Il rapporto sessuale è uno strumento per fermare il tempo

Il titolo originale del film è lo stesso del romanzo di André Pieyre De Mandiargues, cioè “Tout disparaîtra”, così almeno compare sulle carte di lavorazione del film. Al momento dell’uscita però il titolo originale viene convertito nell’anonimo Cérémonie d’amour, mentre in Italia diventa Regina della notte, per richiamare nelle sale il pubblico-voyeur del circuito a luci rosse ormai avviato verso una crisi irreversibile.

Uscito a Parigi il 20 luglio 1987, Regina della notte è l’ultimo lungometraggio diretto da Walerian Borowczyk, e rappresenta la sintesi sperimentale del suo cinema, diviso tra l’interprete-musa Marina Pierro e la guida ispiratrice e letteraria di André Pieyre De Mandiargues. La produzione del film è segnata da incomprensioni, disguidi e difficoltà di ogni genere, in cui vengono utilizzati ben quattro direttori della fotografia, Gerard Manceau, Jean Paul Sergent, Patrice Guillou e Michelle Zolat, per trovare la giusta gamma cromatica relativa alle immagini del film. La stessa Marina Pierro ricorda le difficoltà incontrate durante le riprese nel metro di Parigi: “All’inizio ci furono dei problemi; girare nel metro di Parigi con la gente non è certo semplice, la fotografia non era come voleva Borowczyk, perdemmo un po’ di giorni, Walerian era nervoso, dovevamo rifare alcune scene già girate. Alla fine mi innervosii anch’io, ci fu una discussione piuttosto animata. Ci pensai tutta la notte. La mattina lo chiamai, e gli proposi una soluzione: avremmo girato tutte le scene da rifare in un giorno solo. Era rischioso, non potevamo sbagliare, accettò. Il risultato diede l’impronta a tutta la lavorazione, che proseguì senza intoppi. Credo che sia la sequenza pù bella che abbiamo girato insieme. Quella del primo incontro tra i due protagonisti nel metro”. (Marina Pierro, Diseguale metodicamente, intervista a cura di Alberto Pezzotta in Associazioni imprevedibili, pag. 30).

La contiguità tra il cinema di Walerian Borowczyk e la letteratura di André Pieyre De Mandiargues oltre che in relazione al testo, si sviluppa anche in ambito biografico attraverso le affinità elettive del surrealismo, della fascinazione verso la donna e della seduzione intesa come rituale. In entrambi la necessità di creare un “mondo fantastico” attraverso la rappresentazione di una realtà minimalista  è un’urgenza vitale. In un film come Regina della notte, l’aspetto onirico è perennemente latente, ed è associato ad un erotismo spiato e contemplato. Borowczyk gioca a rimpiattino con lo spettatore, rimandando continuamente l’esposizione delle nudità, mediante la scomposizione del corpo femminile, la cui carica erotica è mostrata (e amplificata) attraverso un uso esasperato del dettaglio, per poi tramutarsi in sogno (e incubo), al momento della penetrazione dei corpi. Immagini che arrivano dopo un’ora di film e che vengono mostrate in campo lungo, filtrate attraverso vetri che sono anche barriere, la cui vista è ostacolata anche dalla flora presente nella veranda.

Il coito, dunque, viene proposto “in lontananza”, senza la nudità integrale dei corpi, ma attraverso dettagli erotici di carattere secondario (come la schiena dell’uomo e i polpacci della donna), e assume via via la dimensione fantasmatica del desiderio. Di quanto sia fondamentale, per Walerian Borowczyk, il sogno nell’erotismo, è la stessa Marina Pierro a darne testimonianza: “L’erotismo al cinema per Borowczyk, è l’immagine finale di un sogno, ciò che ti rende sveglio all’improvviso, con una domanda, una sensazione e di cui spesso rimane solo un frammento, una mano, un viso, uno sguardo. Quel frammento così personale lo riproduce sullo schermo…nella totalità a volte si perde l’impatto primario, ma lui vuole catturare lo spettatore a modo suo”. (Marina Pierro, Diseguale metodicamente, intervista a cura di Alberto Pezzotta in Associazioni imprevedibili, pag. 22).

