I LIBRI DI INLAND #6
Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano
di Fabrizio Fogliato con prefazione di Romolo Guerrieri
Bietti Edizioni, 2022
Introduzione – Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano
L’itinerario, da definizione, è il percorso che si segue o s’intende seguire in un viaggio, in una spedizione comprendente per lo più un certo numero di tappe. Questo libro è come un viaggio in cui confluiscono circa quindici anni di ricerca e di studio multidisciplinare che, progressivamente, hanno trovato la strada per farsi itinerario. Come nella migliore delle avventure, le tappe sono state vere e proprie variabili impreviste.
A guidare il circolo ermeneutico su documenti cartacei e visivi c’è il pensiero di Arthur Schopenhauer, in particolare gli spunti provenienti dal suo Il mondo come volontà e rappresentazione, declinato nella sua accezione più pregnante: la realtà immaginaria della rappresentazione non coincide mai con la realtà autentica della volontà. La volontà trasforma l’individuo in strumento mediante la spinta unitaria, potente e irrazionale presente in ogni essere umano, il quale, per affermarsi, deve prevaricare il prossimo che, a sua volta, è privato della possibilità di affermazione. Tale conflitto è insanabile e oscillante tra il dolore e la noia: il primo è la tensione della volontà necessaria al raggiungimento dell’appagamento; la seconda, l’insoddisfazione subentrante all’appagamento. Schopenhauer applica questo paradigma anche alla società e alla Storia: non esiste il progresso, ma soltanto l’eterna reiterazione della prevaricazione primordiale e reciproca. Si viene così a creare una società in cui l’affermazione dell’individualità determina le condizioni di violenza, dolore e sopraffazione.
I principi di Schopenhauer sono stati sovrapposti alla concezione di “Paese mancato” dello storico Guido Crainz. Dal Secondo dopoguerra fino agli anni Ottanta – mediante un processo storico tumultuoso in cui non c’è stata alcuna corrispondenza tra cambiamenti sperati, auspicati ed effettivamente attuati – in Italia si è assistito alla fine delle illusioni e delle ambizioni di trasformazione sociale. Gli anni Settanta sono un “decennio mancato” – incastonato tra un prima causale e un dopo di riflusso – all’interno di un processo di secolarizzazione che sfocia in un conclamato individualismo e nella torsione particolare della violenza come atteggiamento quotidiano, stile di vita, unique selling proposition.
Il cinema del periodo dà visibilità e cittadinanza a tutto ciò che è negativo e lascia nel fuori campo le riforme di più grande portata: divorzio, aborto, legge Basaglia, Statuto dei lavoratori, Servizio sanitario nazionale, voto ai diciottenni, liberalizzazione dell’accesso all’università, ordinamento regionale. Nell’immaginario filmico, la Storia italiana è declinata sul versante criminale che attraversa trasversalmente generi e autori, film popolari e film problematici, rendendo necessaria un’interpretazione psicologica della società per potere comprendere il contenuto filmico e viceversa.
Il cinema è un dispositivo di registrazione – eventi, comportamenti, oggetti – che, esaltando la componente visiva dei fatti narrati, permette l’emersione della dimensione socio-psicologica; in essa confluiscono i contenuti manifesti e latenti della realtà. Il rapporto cinema/realtà origina tre approcci distinti: la trasparenza (perché è assente il filtro dell’opacità) con cui l’opera riflette l’epoca di realizzazione; il rispecchiamento dell’ideologia sociale; lo straniamento con cui la pellicola evidenzia attraverso il dettaglio. Seguendo questi principi si deduce come il cinema popolare, o di genere, sia il più adatto a introiettare (nonché travisare) la realtà. Nel cinema la scena storica è un agente modificatore che, attraverso il dispositivo psicologico, connette l’individuo e la collettività di cui intercetta l’inosservato, il ricorrente. Il cinema criminale – la cui prospettiva è l’inconscio di una società – consente libero accesso al subconscio della realtà, dà visibilità alla Storia mediata dal filtro della rappresentazione e rilegge – talvolta anticipandoli, talvolta inseguendoli – modelli storici e comportamentali. Come spiegano le teorie del cinema, i film sono sintomatici di precisi stati mentali occulti prevalenti nella società. Ne consegue che la settima arte trasfigura moventi e paure endemiche alla società e le ripropone – mediante la percezione cinematografica – in termini di spettacolo (rappresentazione del reale e della Storia). Protagonista pressoché assoluto del cinema criminale è il ceto medio – sia in forma implicita, che esplicita – attraverso l’asincronia tra forme di autorappresentazione delle paure percepite e l’ideologizzazione delle vere condizioni di vita. Tale discrepanza genera la violenza come forma di aggressione e difesa semplicistica, immediata e paritaria (con i criminali), nonché prevaricatrice nei confronti della ragione, ritenuta solo un’alternativa pavida e insufficiente. Il cinema è agente secondo che preme sul terzo: lo spettatore affolla le sale cinematografiche perdendo la dimensione individuale in favore di quella massificata, ma – una volta uscito dalla “caverna” – si ritrova nell’anonimato della sua individualità persa all’interno dello spazio spersonalizzato della metropoli.