Prologo: la terza via (mancata) del cinema italiano
La matrice letteraria è da sempre intrinseca alla costruzione di molti film prodotti nel nostro paese. Prima ancora del cinema è stata la pagina scritta a dipingere in negativo il quadro dell’antimiracolo. Per mostrare al pubblico la realtà etnografica il documentario è lo strumento che ha sia la credibilità che la serietà per risultare efficace ma, allo stesso tempo, è un’arma spuntata perché in grado di raggiungere solo quella parte di pubblico di addetti ai lavori: già interessati all’etnografia e all’antropologia culturale. Per interessare a tali argomenti il resto del pubblico è necessario compiere un’operazione tanto rischiosa quanto passibile di fraintendimento: ibridare il documentario con la fiction.
In quest’ottica nasce Il demonio (1963) di Brunello Rondi, opera vibrante, innovativa che apre la strada (subito richiusa da una critica miope e ideologizzata – nonché prevenuta) ad una possibile terza via del cinema italiano di quegli anni: quella di una docu-fiction antropologicamente credibile, in grado di raccontare il rimosso, il nascosto delle diverse comunità italiane. Quello di Rondi è un film innervato di orrore sociale, lievemente venato di componenti fantastiche. La via rappresentativa del film cerca la mediazione tra lo spaccato sociale primitivo e ancestrale e il racconto filmico di matrice letteraria – più propriamente verista. Quello messo in scena da Rondi è un verismo cinematografico in cui – come nella natura letteraria del movimento – “la forma deve essere inerente al contenuto”. Nel racconto vi è la presenza di una dimensione orrorifico-fantastica rappresentata dalla bassa magia cerimoniale. A questa materia vengono ricondotte le ambiguità e le contaminazioni orrorifiche che attravresano la pellicola, raggiungendo un’estremizzazione rappresentativa, da un lato rigorosa e scientifica, dall’altro a forte rischio di compiacimento. Il demonio con il suo essere attraversato da elementi magici, ctoni, ancestrali – agli occhi della critica militante e ottusa dell’epoca – risulta, autocompiaciuto, nonché enfatico nel calcare la mano sugli aspetti fantastici mettendo in secondo piano lo spaccato antropologico.[1]
Tanto il film viene considerato opera negletta e disdicevole nel nostro paese (quello di Giulio Andreotti, del Vaticano e dei censori che, ipocritamente, si ergono a moralistici padri di famiglia) tanto viene apprezzato all’estero dove ne vengono esaltati i caratteri innovativi e antropologici.[2] Gli apprezzamenti esteri non mitigano il dolore e la delusione di Brunello Rondi il quale ha riposto ne Il demonio tutte le sue ambizioni di autore cinematografico. Quella terza via negatagli dalla critica italiana, controcorrente e in maniera solipsistica – con una coerenza che sfiora l’autodistruzione – egli la porta aventi lungo tutta la sua filmografia da regista con la lunga serie di ritratti femminili tormentati, sofferenti, istintivi e passionali – ontologicamente ostracizzati dalla società (ricalcando inconsciamente e psicologicamente una vicenda dai forti tratti autobiografici).[3]
Con Il demonio, Brunello Rondi, anticipa di circa un decennio la crisi di genere del maschio italiano e, contemporaneamente, il lungo e lento processo – una via crucis fatta di dolore, sofferenza, espiazione di colpe non commesse e martirio – di emancipazione femminile. Nel film il maschio viene marginalizzato, ricondotto a mero strumento di dominio e prevaricazione mentre la donna acquista centralità venendo indagata nella sua complessità psicologica e sessuale – anche negli aspetti più oscuri, intimi e inquietanti.[4]
di Fabrizio Fogliato ©
[1] Il film di Brunello Rondi partecipa alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 1963 (sotto la direzione di Luigi Chiarini). L’esito per il suo autore è tragico e catastrofico: non solo il film viene massacrato e vilipeso da tutta la critica italiana ma lo stesso Rondi subisce attacchi ingiustificati e deplorevoli di tipo personale: “Fui proprio distrutto da tutta la critica italiana e mi mise a piangere leggendo quei giudizi”.
[2] In Francia Louis Chouvet su “Le Figaro”, e Jean-Louis Comolly sui “Cahièrs du Cinéma” recensiscono positivamente il film. In Inghilterra sul “The Times” di Londra riceve una vera e propria ovazione da parte di un’altra penna particolarmente feroce ed intransigente quale è quella di John Russel Tylor.
[3] “Sono sempre stato fedele – anche in modo impopolare – alla questione della nevrosi maschile e soprattutto femminile. Nei miei film ci sono sempre personaggi femminili che comunicano la loro nevrosi attraverso l’erotismo. Sono spesso impegnati in un’esuberanza e in un amore distruttivo che devasta furiosamente tutto quello che c’è intorno. I critici italiani hanno spesso scambiato la mia attenzione all’erotismo femminile per sfruttamento, mentre era tutto nevrosi”. [Franca Faldini, Goffredo Fofi, L’avventurosa Storia de Cinema Italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Feltrinelli, Milano, 1981].
[4] Elementi destabilizzanti che mettono in crisi tutte le fragili certezze di una società ipocrita, perbenista, moralistica e misogina quale è quella italiana degli anni ’60. Questa reagisce con rabbia, frustrazione, violenza e, attraverso la scure censoria, annienta quell’elemento femminile così libero e selvaggio – rappresentato dalla protagonista del film – che ha osato intaccare l’equilibrio collettivo così ipocrita e così arbitrario.