Aldo Moro: “Todo modo è opera ignobile ma inevitabile”. 

In Todo modo il fattore unheimlich non si esaurisce nella temporaneità dell’assunto narrativo, ma si incunea nella familiarità del quotidiano per pervertire tutto ciò che è, apparentemente, innocuo. “Il Presidente” – sintesi del potere democristiano – nevrotizza il desiderio che incarna: le pulsioni, le patologie inespresse e frustrate di un intero corpus dirigente (non solo quello politico).

Ho girato il film con l’idea che il responsabile fosse M., e che lui stesso poi ordina la propria esecuzione. Comunque, prima di tutto è la conclusione logica degli esercizi spirituali, ovvero uno psicodramma particolarissimo in cui il paziente ha il ruolo fisso del peccatore. Si può dire che la verifica che l’attuale gruppo democristiano sta conducendo da qualche anno, sembra proprio come un esercizio spirituale, predeterminato per la sua condanna, ossia per la sua estinzione. (Gili, 1978, p. 206). 

Nel suo saggio sul cinema di Elio Petri, Andrea Minuz riporta un aneddoto secondo cui

Aldo Moro visionò Todo modo in una sala privata allestita a Piazza del Gesù e, terminata la proiezione, disse di aver visto un’“opera ignobile ma inevitabile”.

D’altra parte il film mostra come “Il Presidente” sia l’oscuro regista che dirige – con tempi e modi accuratamente programmati – le uccisioni che si susseguono durante il blasfemo conclave; e acconsenta di buon grado a essere a sua volta vittima, quella conclusiva (in apertura di film esprime questo desiderio, in maniera criptica, dicendo «Vorrei essere l’ultimo»): come a dire che l’unica palingenesi possibile per questa classe dirigente sia l’(auto)annientamento. In scena, Petri, mette solo il mondo del potere democristiano: lo spazio politico in Italia è occupato dalla DC, tutto il resto è relegato nel fuori campo.

Quella del Potere – di trent’anni di potere ininterrotto – è una strada deviata, come lo stesso “Presidente” ricorda a Giacinta: «Peccato deriva da pecus, difetto del piede», che porta a zoppicare e ad allontanarsi dal proprio cammino. Detour reso iconograficamente nella sequenza del rosario dove alcuni cadono, altri incespicando perdono l’allineamento geometrico, altri ancora si feriscono i piedi, “Il Presidente” si ferma per massaggiare i suoi doloranti, infine qualcuno stramazza al suolo, stecchito. È l’inferno del peccato degli uomini di potere, così lucidamente descritto dal regista nelle risposte a un questionario inedito sottopostogli, nell’agosto del 1976, da Jean Gili:

Si può dire che un democristiano è un prete refoulé, ed un prete è un deputato democristiano refoulé. Essi vivono in un abbraccio che assomiglia sempre più a un rictus, a un’imperfezione psicomotoria, a una sorta di siamismo, e sono legati al medesimo destino. La tipologia trentennale del gruppo dirigente democristiano – ch’è ormai quella della commedia dell’arte – rimanda a personaggi tartufeschi, striscianti, topi di sacrestia, untuosi, dall’incedere femmineo, dall’eloquio faticoso e incomprensibile. Sono clercs manqués, come i nazisti erano artistes manqués… Moro è mellifluo, è follemente ambizioso, ma si costringe a un abito di esacerbata modestia. Usa un linguaggio da uomo “colto” dietro cui nasconde la povertà del pensiero, che cerca di debellare per “progressista”, poiché in questo consiste la funzione che si è data. Ma da un’analisi della sua azione si deduce un pensiero politico che risponde pienamente alla regola paolina: “Ciascuno rimanga nella condizione in cui si trova quando fu chiamato”. Egli, infatti, opera perché nulla muti, ma volendo dare a tutti l’idea di un continuo mutamento.

Todo modo è aperto da un complesso e ampio movimento di macchina a spirale (figura che ritorna più volte all’interno del film) a stringere simbolicamente il “Presidente” in una morsa, per chiudersi sul rosario che sta impugnando. Il film ‒ efficacissimo nel tratteggiare la caricatura figurativa e verbale d’un uomo che, nel suo essere presidente della DC, sintetizza trent’anni di malgoverno ‒ è spesso inafferrabile sul piano dell’orchestrazione narrativa: confluiscono motivi e temi disugualmente sviluppati, uniti al forte impegno spettacolare (l’uso pervasivo e inconsueto del dolly), votato a una rappresentazione metafisica dell’immagine secondo la poetica di Giorgio De Chirico. Le statue bianche che occupano gli angoli e le pareti del bunker risaltano sul nero pece della Storia: sono l’archetipo dell’individuo consapevole, mentre gli esseri umani – qui incarnati dai notabili nell’esercizio del potere – hanno perso la loro umanità e sono diventati niente più che dei manichini18. Petri li trasforma in eroi negativi (in antitesi all’accezione dechirichiana) e li immerge in un limbo senza fine: un inferno metaforico e reale, in cui la politica è sogno, desiderio, interesse personale e mai rivelazione, concretezza e compiutezza – come palesa la confessione del “Presidente”. Di fronte alle domande di don Gaetano, egli infatti ammette:

Sogno, ho avuto un incontro con l’ambasciatore olandese vero… Ho sognato, sogno… Così… Ad occhi aperti. Desideri di stupro anche… Passivo, capisci? Atti, nessuno, come in politica, sogno di prendere delle decisioni: la riforma sanitaria, medicine gratis per tutti, e allora tu sai quanto mi sta a cuore questa riforma vero… Ma non riesco a vararla. Do il via alle operazioni… E poi mi ritiro. È come un’erezione mancata capisci? E allora che fare in questa immobilità?

La commistione sesso-politica-religione è un leitmotiv che attraversa tutto il film e rappresenta l’altro lato dell’essere democristiani, moralizzatori, bigotti e censori. La recitazione con Giacinta della preghiera sospirata che assomiglia a un amplesso (sempre interrotto), l’osservarsi nudo del “Presidente”, l’invito a Voltrano (Ciccio Ingrassia, glabro e con gli occhi infossati) di censurarsi, i frammenti di film pornografici (o le scene tagliate in commissione censura?) offerte come un cadeau da quest’ultimo allo stesso “Presidente” sono frammenti di follia visionaria immersi nel silenzio che domina la scena, fissata e cristallizzata in una dimensione senza tempo.

Todo modo è un kammerspiel su cui incombe il senso di un destino ineluttabile e avverso che condanna i personaggi a un’esistenza di infelicità e disperazione, senza possibilità di riscatto. Ne deriva un film che comunica una sensazione di perturbante inquietudine e cupa mestizia, attraversato da un’angoscia espressionista che – mediante l’uso metaforico degli oggetti e l’accentuazione dei contrasti chiaroscurali – restituisce una visione del mondo politico italiano (di ieri e di oggi) dolente e tenebrosa.

di Fabrizio Fogliato ©

Per saperne di più clicca su:

Scrivi un commento