I LIBRI DI INLAND #6
Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano
di Fabrizio Fogliato con prefazione di Romolo Guerrieri
Bietti Edizioni, 2022
Itinerario n.05: ritorno: Gli assassini sono vostri ospiti (stralci)
Nella materialità dell’omicidio di Maria Martirano si nasconde il perturbante di un’intera società che, darwinianamente, definisce i rapporti di forza e correità tra padroni e servi. Indipendentemente dalla verità dei fatti, c’è un dato che non può essere né eluso né messo in discussione ma che, cinematograficamente, è destinato a rimanere fuori campo: il gesto dello strangolamento.
Il sicario, o chi per lui, ha realmente stretto le mani intorno al collo della vittima, incrociato il suo sguardo, udito la sua voglia di gridare, percepito la paura scorrergli nelle vene. Questa è l’unica prova inoppugnabile e inconfutabile del delitto. La corrente elettrica che ha legato la vittima al suo carnefice ha determinato l’emergere improvviso, inaspettato, irrefrenabile della bestialità, del furore freddo, della cieca rabbia di cui è intriso nel gesto.
L’interrogativo che ne consegue e a cui – tra suggestioni letterarie e riferimenti cronachistici – Damiano Damiani, riprendendo dubbi e riflessioni di Rodolfo Sonego, ha tentato di dare una risposta con il film dal titolo inequivocabile Il sicario (1961) è il seguente: come può un uomo qualunque, senza né preparazione né formazione, commettere un omicidio, trasformarsi in un algido e spietato esecutore chirurgico di quanto suggerito da un mandante?
Nel film di Damiani ‒ se la svolta del finale appare troppo letteraria rispetto allo sviluppo precedente della pellicola ‒ nella pericolosa partita giocata tra padrone e servo si evidenzia come sia quest’ultimo a sottoporre a una lenta, progressiva umiliazione, il mandante dell’assassinio.
Lo spregiudicato, avventato e inetto imprenditore Riccardo Mogliani (Sergio Fantoni) prima è costretto a confessare il suo fallimento (lavorativo, morale, esistenziale) alla moglie, poi a mettersi in ginocchio per supplicare il suo sicario Giulio Torelli (Alberto Lupo) di non denunciarlo, rovinando lui e la sua famiglia; infine a rimanere piegato sul pavimento del suo ufficio a pulire il vomito del sicario mentre la sua angoscia e la sua paura montano inarrestabili (come dimostra l’amplificazione del respiro affannoso).
La prospettiva di Damiani è crudele, tutta centrata sul mandante – letterariamente, ma anche psicologicamente, il vero “uomo in trappola”. Proprio colui che commissiona il crimine, non si accorge di essere entrato in una strada senza uscita.
Lo dimostrano tanto la scalinata su cui inizia il film, che sale verso il nero della notte più buia, quanto il fatto che l’uomo a cui deve restituire i soldi di un prestito, Burlando (Lauro Gazzolo), sia sempre un passo avanti e lo inchiodi da subito al ruolo di inferiore e subalterno. Non è secondario neanche il fatto che gran parte dei momenti salienti della pellicola si svolgano all’interno dell’abitacolo della macchina: sia per ciò che questa rappresenta simbolicamente in quegli anni, sia, e soprattutto, per il fatto che solo e soltanto l’abitacolo è inquadrato, come a circoscrivere la cella di prigionia in cui prima il mandante da solo e poi il mandante e l’assassino si trovano a vivere la loro condanna.