La chiesa di Saint Germain De Pres si trasforma in luogo mistico e astratto

Solo apparentemente, in Regina della notte, l’erotismo appare come implicito, in realtà proprio in questo film è pregnante e debordante (come lo era stato in Blanche), attraverso un processo di sottrazione della nudità e attraverso l’esaltazione, tanto del gesto quanto del dettaglio.

La lunga sequenza in cui Miriam si trucca, si guarda nello specchio, si passa voluttuosamente la lingua sulle labbra, viene intervallata dal montaggio di immagini che mostrano il muoversi delle gambe fasciate nelle calze nere, il muoversi del vestito di seta a scoprire, con la sua trasparenza, parte delle cosce, l’ondeggiare sinuoso del piede nella scarpa col tacco e il dondolare dell’orecchino appeso all’orecchio, che segue ritmo del movimento del treno. Dettagli che, uniti alle riprese “spiate”, in cui tutto è sempre mostrato attraverso la presenza di altre superfici e/o di ostacoli materiali, restituiscono alla sequenza una potenza erotica senza eguali, che non a caso trova la sua chiosa, attraverso le parole della voce narrante che, interpretando il pensiero di Hugo (seduto in silenzio accanto alla donna), dice: “Da parte di un uomo che si considera fiero e forte, non sarà paura oltre che viltà, il sottrarsi ad una sorta di prostituzione presentata con tanta grazia”.

Anche durante l’incontro nella Chiesa di Saint Germain De Pres, la macchina da presa di Borowczyk, indugia sugli stessi dettagli erotici qui mescolati al fumo delle candele e alternati alle immagini degli affreschi presenti. Il luogo sacro viene “desacralizzato” dai toccamenti tra Miriam e Hugo, infiorettati dalla loro dialettica che, attraverso le parole, dà vita alla rappresentazione del sacrificio: si cita il poeta romano Belli, il sacrifico di Isacco, l’episodio di Giuseppe venduto dai fratelli, con l’intento dichiarato di dare forma e immagine a una rappresentazione “sacra” e rituale della seduzione. La chiesa di Saint Germain De Pres si trasforma in luogo mistico e astratto (come dimostra l’utilizzo della silhouette e del controluce), un incrocio tra lupanare e luogo di preghiera in cui la donna assume identità compiacenti per l’uomo e racconta la propria giovinezza in relazione all’immagine della vittima sacrificale.

Miriam è tutto fuorchè una vittima, come dimostrano sia l’assunzione di identità fittizie ma rassicuranti per l’uomo, sia il feroce finale in cui sfodera tutta la sua “animalità” attraverso la vestizione delle unghie finte e acuminate, sia il racconto di due personaggi come Sarah Sand e Ping. Il primo è evidente rappresentazione del lato oscuro della donna dominatrice e castatrice, il secondo è metonimia del ruolo del maschio: un servo muto, schiavizzato dall’ideale femminino, incapace di opporsi alla carica dirompente dell’erotismo emanato dal corpo della donna. Un uomo che sin dall’inizio del film, in cui è “schiacciato” nella bolla/appartamento (di cui vediamo solo e sempre la riquadratura attraverso lo stipite di una porta che ne restringe ossessivamente le dimensioni) è condannato all’ “inferno” come dimostra il reiterato e significativo inserimento, lungo l’arco di Regina della notte, del tema della “discesa”.

Scendere verso il basso: che siano le scale di un condominio, quelle della stazione della metropolitana, o quelle dei sotterranei del carcere, per Borowczyk non fa differenza. L’uomo “sprofonda” letteralmente nella sua presunzione di virilità; il senso di dominio è appunto solo tale, perchè è la donna che guida il “cieco” (Miriam chiede a Hugo di perdere il senso dell’orientamento e di non leggere i cartelli dei nomi delle vie), prima di renderlo “muto” (la pomposità dei dialoghi nel foutoire, maschera dietro la parola appunto, l’inconsistenza dell’ “Essere”) e infine, umiliarlo (anche fisicamente), per renderlo consapevole della sua natura di “impotente” (non a caso, Borowczyk sottolinea il momento in cui i gendarmi mettono le manette ad Hugo attraverso il dettaglio della ripresa dei polsi, lo stesso utilizzato nel foutoire quando l’uomo lega le mani di Miriam). Per Hugo, si tratta infatti di un Golgotha al contrario, in cui convinto di salire in Paradiso (attraverso l’espiazione delle sue colpe), egli si ritrova, suo malgarado, a sprofondare negli inferi posti nel ventre della terra.

