tutti gli effetti lontano da ogni possibile incasellamento (tenendo lo stesso comportamento che a distanza di anni verrà mantenuto da Ferrara nei confronti della grande produzione).
di Fabrizio Fogliato
[1] Piera Detassis, L’importanza di essere Harvey, Ciak n. 4, Aprile 1998, pag.111