Il gioco comincia con una scommessa: le vittime designate non rimarranno in vita più di dodici ore.
Funny Games si alimenta dell’indeterminatezza e dell’imprevedibilità del gioco. Quando si inizia a giocare non si sa né quali saranno gli sviluppi futuri né quando il gioco terminerà. Ci sono delle regole, si seguono quelle e si vede che cosa succede. Funny Games costruisce delle sue regole personali che – per quanto assurde possano sembrare – sono in realtà molto tangibili e concrete. La tensione e la crudeltà presenti nel film sono talmente particolari che non svelano mai il carattere teorico e di rappresentazione di ciò che è mostrato.
Il gioco comincia con una scommessa come quelle che si vedono in certi spettacoli televisivi del sabato sera: le vittime designate non rimarranno in vita più di dodici ore. L’aspetto ludico della situazione stride con l’azione estrema cui sono sottoposte le vittime di Peter e Paul. La domanda che Haneke ci pone è la seguente: esiste un comportamento “giusto” e “logico” per reagire a tale situazione? Se partiamo dal presupposto che tutta la vicenda ha origine da una semplice richiesta di uova (che ovviamente è puro pretesto), dobbiamo prendere atto che le regole con cui si comporta la famiglia borghese sono in netto contrasto e in antitesi con quelle dettate da Peter e Paul.
Il mondo piccolo borghese conosce queste situazioni di aggressione e violenza solo tramite la finzione cinematografica e la riproduzione televisiva. È per questo che Georg non riesce a credere a quello che succede davanti ai suoi occhi. Lui, come anche Anna, hanno assolutamente bisogno di avere una spiegazione per quello che sta succedendo. L’irrazionale non è minimamente contemplato dalla loro mentalità e – quando Paul snocciola in maniera irridente una serie di situazioni di degrado e di violenza subita per giustificare il comportamento suo e di Peter – Georg e Anna sono ancora più spiazzati. Si guardano sorridendo e con la convinzione di essere protagonisti di un incubo che prima o poi finirà. Allo stesso modo lo spettatore è violentato dalla situazione estrema che si trova di fronte: è come se si trovasse protagonista inatteso di un reality show sadico e delirante. Disturbato da un atteggiamento di attrazione/repulsione, anche lo spettatore è convinto di trovarsi di fronte ad una situazione che prima o poi si risolverà nel migliore dei modi.
Michael Haneke invece destruttura ogni regola che nella consuetudine costituisce il principio di azione-reazione e riflette sull’atteggiamento ormai passivo nei confronti delle immagini violente e stigmatizza l’invadenza e la spettacolarizzazione della violenza da parte dei media.
Chi subisce passivamente la programmazione televisiva media, assiste sui più diversi canali a un centinaio di omicidi, quasi tutti derivanti da una mentalità maschile distorta. A questo si aggiunge la celebrazione della violenza in innumerevoli video e e videogiochi per bambini.[i]
La violenza ormai documenta situazioni abnormi che sono diventate “normali”. Non crea nulla, non solleva problemi, non stimola la mente ma, al contrario, stabilizza uno status-quo di torpore e assuefazione. La provocazione di Michael Haneke si manifesta attraverso il dialogo tra Paul e lo spettatore. Questi interrogando chi dall’altra parte dello schermo è sicuro e seduto nella sua poltrona infrange la regola secondo cui lo spettatore “mette alla prova” le sue emozioni e sperimenta le proprie paure rassicurato dal fatto di trovarsi di fronte ad un contesto di pura finzione.
[CONTINUA]
di Fabrizio Fogliato
[i] Rüdiger Dahlke, op. cit., p. 81