Perché quelle mani guantate di bianco come Mickey Mouse?
Peter e Paul entrano in scena educati e gentili, con un’aria rassicurante e con un atteggiamento quasi ingenuo. Sono vestiti di bianco, ordinati e puliti: si presentano alla porta di casa della famiglia Schober con modi raffinati e cortesi. Haneke introduce qui un altro elemento di distonia che stride fortemente con la situazione formale. Rolfi, il cane lupo degli Schober abbaia insistentemente e sbatte violentemente contro la zanzariera dietro cui si trovano Peter e Paul – che hanno le le mani guantate di bianco come Mickey Mouse – creando una tensione tanto assurda quanto reale. Il regista austriaco introduce i suoi due protagonisti attraverso le vesti dell’inganno consegnandoli da subito come l’incarnazione del Male. Secondo lo studioso dell’aggressività Friederich Hacker, l’inganno più efficace del Demonio è far credere che egli non esiste e, se esiste, è negli altri e non in noi stessi. Haneke prende alla lettera la teoria del medico tedesco e fa di Peter e Paul gli archetipi del Male assoluto, che in Funny Games agiscono secondo le loro regole: provocatoriamente in contrasto con quelle comunemente accettate dalla società. Il gioco segue un disordine logico secondo cui la violenza perpetrata dai due è inversamente proporzionale a quanto di tale violenza ci viene mostrato.
L’aggressione è immediata, repentina e si scatena sempre nel fuori campo. Nella sequenza in cui Georg viene colpito con la mazza da golf, il movimento è rapido – quasi impercettibile – e la discrezione con cui non-viene mostrato l’atto trasmette al meglio la forza e la veemenza con cui i fatti si compiono. Haneke – per tutta la pellicola – relega nel fuori campo gli atti di tortura e prevaricazione e, cinicamente, alterna a questi inquadrature al limite del ridicolo, cortoonesche – come quando viene ucciso il piccolo Georg e noi vediamo Paul in cucina che si prepara un panino. Haneke in Funny Games elimina anche gli spazi neri che identificano il suo cinema. Lo fa per due motivi: il primo perché non vuole dare allo spettatore il tempo di pensare, il secondo perché qui non si tratta di raccontare un fatto reale ma, al contrario, l’obiettivo è solo quello di esprimere una teoria. Non c’è motivazione per quello che accade, tutto è volutamente insensato e frustante. Espediente che trasmette una sensazione sadica e asettica dello sterminio progressivo e metodico della famiglia Schober.
Si giunge alla violenza in primo luogo quando non c’è altra via di scampo, e secondariamente quando già una volta l’uso della violenza ha avuto successo. Questo modello teorico fa dell’uomo un oggetto di manipolazione illimitata. L’individuo diventa il burattino delle circostanze, cui vengono in tal modo attribuite un’enorme importanza e la responsabilità di tutto.[i]
Proprio su questa manipolazione agisceFunny Games. Il processo psicologico per cui lo spettatore è continuamente indotto e, contemporaneamente disatteso, nel suo desiderio di un lieto fine della vicenda e un circolo perverso che Haneke si diverte ad alimentare. Tutta la vicenda, dall’uccisione del cane Rolfi – sino all’unica scena di violenza mostrata, quella dell’uccisione di Peter da parte di Anna, ma subito smentita dal riavvolgimento del nastro (!) – è una logorante partita a scacchi dove ogni possibilità di fuga viene immancabilmente frustrata e la morte è costantemente rinviata. Haneke gioca con il Male e gioca sporco perché mette a nudo gli aspetti più deteriori dello spettatore. Il Male che è ripreso, incarnato, omesso e centrifugato in ogni azione, e chiuso in una visione negata che non ne mostra gli esiti. Solo in un caso ci viene mostrato in un campo lungo freddo e allucinato il corpo del piccolo Georgi riverso sul tappeto mentre il televisore imbrattato di sangue (altra immagine provocatoria, anche se didascalica) trasmette le immagini di una corsa automobilistica.
Questa immagine è la sintesi della distonia che anima Funny Games: un quadro statico in cui la morte si percepisce attraverso i cinque sensi e in cui il rumore ossessivo della televisione crea un disturbo che impedisce allo spettatore di mettere subito a fuoco la situazione. Per questo il piano-sequenza dura più di un minuto, per permettere ai nostri occhi di decifrare la violenza insita in esso. Non c’è speranza per nessuno, né per chi agisce sullo schermo, né per chi sta dall’altra parte comodamente seduto in poltrona: tutto è programmato e stabilito in maniera agghiacciante. La morte costantemente posticipata, finalmente arriva fredda e implacabile ed evidenzia l’alterità dei suoi agenti (Peter e Paul) e la passiva accettazione dello spettatore-voyeur. Lo sguardo in macchina finale inquadra il volto di Paul semi sorridente e Haneke, beffardamente, ci dice che il “nemico” non è negli altri ma è dentro di noi. L’orrore non ha mai termine e si alimenterà di una persistente coazione a ripetere, perché il dolore si accompagna sempre al piacere e incentiva il desiderio, perché nella falsità dell’immagine è racchiusa una terribile verità: per quanto assurdo tutto ciò è plausibile e desiderabile.
[CONTINUA]
di Fabrizio Fogliato
[i]Rüdiger Dahlke, Aggressione come scelta, Mediterranee, Roma 2004, p. 20