Montaggio erotico per un madrigale surrealista
Il percorso cinematografico di Massimo Pirri negli anni ‘70 dimostra come le quattro tappe dei quattro film realizzati scandiscono l’involuzione dei sessantottini fino alla nemesi e autodistruzione che scorre nelle siringhe di eroina del film omonimo. Si può quindi dire che la sua filmografia traduca in immagini i concetti espressi (a parole) in Càlamo. Attraverso il monologo di Marina sulla spiaggia, Pirri non si limita a denunciare l’ipocrisia borghese e a smascherare l’inconsistenza di velleità reazionarie di una intera generazione (quella del ’68) ma anticipa le tragiche conseguenze della disillusione e il successivo sfociare nel terrorismo politico: “Il mondo deve cambiare, in tutto, se no, meglio crepare che vivere così. Bisogna andare oltre, credimi. Cominciare da dentro: cuore nuovo, vita nuova. E se non ci riuscissi, allora meglio assassina, puttana o dinamitarda”. Ambiguità e ipocrisia sono strutturate da Massimo Pirri – lungo tutta la pellicola – attraverso l’uso insistito del montaggio alternato secondo le dinamiche tentazione/redenzione. Il regista mostra, contemporaneamente, il desiderio che anima il peccato e l’abbandono del corpo ai piaceri della carne sottolineando, continuamente, cause e conseguenze e mescolando, arbitrariamente, libertà e oppressione – il tutto al fine di restituire una visione vertiginosa del libero arbitrio.
Egli mostra in alternanza, nell’incontro tra Riccardo e Stefania nella chiesa vuota, il contatto dei corpi e la repulsione dell’atto (il seminarista fugge sulla spiaggia e vomita); usa il flashback in alternanza alla fuga in automobile di Riccardo e mostra il colloquio tra Riccardo e il suo superiore che gli intima: “Cristo non è morto per errore”, mentre scorrono le immagini del viaggio in automobile. Infine riprende con lo stesso procedimento il sovrapporsi di dubbi, rabbia e perversioni nella scena del rito erotico-pagano sulla spiaggia. Qui mentre seguiamo i preparativi rituali e blasfemi della nascita di una “nuova chiesa” (quella del corpo) – attraverso la purificazione dei corpi nudi con l’olio, lo spezzare del pane e la condivisione del vino e la relativa conseguenza orgiastica – vediamo anche la sofferenza e il tormento di Riccardo, diviso tra la frustrazione e la rabbia per l’abbandono della sorellastra (Stefania si sposa) e il desiderio – faticosamente represso – di raggiungere il gruppo sulla spiaggia e di unirsi a loro: abbandonarsi alla perversione sessuale per raggiungere la felicità. L’uso che fa Massimo Pirri del montaggio alternato quindi, non è solo finalizzato a dare una visione contemporanea di due eventi distinti ma legati tra loro, bensì l’intento è quello di restituire allo spettatore una compartecipazione emotiva della crisi e dei dubbi che abitano il cuore e la mente del giovane seminarista.
Per questo il montaggio di Càlamo risulta strutturato attorno al meccanismo matematico della proporzione e dell’addizione. Quest’ultima si manifesta nella ripetitività-accumulo di situazioni emblematiche ai fini delle svolte narrative. Ogni cambio di registro é sottolineato sia da un diverso accompagnamento musicale sia dal moltiplicarsi dei punti di vista che mostrano la stessa immagine. La proporzione, invece, emerge dalla capacità di Pirri di duplicare situazioni – sia sulla base del contenuto che della forma – in diversi punti del film con l’obbiettivo di creare un’analogia tra situazioni diverse, indirizzata a definire sia l’ipocrisia che regola i rapporti umani (e di classe) nel film, sia la sovrapposizione tra velleità filosofiche e reali intenzioni del gruppo. Questo artificio tecnico, diventa, ontologicamente, quindi, la rappresentazione filmica del concetto verbale di ”vanità”, enunciando, di volta in volta, in relazione al suo utilizzo, i passaggi cruciali della Via Crucis intrapresa (in)volontariamente da Riccardo. Già sui titoli di testa – che scorrono sulle immagini della scoperta del sesso “osservato” da parte del giovane – è chiaro lo spaesamento che abita in lui. I titoli si aprono con un’inquadratura dal basso che mostra Riccardo mentre gioca con due insetti costringendoli a stare dentro un cerchio disegnato sulla sabbia, e si chiudono con la stessa immagine che mostra il piede del giovane mentre schiaccia e uccide i due insetti: nel mezzo, egli ha osservato il sesso nudo di una ragazzina intenta a giocare con due amici. Lo ha fatto in un luogo – chiaramente simbolico – come è la spiaggia: luogo di prossimità qui, invece, deserto, come a voler riprodurre spazialmente l’assenza di conoscenza del corpo femminile da parte di Riccardo.
Una spiaggia su cui egli avverte il mistero della sua eccitazione sessuale e il suo turbamento di fronte a tale manifestazione – qui simboleggiata dai numerosi oggetti fallici disseminati in riva al mare. Nell’incipit del film si avvertono già tutto il disagio e lo spaesamento esistenziale di Riccardo il quale, non a caso, è intento a delimitare, con il dito sulla sabbia, un cerchio all’interno del quale i due insetti girano e sono costretti a rimanervi. E’ evidente che quel cerchio è la barriera che delimita la sua libertà: una barriera fatta di repressione, tare edipiche, complesso di inferiorità e inadeguatezza: non a caso, sin da subito, egli può solo limitarsi, sconcertato, a vedere da lontano, il sesso della giovane che da li a poco correrà, invece, ad “intrattenersi” con due coetanei. L’allontanamento della ragazza provoca in Riccardo l’esplosione di una rabbia compressa che si manifesta nell’uccisione degli insetti e nella cancellazione del cerchio che li delimita. Le note enfatiche e ammalianti della musica di Claudio Tallino, fanno da sfondo a due immagini surrealiste che sintetizzano il conflitto tra libertà e repressione cui il giovane seminarista è sottoposto in famiglia. Nella sequenza successiva lo ritroviamo seduto a tavola con genitori e parenti. La scena presenta con caustica ironia, un pranzo borghese dove la cameriera prima di servire benedice con l’acqua i commensali e dove il regista mostra – attraverso il contrasto tra immagine e parola – la crisi esistenziale attraversata da Riccardo.
Se i discorsi, raccontano di una famiglia benestante e “fascista”, le immagini pregne di cattivo gusto, mostrano uomini e donne che si toccano i sessi e ne assaporano l’essenza, mentre il padre ripulisce i piedi con le mani e poi ne odora le sostanze. In questa visione disgustosa e perversa della famiglia borghese (già presente, in tono minore, in Grazie zia (1968) di Salvatore Samperi) sono riscontrabili i motivi del malessere del giovane seminarista che, infastidito, allontanandosi dal tavolo, urla a squarciagola: “Io voglio fare il prete!”. Da qui, inizia ad intraprendere un percorso di ricerca della “verità” che, sin da subito, diventa una vera e propria via crucis in sette tappe: poi giungerà la morte – improvvisa ma cercata – che interromperà il suo cammino esistenziale, ma determinerà la sua salvezza spirituale. La scelta del numero sette non appare casuale se si considerano i numerosi riferimenti biblici sparsi qua e là lungo tutta la pellicola. Sette è il numero biblico perfetto, il simbolo della colpa e del perdono: bisogna perdonare settanta volte sette – ed è proprio attraverso il perdono che Riccardo dimostra la sua coerenza e la sua purezza.