L’elegia di una generazione disorientata, divisa tra violenza e sentimento, nella prima regia di Brunello Rondi
Le passeggiate di Tommaso non sono altro che dei lunghi monologhi figurativi in cui ogni azione è una proiezione psicologica della sua indole e del suo pensiero. Bolognini filma con il carrello – nello stesso modo con cui mostra l’irruenza e le corse sulla spiaggia libera del Saro – le lunghe passeggiate di Agostino lungo la spiaggia “protetta” dell’albergo, liberando il conflitto interiore che anima il bambino “orfano” (perché la donna ha un flirt con il giovane e aitante Renzo) della madre. La realtà di Una vita violenta si nutre di verginità attraverso il rapporto personaggio-ambiente che diventa via via più dissonante: la profonda umanità di Tommaso appare sommersa dal degrado, dai mucchi di spazzatura, dalla solitudine delle periferie urbane ricondotte a motivo scatenante di una violenza tanto primitiva quanto immotivata. Allo stesso modo, Agostino, apprende con violenza la verità sui rapporti umani e sessuali; conoscenza che matura in un luogo desolato e perduto all’interno della laguna veneziana, un’isola sporca, fatiscente e infestata dalle erbacce, metafora del degrado e della promiscuità che scatenano in lui turbamenti e malesseri.
Consapevolezza che risulta ancor più violenta e volgare poiché giunge attraverso lo sguardo – come dimostra la messa in scena brutale e grottesca dell’amplesso mimato da Tripoli e Roma che Agostino osserva con un misto di attrazione e repulsione. La sessualità, in Una vita violenta, segue due assi perpendicolaridestinati ad incrociarsi: quello verticale dello stupro e quello orizzontale dell’innamoramento. La relazione sentimentale serve a Rondi da elemento narrativo necessario a modulare i diversi registri narrativi, malinconici ed esistenziali, che si sviluppano nella seconda parte del film; nella violenza carnale si concentrano gli umori più trasgressivi e virulenti della pellicola – come dimostra il suo inserirsi, da quadro astratto, nella lunga sequenza iniziale della nottata balorda. Questo segmento di Una vita violenta, è costruito su una sinergia tra molteplici sfaccettature ed appare molto più complesso di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. Questo perché, l’obiettivo di Brunello Rondi, è quello di raccontare uno stato d’animo di profondo malessere e di avvilimento verso una realtà quotidiana in cui i ragazzi stessi si sentono a disagio e fuori luogo.
Emarginati da una città centripeta, Roma, che ormai circonda solo di gloria gli attori del cinema e che ha definitivamente abdicato alla sua origine mitica per asservirsi al malaffare, ai lustrini e al nepotismo, come ben evidenzia il monologo di Tommaso posto in chiosa alla sequenza: “Te saluto gloria di Roma. A città eterna…sei finita! Adesso er pane te lo compri ‘ndove te pare, però te lo devi scavà co’ l’unghia, dentro sta città de sozzi e d’assassini. Perchè nun sloggi, perchè nun ritorni ar Lungo Tevere a fa la vita… A Roma, passame l’attrici, passame l’attrici tua che je vojo di ‘na cosa all’orecchia, ma quale orecchia…in fronte!, je vojo dì… tre palle in fronte pe’ l’attrici…” I molteplici elementi della “notte brava” sono la violenza, la notte, le luci, il silenzio, tutti trattenuti dalle architetture razionaliste e futuribili dell’EUR e la lunga striscia di asfalto di Viale Oceano Atlantico. La sequenza diventa incontro di rette incrociate in cui le azioni sembrano perdere il rapporto di significato con il soggetto. Il rapporto relazionale ha smarrito i punti di riferimento e anche la narrazione filmica si slabbra, si sottrae alla coerenza e alla ragione, per spingersi alla ricerca dell’azzardo attraverso la frantumazione della continuità filmica. L’operazione attuata da Brunello Rondi condensa in una notte di violenza l’agire quotidiano dei protagonisti i quali – come per seguire un impulso irrefrenabile – decidono di “partire all’avventura”. La rabbia repressa che passa lungo le direttrici luminose della strada notturna e sperduta deve essere sfogata su una ricca francese (filmata come un fantasma, attraverso la concentrazione della luce sul suo vestito e le angolature “sghembe” della m.d.p.) o su un benzinaio (descritto come una vittima e come un derelitto non dissimile dai suoi rapinatori).