Quello della discesa verso il basso è un filo rosso che lega tutte le sequenze del film; Borowczyk amplifica questo tema, attraverso la dilatazione spazio-temporale del movimento: quando Hugo esce dal suo appartamento, al quarto piano, inizia a scendere le scale, e il  montaggio mostra ogni dettaglio (i piedi sugli scalini, la mano sul mancorrente, la spirale della tromba delle scale…) rallentando l’azione solo attraverso l’alternarsi delle inquadrature,  e inserendo, lungo i passaggi sui pianerottoli, immagini fugaci che mostrano il movimento nella strada sottostante. Tale enfasi su questa azione “banale”, è volta a sottolineare come l’abbandono del suo appartamento (e quindi della sua vita), per Hugo sia un gesto definitivo, il lasciarsi dietro la tranquilla e rassicurante esistenza borghese (ma falsa), come dimostra l’ingresso nella stazione della metropolitana, anticipato dall’immagine della “bocca della verità”.

È in quel mondo oscuro e sotterraneo, un “inferno” fatto di cunicoli, binari, tubi e fili elettrici, che l’uomo andrà alla ricerca di se stesso, inconsapevole di aver acquistato un biglietto di sola andata. La discesa iniziale fa il paio con quella finale dal foutoire, in cui Hugo, ferito, umiliato e spogliato dei propri averi discende vertiginosamente le scale rosse (altro riferimento al sangue e all’inferno); questa volta il movimento non è dilatato, perchè ha la velocità di una fuga: l’uomo persa l’identità e la virilità, intraprende il cammino definitivo verso l’auto-annullamento, prima della discesa “mortale” e kafkiana nelle segrete del carcere. L’oblio a cui va incontro l’uomo viene presentato da Borowczyk come una scelta scriteriata frutto della sua presunzione, in quanto egli è incapace di vedere, i segni premonitori dispensati lungo il suo cammino, e talvolta, è persino la donna a sottolineare platealmente la sua natura manipolatrice. L’uomo “cieco”, avanza sicuro e deciso come i treni che corrono lungo i cunicoli bui della metropolitana.

Eppure Miriam dispensa indizi sulla sua natura lungo l’arco di tutto il film, come quando nei cunicoli del metrò afferma: “E’ nella penombra che prende vita quel fiore odoroso del deserto che forse lei conosce…”, e Hugo, sembra cogliere l’essenza di quelle parole, infatti reprlica: “E’ lei quel fiore Signora?, che ha scelto per attendermi un sedile al di sopra del quale si staccano in lettere enormi tre terribili parole “tutto deve scomparire (“tout doit disparaître”)”. Nonostante le apparenze però, il suo comportamento a seguire non tiene conto dell’implicito preavviso, fino a quando lungo un vicolo del centro di Parigi (opportunamente inquadrato dall’alto verso il basso per schiacciare i personaggi, rimpicciolirli e dare il senso della discesa), Miriam scopre le carte e dichiara imperiosa e stizzita: “Non dimentichi che nel mio teatro, se si dovesse arrivare alla morte sarei io a darla…non il mio partner”.

Dopo la “distruzione”, l’uomo emerge temporaneamente dallo sprofondo, per manifestare la sua consapevolezza (“Credevo di essere Hugo Arnold, ma da qualche ora a questa parte non sono più sicuro di niente”), prima di assumere una colpa non sua (l’omicidio della ragazza) e scomparire nel ventre della città, mentre su di un muro l’icona femminile per eccellenza (Marlyn Monroe) rivive nel tempo e rigenera se stessa attraverso la composizione dei graffiti, e guarda sorniona la nemesi del maschio. Sul volto ammiccante della star, Borowczyk chiude il sipario sul suo cinema, e prima di ritirarsi a vita privata, fa un ultimo tentativo per rianimare (il sesso ormai è troppo esplicito e troppo facile) l’erotismo visivo partecipando al progetto televisivo francese Serie Rose.

di Fabrizio Fogliato ©

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