Quando Emanuelle ruppe lo specchio: la vertigine della visione
Se in Emanuelle e Françoise, le sorelline, il maschio è incatenato ad un palo nel ruolo di sterile spettatore, in Emanuelle in America, gira il mondo con un collare dorato e numerato, trainato come un cagnolino al guinzaglio di facoltose borghesi. La sua unica funzione è quella di strumento di piacere a pagamento, il macho è ridicolizzato in decadenti pantomime (come quella in cui è travestito da Zorro) necessaria al soddisfacimento di un piacere geriatrico (espresso al meglio nella sua disfunzionalità, dagli inserti hard-core). Il secondo binario, su cui si muove il film, oltre ad essere ben più interessante, è anche significativo di un percorso, giunto sul limite del punto terminale, operato dal cinema “bis” (ma anche da quello d’autore) degli anni ’70, al fine di scardinare i meccanismi censori e di abbattere tutte le barriere del mostrabile. In questo, Emanuelle in America diventa una sorta di film-manifesto e il suo regista un demiurgo capace di cogliere l’attimo, intuire il cambiamento irreversibile dello sguardo e affondare la scrittura cinematografica nella palude dell’estremo senza né infingimenti né ipocrisie.
Emanuelle in America riflette (involontariamente?) sul “pericolo della visione”, entrando in territori-limite come quelli della zoofilia, dell’hard-core e dello snuff-movie. Se il sesso esplicito è prerogativa delle versioni del film per il mercato estero (secondo consuetudine dell’epoca), la zoofilia è rappresentata come desiderio inconfessabile della donna, in cui la bestia, (qui un cavallo derivativo da La Bete (La bestia, 1975) di Walerian Borowczyk), diventa surrogato del maschio in una rappresentazione teatrale (costruzione della scena) in cui il centro del “palco” è occupato dalla donna nuda che accarezza il membro eretto dell’animale, mentre un pubblico di curiose la spia da dietro i vetri della stalla: vediamo i volti di queste donne, appartenenti all’harem di Erik Van Derren, agitarsi sensualmente e sorridere ammiccanti. Il richiamo all’ eccesso come motore pubblicitario, è ben esemplificato dal manifesto del film, su cui campeggia tra le altre, la scritta “l’amore sentimentale e sessuale nato tra una donna ed un cavallo”, rimandando la curiosità dello spettatore ai “toccamenti”, tra Maria Renata Franco e il cavallo Pedro, presenti nel film di Joe D’Amato. Seppur inserita in un’atmosfera goliardica e sessualmente libera, la sequenza contiene in sé qualcosa di morboso e indefinibile evocato anche dall’utilizzo “anomalo” del sonoro, che per la prima e unica volta nel film utilizza suoni ambientali e amplifica l’ansimare della donna man mano che si avvicina alla bestia, escludendo le “spettatrici” fuori dai vetri dall’eccitamento. Il tutto evocato anche dalla regia insinuante di Joe D’Amato, che sembra guidare lo spettatore alla scoperta del “proibito”, visto che la sequenza di zoofilia, funge da preambolo ad un susseguirsi ininterrotto di rapporti sessuali “anomali”: orge, triangoli, amplessi saffici, coiti interraziali…, accomunati da uno strano senso di tristezza e desolazione (nonostante i colori lussureggianti della fotografia e dei costumi e l’atmosfera giocosa del film). Di fronte alla sequenza zoofila si avverte una sensazione di pericolo, che rimane lungo tutta la visione del film: è come se il cervello, dello spettatore agisse separatamente dal suo occhio, respingendo al mittente stimoli e sensazioni perverse, e al contempo, fosse desideroso e smanioso di oltrepassare il limite del consentito, affascinato dalla devianza e dalla parafilia, conscio del rischio di sprofondare in un “inferno” sconosciuto.
Cosa che puntualmente avviene nel finale del film, con la visione e la messa in scena di uno snuff-movie, le cui torture e sevizie non hanno nulla da invidiare (per raccapriccio e costruzione filmica) al campionario di efferatezze del Salò di Pier Paolo Pasolini. La ricostruzione del filmino in Super 8, risulta credibile e straniante e, nel breve filmato, mostra militari-mercenari che stuprano e torturano a morte alcune prigioniere. La scena, tra l’altro, ebbe anche una coda giudiziaria, visto che un attrice, a cui venne filmata l’amputazione di un seno, denunciò la produzione per averle procurato un trauma emotivo dopo essersi (ri)vista sullo schermo. Ma ciò che più colpisce e che lascia il segno, oltre alla perfezione dell’artificio cinematografico, è l’irrisoria superficialità con cui l’orrore più viscerale entra in scena attraverso il “mostruoso” al termine di un film erotico e “innocuo”. La “politica” della contaminazione impostata da Aristide Massaccesi, trova in Emanuelle in America, il suo punto più alto, visto che il discorso del regista, con l’avanzare del film si fa via via più teorico, e rientra appieno in quel discorso sul “pericolo della visione” di cui detto in precedenza. Roberto Curti, abilmente, delinea il contesto “teorico” e programmatico di Emanuelle in America e traccia le coordinate di questo meccanismo: In una scena la fotografa Laura Gemser spia una donna che si masturba davanti alle immagini, assai più brutali di quelle di Shackleton e Co., di uno snuff: il rapporto triangolare carnefice/vittima/spettatore si trasforma qui in una paradigmatica – e paradossale – catena voyeuristica in cui il rimpallo realtà-finzione ha del vertiginoso, e che sancisce la relazione causa-effetto tra messa in scena della morte ed eccitazione erotica. Massaccesi affronta la materia con pragmatica noncuranza: tutto viene dato per scontato – che la gente goda a vedere morire altra gente, che vi sia un florido mercato clandestino per tutto ciò, che questi piaceri proibiti vengano pagati fior fior di quattrini. Ed è precisamente la sproporzione tra il peso specifico degli argomenti messi in campo e la maniera in cui vengono trattati, a colpire nel segno e a turbare (Roberto Curti, Tommaso La Selva, Sex and Violence- percorsi nel cinema estremo (nuova edizione), Lindau, Torino, 2007, pag. 459/460).
