Il film di Petri prefigura la morte di Aldo Moro, il quale paga di persona – proprio come accadrà nella Storia – per le colpe di un intero sistema politico.

Aldo Moro è – tra le altre cose – un uomo politico la cui vita tra il 1974 e il 1976 è matrice per la sua futura dimensione cinematografica. Le premesse sono: il fallimento dell’esperienza governativa di centro-destra DC-PLI (Partito Liberale Italiano) a guida Giulio Andreotti che riporta sulla scena (per la quinta e ultima volta) il leader democristiano all’alba del 1973; la sconfitta del “sì” nel referendum sul divorzio del 12-13 maggio 1974 e la débâcle del centro-destra alle regionali del 15-16 giugno 1975 (DC: 35%; PCI: 33%; l’intera area di sinistra al 46%), per cui Moro viene richiamato d’urgenza nell’agone politico per affrontare le “temibili” politiche del 1976 (con lo spauracchio del sorpasso a sinistra).

L’unica strada percorribile dalla DC per poter sopravvivere è dare l’impressione gattopardesca “che tutto cambi senza che nulla cambi” e l’incarico mimetico è affidato al futuro autore del «compromesso storico» («La peculiarità della situazione italiana impone alla DC di essere alternativa di se stessa»). I primi anni Settanta hanno annichilito le vecchie coordinate politiche, centrifugato le ideologie e pervertito le utopiche visioni giovanili.

Nel 1974 Sciascia pubblica il romanzo geometrico-cartesiano Todo modo, due anni dopo Elio Petri realizza il film omonimo. Nel romanzo un pittore chiede di potersi temporaneamente intrattenere nell’eremo di Zafer 3 per osservare la «ginnastica spirituale» dei detentori del Potere. Suo interlocutore è don Gaetano, enigmatico e luciferino osservatore dei tempi e delle persone. Sagace e dalla cultura smisurata, egli è colui che ha colto nella modernità dell’architettura, della sociologia e della comunicazione la «lebbra dell’imbecillità e dell’impostura» ma, anche, la concretezza imperscrutabile del potere di Dio. Il pittore – simbolo di quella che definisco «laicità a bassa intensità» che attraversa l’Italia nel periodo compreso tra il referendum sul divorzio (1974) e legge sull’aborto (1978) – osserva, con distacco e interesse, il consesso di potenti riunitisi per rinfocolarsi lo spirito: in realtà si tratta di una fuga temporanea, una vacanza necessaria per riannodare i dorati fili della ragnatela del Potere.

Lo snodo centrale del romanzo è nella rottura, dall’interno, della perfetta architettura della preghiera: la recita nel piazzale antistante l’albergo è quella di un rosario i cui partecipanti si muovono come una falange compatta, guidata da don Gaetano; l’equilibrio del rito di marcia avanti e indietro – di quelli che sembrano dannati intenti a espiare una pena del contrappasso dantesca – è spezzato dall’omicidio dell’ex senatore Michelozzi, presidente di un ente statale, fulminato da una revolverata proveniente dal bosco. Seguiranno altri delitti in un universo concentrazionario infernale, in cui il Potere è rappresentato in tutta la sua bestialità – anche attraverso la fisiognomica degli esercitanti – e si confonde, si mescola con l’arbitrarietà secolare della corruzione: il De Profundis per un’intera classe politica e dirigente.

Il 30 aprile 1976 Aldo Moro rassegna le dimissioni da Presidente del Consiglio, mentre all’Embassy di Roma e all’Apollo di Milano il pubblico assiste alle prime proiezioni della versione su grande schermo di Todo modo, che propone una caricatura grottesca dello statista democristiano resa superbamente da Gian Maria Volonté. Scrive Petri:

Quando girammo Todo Modo, Volonté divenne evanescente, camminava come se fosse sulle nuvole, parlava a bassa voce, non ti guardava negli occhi, tutto preso com’era dal personaggio di Moro. Il suo fu uno sforzo di concentrazione eccezionalmente intenso. I critici ne parlarono come di Noschese, e anche la gente dell’ambiente, sempre tanto benevola. Per quel personaggio, Volonté ed io ci servimmo molto della moviola. Avevamo radunato molti pezzi di repertorio su Moro. Io, per scrivere il copione, avevo studiato alcuni dei suoi dilaganti discorsi. Posso assicurare che abbiamo censurato moltissimi dei comportamenti di Moro, che sarebbero risultati troppo irriverenti nella loro comicità, ed invece erano proprio suoi. Moro si abbandonava spesso a rituali assai elaborati, nell’incontrare altri uomini politici, o delegazioni straniere, o altri. Ne venivano fuori dei veri balletti. Io credetti fosse meglio puntare su una maschera che simboleggiasse tutti i democristiani, pur partendo dai buffi, esitanti, cinesi rituali di Moro. I primi due giorni di lavorazione di Todo modo furono cestinati da me, d’accordo col produttore e con lo stesso Volonté, perché la somiglianza di Gian Maria con Moro era nauseante, imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco. In quell’immagine risultava tutta l’insidiosità, l’astuzia dell’uomo politico. Dissero la battuta di Noschese, gli amici. A nessuno venne in mente di constatare che in fondo, nel film, ci voleva un certo coraggio a prendere un uomo politico, analizzare il suo comportamento “face-to-face”, e trasformarlo nella maschera dello sfascio, della catastrofe. E nemmeno si volle riflettere sulla non casualità della scelta di Moro, nella quale era implicito un giudizio politico sulla sua grande abilità di incontrare la sinistra, per poi incastrarla, e snaturarla, e asservirla.[i]

