In PAOLO CAVARA.GLI OCCHI CHE RACCONTANO IL MONDO di Fabrizio Fogliato [Seconda Edizione]
[…] La trasfigurazione del personaggio principale in archetipo (decisamente ambiguo – vista la sua natura soggettiva e autobiografica), la rarefazione dei dialoghi così come l’utilizzo del silenzio ne L’occhio selvaggio, fanno parte di una precisa “strategia dell’aggressione” che Paolo Cavara mette in scena senza né esitazioni né ripensamenti, ma anzi, spingendo l’azione e il suo protagonista oltre la soglia del dolore.
Nel mettere in scena il potere del regista Paolo Cavara si allinea al diritto di ogni cineasta di esercitare un’azione pericolosa nei confronti del “suo” pubblico [1]. Ne L’occhio selvaggio questo avviene prima in maniera secca e brutale con la prima sequenza nel deserto e poi in modo più graduale e insinuante con un continuo stimolo – attraverso il rapporto tra i personaggi – nei confronti di uno spettatore ancora vergine nei confronti degli eccessi della visione. Accade così che il ruolo del regista, Paolo, sia anche quello di essere una guida all’interno della mistificazione per svelarne i meccanismi e rilanciarne il paradosso secondo cui ad un eccesso di falsità non può che corrispondere una (perchè soggettiva) verità. La macchina da presa diventa così mero strumento riproduttivo in grado di catturare il preesistente che, a sua volta, è già stato manipolato e piegato alle esigenze del demiurgo. Inevitabile, quindi, che la parola ne L’occhio selvaggio abbia un ruolo marginale anche perché i personaggi incompiuti presenti nel film non hanno né la cultura, né la personalità per poter opporre l’arma del dialogo a quella dell’immagine. Ne è testimonianza il rapporto esclusivamente strumentale e funzionale tra Paolo e Barbara: ampiamente sbilanciato dal punto di vista dei ruoli e declinato su una dinamica padrone/serva di stampo coloniale. Anche in questo il regista Cavara denota tutto il suo interesse nel fare, del film in questione, una sorta di esercizio programmatico sui tempi dell’aggressione. […]
[Estratto dal saggio ICONOGRAFIA, TEMI E STRUTTURA DELL’AGGRESSIONE NE “L’OCCHIO SELVAGGIO” di Fabrizio Fogliato]
[1] Scrive, infatti, Noël Burch: “Ora ci sembra che sorpresa e fastidio quali noi li prendiamo in considerazione, sono due modi tra i più moderati con cui l’immagine cinematografica può aggredire la sensibilità dello spettatore, e che essi aprano la via, per così dire, a tutta una gamma di aggressioni, di intensità crescente e di natura molto varia, in cui il cineasta è in grado (e ha il diritto) di dedicarsi nei confronti di quel che in inglese è chiamato captive audience”. Noël Burch, Prassi del cinema, Il Castoro, Milano, 2000, pag. 117
Per saperne di più
PAOLO CAVARA. GLI OCCHI CHE RACCONTANO IL MONDO [Seconda Edizione]
di Fabrizio Fogliato
Brossura – 360 p. – € 18.00
Edizioni Il Foglio Letterario