Lo stigma di una generazione…
In realtà i dialoghi talvolta logorroici, talvolta “presuntuosi” di Càlamo, sono invece parte di una scelta autorale consapevole – forzatamente ricercata – finalizzata a mettere in scena il falso come stile di vita e persino come stigma di una generazione. Il film si avvolge attorno alla condanna del gruppo che – come rabbiosamente comprende Riccardo nel finale – alla rivoluzione “non ci ha mai creduto” ma l’ha utilizzata, strumentalmente per nascondere pavidità e velleitarismo. Le parole, dunque, nella sceneggiatura del film diventano puro elemento retorico che denuncia l’ipocrisia dei sessantottini, i quali altro non hanno fatto che approfittare delle circostanze per vivere una stagione simbolicamente libertaria, prima di rientrare nei ranghi del conformismo borghese e rassicurante: non a caso, nel finale una volta indossati gli abiti di circostanza le parole del gruppo si fanno rarefatte e concrete.
Voi cari “sessantottini”, avevate tutto, ricchezza e cultura. […] Voi “sessantottini”, avevate dalla vostra la comprensione e l’ammiccamento complice dei vostri genitori e dei grandi giornali borghesi. “Sun Zueni”, sono giovani dicevano di voi, guardandovi con l’occhio compiaciuto con cui il padre guarda il figlio “tanto vivace”, i vostri genitori borghesi e benestanti…[1]
Quello che trovano, invece, questi giovani coccolati e “protetti” (paternalisticamente) è solo la droga, intesa come strumento che ottunde la percezione (“Io non voglio vedere la gente morire, per questo mi drogo” – dice uno dei protagonisti di Cálamo), annebbia la vista e allontana le responsabilità individuali e collettive. Non a caso il sogno lisergico di Riccardo presenta uomini e donne spogliati e mascherati su un cumulo di macerie accanto ad una Chiesa diroccata. Solo Marina/Cálamo si gira senza maschere sul volto ma tenendo in mano un cappello da prete, stretto davanti a sé a coprire il pube depilato (che è astrazione del sesso assoluto), costringendo Riccardo a fuggire davanti a quella visione – che è quella del peccato – e a diventare bersaglio umano e sacrificabile in virtù di una pseudo libertà conquistata: il sesso di Marina/Cálamo nascosto dietro ai paramenti sacri, diventa simbolo biunivoco della corruzione e della liberazione indotte dai beni materiali.
Ma “Dio c’è” (come recita una scritta su un muro) e la spiritualità del giovane seminarista prevale sulla tentazione della carne al fine di preparare il terreno ad una rinascita salvifica che potrà avvenire solo attraverso il suo sacrificio. Riccardo, muore una prima volta (nel sogno) su una spiaggia che è come quella che – nella prima parte del film – scandisce il suo percorso di crescita attraverso la scoperta del corpo femminile (nell’incipit), lo avvicina (lo svenimento di Marina), lo osserva (gli esercizi di yoga) e al fine lo desidera. Sulla spiaggia, però, c’è anche un confessionale vuoto, simbolo latente di una redenzione sempre possibile e di una lotta perenne e inesausta contro il peccato e, come dice Riccardo: “C’è qualcosa in noi a volte, che non riusciamo a definire con chiarezza; non so, l’angoscia di certi impulsi, una sorta di malessere che non conosciamo e vogliamo parlarne con qualcuno”. Il dubbio quindi, e l’esercizio consapevole della scelta, sono prerogative del giovane seminarista confuso e peccatore (vive una relazione, al contempo, perversa e platonica con la sorellastra Stefania), ma desideroso di una verità che si contrappone alle buone e false intenzioni del “gruppo”.
Il rapporto con Stefania rivela l’infantilità dei sentimenti di Riccardo (più volte la donna lo invita a crescere, a diventare uomo) e il suo rapporto ludico con il corpo: uno strumento tattile, masturbatorio e mai emotivo – il sesso inteso come passatempo momentaneo legato al piacere (la fellatio iniziale) ma non ai sentimenti. Il singolo contrapposto al gruppo, quindi, l’individuo alla ricerca di se stesso nel confronto con gli altri: l’individualismo prospettico di Riccardo come barriera (l’unica possibile?) da opporre alle masse, mentre, sullo sfondo, si intravede il riflusso che conduce alla violenza prima e all’edonismo e all’apparenza poi.
L’ulteriore disappunto del protagonista può essere però, a questo punto, fonte dell’agognata presa di coscienza. Massimo Pirri sembra voler contrapporlo in maniera evidente, all’epilogo, a quei falsi contestatori – somigliano non poco ai blouson noir di Arancia meccanica, e un discepolo di Cristo e chiave e nume della vicenda anche qui, a quanto pare con il medesimo misticismo – che il regista definisce “impotenti a cambiare lo status quo, mistificati dietro immgini di comodo potrebbero essere, al limite estremo, anche gli stupratori del Circeo. Figli di una borghesia che si ammanta di avanguardia ma che scivola sempre più in un abisso di sottocultura reazionaria. Con questo voglio dire che non sono quei giovani, nel mio film come nella realtà, gli imputati numero uno, bensì ciò che è alle loro spalle”[2]
Massimo Pirri, dunque, con il finale di Càlamo prefigura la violenza e il disimpegno del secondo lustro degli anni’ 70. Lo fa a modo suo, in maniera un po’ criptica e un po’azzardata, ma é innegabile che alla superficialità della messa in scena corrisponde una capacità di scavo antropologico ed esistenziale decisamente non convenzionale. Egli si fa dunque cantore (inascoltato) di una generazione sconfitta dalla sproporzione tra le ambizioni rivoluzionarie e i relativi mezzi morali necessarie a metterle in atto. Una generazione che altro non é che “vanità” più intenta a rimirarsi narcisisticamente allo specchio (come molteplici sono le immagini del film in cui il volto é riflesso) che ad agire per un bene comune e collettivo (destinato a rimanere nelle parole).
di Fabrizio Fogliato ©
[1] Massimo Fini in “Il Lavoro”, Contropiede, 10 Gennaio 1980
[2] Massimo Pirri in Il tragico gioco della liberrtà di un prete in crisi, L’Unità 22 ottobre 1975