Regina della notte è percorso dalla sonata per pianoforte di Johann Sebastian Bach, un corollario musicale che si innesta in una struttura cinematografica prevalentemente verbale (non verbosa), caratterizzata da una fissità teatrale, in cui i dialoghi tra i due protagonisti diventano metonimia di una recita esistenziale inscenata dall’uomo e dalla donna sul palcoscenico della vita. La voce narrante che segue e commenta la vicenda contribuisce a mantenere il film in precario equilibrio tra reale e fantastico. L’ambiente urbano – raccontato attraverso immagini documentarie che propongono la frammentazione della quotidianità parigina – diventa con i suoi “quadretti”, rappresentazione di un reale in cui si intrecciano lusso e miseria, rumore e silenzio, meccanicità e umanità, dolore e gioia, amore e morte. Proprio la scelta dell’ambiente metropolitano, in cui si mescolano la meccanica delle porte dei vagoni che si aprono e si chiudono, l’elettricità che percorre le gallerie in cui viaggiano i treni, il caos della frenesia della quotidianità lavorativa, appare finalizzata a fare emergere le contraddizioni di un mondo moderno (Regina della notte è l’unico caso di un film di Borowczyk ambientato interamente nel presente), in cui l’erotismo e la seduzione con i loro ritmi lenti e cadenzati appaiono quasi degli intrusi.

Come il romanzo di André Pieyre De Mandiargues, “Tout  disparaîtra” pubblicato nel 1987, anche Regina della notte, si svolge in tempo reale, nell’arco di un pomeriggio di primavera. La dilatazione temporale, in cui la luminosità del giorno si prolunga oltre misura (all’inizio del film un orologio segna le h. 16.15), proviene direttamente da un assunto caro a De Mandiargues: il rapporto sessuale è uno strumento per fermare il tempo, come si evince dal racconto “La marea” (uno degli episodi de I racconti immorali di Borowczyk), e come testimonia l’arrivo del tramonto solo poco prima del finale di Regina della notte. Il tempo pomeridiano, dilatato a dismisura, rivive nel tempo delle azioni: nel film ogni sequenza è scandita da un unico gesto (il trucco nella metropolitana, il petting nella chiesa, il camminare nel quartiere, l’amplesso nel foutoire), quasi come a voler contrastare attraverso l’ “utopia” della messa in scena cinematografica la frenesia frastornante della vita moderna. Gesto che (quasi) inconsapevolmente, diventa testamento ideologico-esistenziale dello stesso Borowczyk, il quale dopo questo film non dirigerà più alcun lungometraggio fino alla morte “anonima” del 2006.

A Parigi, Miriam Gwen (Marina Pierro) quando non lavora come attrice, divide il suo tempo diurno e notturno fra le scale del métro ed il letto. E’ giovane, seducente e attira gli uomini. Capita così anche ad Hugo Arnold (Mathieu Carrière), un maturo stilista di moda, che prima la nota sedendole accanto sul métro a San Sulpice; poi fa qualche approccio nel sottosuolo; passeggia con lei tra la gente, le vetrine, le fioraie e le fontane; poi chiede di più nella oscurità della Chiesa di St. German des Prés e finisce con l’essere condotto in un attico raffinato, pieno di piante esotiche. L’incontro d’amore con la mercenaria si risolve in torture e umiliazioni: la bella si innesta sulle dita degli artigli spaventosi, lacera il volto e il corpo del malcapitato, stupito dal fatto che quel rapporto intenso si sia trasformato nella vittoria della prostituta e in dramma inconcepibile. Hugo, rivestito alla meglio e a piedi nudi percorre i Lungosenna, dopo quell’avventura che gli pare essersi svolta ai limiti del piacere e della follia di un tempo. Sulla banchina del fiume incontra una ragazza ebrea appena uscita dall’acqua: improvvisamente ed inesplicatamente lei si uccide. Molta gente accusa Hugo di assassinio (lo hanno visto mentre innorridito prendeva in mano il pugnale di lei) e la polizia lo arresta.

Regina della notte è un film diviso tra realtà e simboli: frammenti documentari delle strade di Parigi mostrano dettagli di statue, piccioni che si alzano in volo, bambini che giocano nel parco, barboni che dormono lungo le strade e mutilati che chiedono l’elemosina, mentre un bizzarro fotografo giapponese immortala ogni cosa sulla pellicola della sua macchina fotografica, riprendendo la città statica degli edifici e dei monumenti e quella dinamica delle persone e delle automobili. Il bacio tra Miriam e Hugo, nel frastuono del traffico, viene ripreso dall’impertinente “giapponesino” con la foga di un paparazzo, mentre una giovane ragazza bionda urla, rivolta verso la coppia, “Vive l’amour”. A quest’aspetto “terreno” si alterna quello simbolico (e onirico), fatto di segni premonitori come il serpente tatuao sulla guancia dell’ex galeotto, simbolo fallico che idealmente si ricollega al tatuaggio della farfalla sul pube di Miriam; così come lo stiletto, presente nel beauty della donna, ricompare nel finale nelle mani della ragazza nuda emersa dalla Senna. Realtà e simboli si confondono nella visione “artistica” della metropoli, in cui il turista co-esiste con l’autoctono così come l’amore e la seduzione co-esistono con il caos e la distruzione.

(continua)

di Fabrizio Fogliato ©

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