Non si tratta quindi, solo della volontà di shockare un pubblico impreparato e immaturo, bensì di una vera e propria dichiarazione “teorica”, in cui al “piacere della visione”, corrisponde inevitabilmente un “orrore della visione”. In Emanuelle in America, non c’è differenza, infatti, tra un’orgia in una villa sul Canal Grande a Venezia (con tanto di dettagli hard-core), una scena di zooerastia e uno snuff-movie, né per i personaggi del film, né per gli spettatori: tutto è parte integrante e complementare di un pericolo “dello sguardo” latente e onnipresente, talmente profondo e permeato nei fotogrammi del film che il finale ridanciano in un villaggio africano, non riesce a cancellare dalla mente dello spettatore quella scheggia di “orrore reale” intravista sul finire del film. E’ come se tutta la pellicola non fosse niente altro che un lungo viaggio allucinato ai confini della visione, con l’intento dichiarato di giungere lì, allo snuff-movie, cioè alla “morte in diretta”, colpevolizzando lo spettatore (ignaro) che diventa complice dell’orrore attraverso il suo eccitamento. Involontariamente (ma è davvero così?), Aristide Massaccesi mette dunque in scena la mostruosità del maschio, intento a dilaniare la donna con una furia e una violenza aberrante senza precedenti, e, complice lo spettatore, trasforma il tutto in una una allucinante vendetta: il maschio, sconfitto e umiliato da una donna emancipata sempre più padrona del proprio cervello e del proprio corpo, compie il gesto terminale. Una vendetta dal sapore acre e malsano, in cui il maschio defraudato della propria virilità e identità, ricolmo di rabbia e frustrazione, si trasforma in “bestia” cancellando la propria umanità per rincorrere il proprio ruolo, convinto che destrutturando la carne del corpo femminile possa riappropriarsi dell’anima della donna ed uscire vincitore dalla “guerra tra i sessi”.
Non sarà così (come illustra il cinema popolare 1975-1980), neanche il gesto più estremo restituisce al maschio/macho il suo fascino, ed egli sarà costretto ad errare per il mondo a ricercare se stesso tra razzismo, violenza e disperazione, in quei paesi in cui crede ancora di essere “superiore” e in cui la naturalezza sessuale sembra evocare un agognato (ma improbabile) “ paradiso”. Il terreno di questa nuova sfida è quello del terzo mondo sottosviluppato, dove la nudità femminile (ma anche maschile), non solo è consentita ma funge da tramite per la liberalizzazione dei costumi in generale, e attraverso la diffusione, razzista e popolare, del nudo delle “negre” contribuisce all’abbattimento (fittizio) dei tabù sessuali. Lo spettatore italiano si ritrova di fronte ad un immaginario esotico-erotico dove tutto è concesso fino al limite della follia e in cui la magia, il voodoo e il sesso si mischiano tra di loro dando un’immagine selvaggia e distaccata (perciò ipocritamente fruibile) di quelle popolazioni. È un’azione catartica per un “maschio” ben disposto verso il turismo sessuale, munito dell’alibi del nudo “naturale e selvaggio” che ritrova, in quella dimensione, la sua virilità e il suo potere e che rompe definitivamente il tabù (cattolico) della sessualità esibita.
La realtà è, pero, un’altra, perché il “maschio” italiano trascina con sé paure, tabù e violenza e solo illusoriamente e per breve tempo riesce a ritrovare se stesso. Il cinema sexpolitation del periodo lo dimostra ampiamente attraverso l’opera di Joe D’Amato: Papaya dei Caraibi (1978) si apre con un’evirazione a morsi, Sesso nero (1979, il primo porno italiano ad essere distribuito sul territorio nazionale), presenta un protagonista con un tumore alla prostata, Porno Holocaust (1980) annulla il “maschio” ed erge a protagonista un mostro con un membro gigantesco che squarcia le proprie vittime, e infine Le notti erotiche dei morti viventi (1980) presenta un “maschio-zombie” che non ha più niente di umano e che agisce (si fa per dire) in un’atmosfera mortifera e pestilenziale. Il protagonista di quest’ultimo film è ancora una volta un borghese, che crede di poter comprare tutto e tutti con i soldi. Emblematica la scena dove l’architetto offre al vecchio indigeno dei soldi per abbandonare l’isola che è destinata a diventare un lussuoso complesso turistico, e si sente rispondere: “Sodi? E che ne farei…”. Nel film di D’Amato emerge prepotente il contrasto tra il mondo occidentale, ricco e presuntuoso, e quello primordiale, affamato e umile: nel primo il piacere è dato dal consumo reiterato e a pagamento del sesso (tutta la prima parte del film è infarcita di sequenze hard), mentre per il secondo il piacere si manifesta attraverso il consumo dei pasti antropofagici a base di “uomo bianco” (la seconda parte del film, folle e splatter). In questo “paradiso” per il “maschio” non c’è catarsi, ma solo la condanna del suo peccato: destinato a consumare sesso in maniera compulsiva (e senza piacere né orgasmo) tra le fredde pareti di un ospedale psichiatrico.
di Fabrizio Fogliato