Il Moro di Todo modo è una sintesi dell’intera filosofia del potere democristiano: si muove circospetto, lo sguardo perennemente estatico, affettato e ambiguo nelle relazioni, aderisce ai dettami della «preghiera sospirata» di Sant’ Ignazio di Loyola, soffre e concupisce la moglie con slanci di osceno erotismo per poi sistemare, metodicamente, ogni tassello al suo posto; blandisce e ipnotizza la platea dell’uditorio e si lascia sorprendere da improvvisi e violentissimi scatti d’ira. Non è “Il Presidente” bensì l’incarnazione carnevalesca di un intero partito votato all’esercizio del potere attraverso una ritualità religiosa che vive, si rafforza e penetra nella società attraverso il segreto, il mistero, l’indicibile.

Sciascia, a proposito del suo libro, il 23 marzo 1978 così si esprimerà a Radio Radicale:

Come uomo, come cittadino di fronte al caso Moro sento lo sgomento e la pena di qualsiasi persona che abbia sentimento e ragione. Ma come autore di Todo modo, rivedo nella realtà una specie di proiezione delle cose da me immaginate.

Il film di Petri prefigura la morte di Aldo Moro, il quale paga di persona – proprio come accadrà nella Storia – per le colpe di un intero sistema politico. Non c’è alcun legame possibile tra Todo modo e le Brigate Rosse, ma non si può escludere a priori che i terroristi non conoscessero il film. La commistione cinema/realtà si sistematizza al punto che il regista, due anni dopo, dovrà difendersi dall’accusa infamante di essere il “mandante morale” dell’omicidio dello statista democristiano.

Todo modo, caustico ed espressionista, immagina il funerale della Democrazia Cristiana e della politica italiana in generale, con l’obiettivo dichiarato di denunciare la corruzione, il malcostume, l’imperversare di interessi personali nella gestione della cosa pubblica, ricorrendo al grottesco per la raffigurazione di maschere in disfacimento: un sabba carnascialesco e lungimirante, percorso da un pessimismo cosmico latente, immanente, capace – grazie alle scenografie dechirichiane di Dante Ferretti e alle fosche luci espressioniste di Luigi Kuveiller – di illustrare, in modo trasversale e universale, le dinamiche dell’“orgia del potere”.

Sullo sfondo il clan (ogni riferimento alle cosche mafiose è voluto) dei potenti democristiani riunitisi per tramare, mercanteggiare, spingere al limite estremo il gioco abietto della politica dietro la facciata degli esercizi spirituali. Per un tragicomico contrappasso, tutti questi potenti vivranno sulla loro pelle, portandola come croce, l’infamia di essere per una volta nudi e vulnerabili, come tutti. In Todo modo il Male, la corruzione, l’abominio scaturiscono dalla coscienza dell’individuo, dal suo libero arbitrio e dalla gestione che ne fa.

Il titolo, Todo modo, è una citazione da una preghiera del fondatore dell’ordine dei Gesuiti, Sant’Ignazio di Loyola, il cui modello di cultura elitaria è proprio quello incarnato da don Gaetano nel romanzo. «Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina…» («Cercate in ogni modo di adeguarvi alla volontà divina…») ammonisce Sant’Ignazio, con la conseguenza che il singolo fedele (secondo il proprio senso di responsabilità) debba cercarsi da sé metodo e modalità per raggiungere tale scopo.

Petri imbastisce, su un meccanismo di coazione a ripetere ridondante e ossessivo, un baccanale in cui al posto del cibo (molti digiunano) si trova il sangue (delle vittime) e al posto del sesso (non ci sono donne nel ritiro, tranne Giacinta, la moglie del “Presidente”) la preghiera sospirata; espedienti medianti i quali il regista azzanna e divora i governanti democristiani e la chiesa cattolica mentre immagina che la sete di potere li abbia già lacerati e precipitati nell’inferno, pronti a sbranarsi a vicenda, a torturarsi e a uccidersi, a nascondere dietro il sipario della pietà religiosa le azioni più abiette e meschine. 

I delitti, nella pellicola, si susseguono con la cadenza monotona e sincopata con cui vengono recitate le preghiere: la morte appare improvvisa, scarna, volgare, senza preavviso, senza suspense, senza violenza; fredda e meccanica nel mostrare corpi improvvisamente straziati, denudati e tumefatti, come il frutto inconscio del meccanismo di potere agito e tramandato dai notabili di partito. Alla fine i deceduti sono innumerevoli, una vera strage. Aldo Moro viene ucciso da un proletario (interpretato emblematicamente da Franco Citti) con cinque colpi di pistola sparati alle spalle: una fine violenta e alla vigliacca (l’assassinato non vede il proprio assassino), simile a quella che gli sarà riservata un paio d’anni dopo l’uscita del film.

di Fabrizio Fogliato ©

[CONTINUA]

Per saperne di più clicca su:

  1. Lettera dattiloscritta di Elio Petri, archivio Paola Petri – Museo del Cinema di Torino in ilcinemaritrovato.it

 

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