Non ha importanza chi sia Il soggetto della violenza perché quello che conta è recuperare più soldi possibili e tornare a casa stanchi e sfiniti dopo aver espulso tutto il rancore verso il mondo. Un mondo moderno inadatto all’esistenza di “angeli di borgata” che camminano sempre lungo le strade o nei prati con le scarpe rotte o a piedi scalzi; inurbati forzatamente che quando tentano di correre incontro alla modernità (il tram) vengono travolti e mutilati come succede a Lello. Che la modernità sia foriera di sventura e tragedia se ne ha ulteriore testimonianza in due momenti precisi del film: il luogo in cui avviene l’accoltellamento che condanna Tommaso al carcere ha sullo sfondo un ponte ferroviario e il delitto è anticipato proprio dal passaggio del treno; il primo colpo di tosse che annuncia a Tommaso la tubercolosi è “cancellato” dal fragore del passaggio di un aereo nel cielo sopra di lui. In Una vita violenta, inoltre, la modernità inibisce e impedisce l’attività sessuale, visto che Tommaso prima non riesce a riconciliarsi con Irene al termine della serenata e poi, sul prato, non riesce a concludere con lei a causa del sopraggiungere della malattia. Come per l’Agostino di Bolognini, anche per Tommaso e gli altri giovani del film il sesso sembra essere solo un miraggio, un elemento represso dalla rabbia accumulata. Lo tesso Lello, infatti, quando viene travolto dal tram è appena rimasto affascinato dal manifesto cinematografico di Pesci d’oro e bikini d’argento (1961) di Carlo Veo, in cui sono sintetizzati, sin dal titolo, sesso e ricchezza, e non è difficile pensare che la fascinazione del cinema diventi annebbiamento della vista, e porti alla mutilazione di Lello che, non a caso, a distanza da qual miraggio di sesso e ricchezza, si ritrova tempo dopo a mendicare in Via Veneto (che di quegli aspetti ne è il ricettacolo) proprio davanti all’ingresso di un cinema. Tommaso, invece, sfoga su Irene la sua paura (della malattia) e frustrazione, e, ingenuamente, vede nella donna una – forse l’unica – possibile via di fuga dalla sua realtà di miseria e rabbia.
Il suo sentimento verso di lei è puro e sincero; ma è come se il giovane non riuscisse a manifestarlo se non attraverso il rancore e la gelosia (che in realtà mascherano la sua paura della morte). Quello di Una vita violenta è un mondo in cui l’amore (per Irene) porta con sé la morte (provocata dall’impulsività selvaggia di Tommaso) come racconta la sequenza della serenata; ma è anche un mondo in cui l’umanità, endemica e gratuita, di Tommaso si esprime attraverso il sacrificio. Egli, dopo essere stato dimesso dal sanatorio ed essere guarito dalla TBC – per salvare una donna (una prostituta) rimasta bloccata sul tetto della sua baracca – non esita a buttarsi nelle acque gelide e fangose dell’Aniene che hanno travolto Pietralata. Lo stile asciutto e “grezzo” della regia di Una vita violenta, diseguale rispetto all’armonia e alla raffinatezza di quella di Agostino, conferisce al film un forte impianto realistico che Rondi, abilmente, contamina con il sogno – come a voler sottolineare, attraverso tre momenti precisi, la predestinazione alla sconfitta di Tommaso. Il sogno si manifesta durante la “notte brava” attraverso la fantasmaticità della francese e attraverso le linee di luce che scandiscono la sequenza. Al sogno si fa esplicito riferimento durante il furto alla prostituta – preceduta dalla camminata di Tommaso ad occhi chiusi – che rappresenta il preambolo alla sua condanna in seguito ai fatti della notte della serenata. Dal sogno, emerge, l’ospedale (il Buon Pastore a Casaletto (RM)) che – sin dall’architettura del luogo – rimanda ad un incubo metafisico. Tre passaggi cruciali nell’esistenza di Puzzilli, tre confronti con il Male: nei primi due casi è esercitato attraverso il peccato ed espiato mediante la successiva condanna; nel terzo, invece, è quasi una sorta di purgatorio per lavare ogni colpa prima di compiere l’atto di genuina e gratuita generosità che lo condurrà alla morte. Non è dunque casuale che il medico che licenzia Tommaso – al termine della degenza al sanatorio – sia interpretato dallo stesso Brunello Rondi perché si tratta, per il regista, sia di un vero e proprio commiato dal “proprio” personaggio (per intraprendere un percorso registico ben più personale, complesso e contraddittorio), sia, per il giovane, del momento della sua “conversione” (operata attraverso l’istanza narrante “imposta” dal regista).
Egli, da questo momento, è pronto ad affrontare una, seppur breve, “nuova vita” ed è consapevole, finalmente, tanto della sua condizione quanto della sua purezza. Una vita, però, destinata a non trovare mai uno stato di tranquillità, anche perché vissuta in una città tripartita in cui convivono – forzatamente e distonicamente – il passato glorioso, la modernità spersonalizzante e l’arcaicità pauperistica. Proprio utilizzando gli spazi, Brunello Rondi esprime, attraverso la sua regia, il senso di inadeguatezza di Tommaso verso questo mondo moderno (come nella scena in cui egli guarda i ragazzi dell’oratorio da dietro una grata) che, progressivamente, fagocita i terreni attorno alla capitale – i quali si popolano di cantieri (cronotopo del boom economico) – mentre i quartieri si sviluppano per monoblocchi architettonici, asettici e impersonali, in mezzo a macerie e spazzatura in cui resistono freaks e barboni in cerca di cibo pronti a diventare il bersaglio della violenza primitiva, della derisione e del disprezzo di questi “angeli ribelli”.
Brunello Rondi racconta le speranze disilluse della giovane e ingenua (ma pura) Irene quando, in Via Nazionale, di fronte alle vetrine e al benessere, risponde alla richiesta di matrimonio di Tommaso con queste parole: “E che ne puoi sapè che pure noi, un giorno, con un po’ de bona volontà, avremo fortuna e potemo fa’ a figura nostra”. Nel momento in cui Irene pronuncia queste parole si ha la consapevolezza che sia lei stessa la prima a non crederci e che esse siano destinate a rimanere tali, anche perché la felicità appare, sin da subito, subordinata al tesseramento di partito (in questo caso la D.C.) che garantisce la benevolenza e l’attenzione del prete. La presa di coscienza politica di Tommaso – perno del romanzo di Pasolini – nel film di Rondi rimane sempre sullo sfondo della vicenda, per mettere al centro ed evidenziare quell’aspetto psicologico e introspettivo che caratterizza tutto il cinema (da regista) del suo autore. Quella di Rondi è una vocazione al racconto non lineare e sfaccettato delle problematiche esistenziali e a mettere al centro sempre l’individuo e la sua emarginazione (quasi con un’evidente intento di esorcizzare qualcosa di personale) senza mai rinunciare a quell’aspetto poetico ed elegiaco che gli appartiene profondamente e che in Una vita violenta è sintetizzato in modo sublime nell’ultima sequenza, che si chiude sul primo piano – sofferente e morente di Tommaso che rivolge agli amici prima di andarsene una supplica straziante, quasi una preghiera: “Ditemi armeno…addio Tomà”.
di Fabrizio Fogliato ©
UNA VITA VIOLENTA (1962)
Regia/Director: Paolo Heusch, Brunello Rondi
Soggetto/Subject: Romanzo omonimo di Pier Paolo Pasolini
Sceneggiatura/Screenplay: Paolo Heusch, Brunello Rondi, Franco Solinas
Interpreti/Actors: Franco Citti (Tommaso), Serena Vergano (Irene), Enrico Maria Salerno (Bernardini), Angelo Maria Santiamantini (Lello), Alfredo Leggi (Cagone), Benito Poliani (Zucabbo), Piero Morgia (Cazzatini), Giorgio Sant’Angelo (Carletto), Paola Petrini (suora), Enrico Salvatore (operaio ospedale), Titta Storff, Micaela Dazzi, Bruno Cattaneo
Fotografia/Photography: Armando Nannuzzi
Musica/Music: Piero Piccioni
Costumi/Costume Design: Danilo Donati
Scene/Scene Design: Luigi Scaccianoce
Montaggio/Editing: Nella Nannuzzi
Suono/Sound: Nino Renda
Produzione/Production: Zebra Film, Aera Film, Paris
Distribuzione/Distribution: Variety Film
Censura: 37061 del 20-03-1962