“Svitol” è il paradigma di una generazione senza più padri (li ha uccisi) alla disperata ricerca di essi.

Gli anni Ottanta sono quelli in cui il cinema si interroga – a ridosso della lotta armata – su un fenomeno il cui crollo risulta tanto verticale quanto drammatico per gli strascichi che lascia nei suoi “addetti” e in coloro che, in un modo o nell’altro, si sono sentiti parte di una “grande rivoluzione” mancata. Il poeta Mario Luzi ‒ nella raccolta del 1979 Al fuoco della controversia ‒ scrive:

Muore ignominiosamente la repubblica. Ignominiosamente la spiano i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti.

Nello stesso anno Francesco De Gregori in Viva l’Italia replica:

Viva l’Italia, presa a tradimento, l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento […] l’Italia nuda come sempre, l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste.

 Il giornale «Lotta Continua», dopo aver chiuso il 9 giugno 1982, torna in edicola per pochi giorni circa un mese dopo. Il titolo a caratteri cubitali dell’ultimo numero (4 luglio) è Rossi, Rossi, Rossi: ma la rivoluzione è già nel dimenticatoio, il riferimento è a Paolo Rossi, per celebrare la sua tripletta al Brasile durante i Mondiali di calcio.

Nelle sale esce Ecce bombo (1980) di Nanni Moretti, dove nella sequenza del raduno giovanile al concerto rock compare uno striscione con scritto «Riprendiamoci la vita». Ma il requiem cinematografico di una generazione è celebrato da altri due titoli seminali: Maledetti vi amerò (1980) di Marco Tullio Giordana e La festa perduta (1981) di Pier Giuseppe Murgia. L’epilogo di questo film e la vicenda al centro di Maledetti vi amerò sono collegabili tra loro attraverso l’affermazione – che nel film di Giordana – il direttore di “Lotta Continua” (Davide Riondino) rivolge a “Svitol” (Flavio Bucci): «Ha ucciso più compagni la depressione che la repressione».

Tornato dal Venezuela ‒ dopo cinque anni di esilio volontario in cui non ha combinato nulla ‒ “Svitol” si trova di fronte alla resa dei conti con il suo passato. Le parole a commento del film dell’ex brigatista Francesco Piccioni sono quanto mai illuminanti sulla veridicità dell’assunto filmico di Giordana.

Trovo che l’idea di prendere un attivista del Movimento del ’68, trapiantato in Sud America – dove la delimitazione tra destra e sinistra era ed è netta – per poi farlo tornare nell’Italia della fine degli anni ’70 fosse intelligente. Rientrato in una realtà ormai militarizzata dalla distorsione dei linguaggi e delle chiavi interpretative il protagonista è costretto a fare nuovamente l’elenco delle categorie, scoprendo un mondo che è cambiato. Un mondo in cui non si riconosce più. Sebbene fosse un personaggio “iperdenso” – perché doveva rappresentare lo spaesamento di una generazione di fronte a se stessa – conteneva bei noccioli di verità.[i]

Nel ragionamento del regista il fallimento di “Svitol” è quello di un’intera generazione che – al momento del dissolvimento delle cose – non solo non è capace di assumersi le sue responsabilità ma nega apertamente come i giovani rivoluzionari del 1968 abbiano spianato la strada ai terroristi di due lustri dopo (il film è ambientato nell’inverno del 1978). Chi si rifugia nel benessere borghese della propria famiglia, speculando in borsa; chi muore stroncato dall’eroina; chi, semplicemente, non ci pensa più e si occupa di altro. Il ferro rovente del fallimento è maneggiato dal regista con un rigore e una sapienza mai più raggiunte nelle opere successive. Al centro del film non c’è l’analisi del riflusso, bensì un vero e proprio trattato antropologico sui giovani che volevano sovvertire il Sistema e sono stati sovvertiti.

L’uomo “Svitol” si ritrova – al suo ritorno in Italia – al centro di un vortice in cui la commistione tra privato e politico (e viceversa) si interseca con la memoria costringendolo a ripercorrere le ultima tappe della vicenda italiana – da Pasolini a Moro – non come gli sviluppi di una biografia personale ma come un esame di coscienza collettivo e nazionale. É impossibile per lui ancorarsi ad un centro di gravità permanete (per dirla con Battiato); può solo agitarsi, vagare spaesato tra le macerie di una fabbrica dismessa in cui urlare “classe” e, battendo le mani ritmicamente, far riecheggiare i suoni di una prima linea dietro a cui non c’è più alcun corteo: la “Prima linea” stessa ‒ a partire da quegli anni ‒ è sinonimo di clandestinità e morte. “Svitol” è un fantasma ‒ non dissimile da quelli di Pasolini e Moro ‒ le cui sagome campeggiano sulla “parete dei fantasmi” nell’appartamento in cui vive: solo ricalcandone le forme si è accorto che sono (erano) uomini, non simboli contrassegnati dall’ideologia.

“Svitol” è il paradigma di una generazione senza più padri (li ha uccisi) alla disperata ricerca di essi; salvo poi, forse, essere egli stesso padre incapace di assumersi compiti e responsabilità nell’esserlo. Pasolini e Moro sono “padri” morti ammazzati e le lettere dei compagni che scrivono a “Lotta continua” dopo il 9 Maggio 1978, sono piene di rimpianto e cariche di senso di colpa verso un uomo che non è più il Presidente della DC, ma, solo, un padre di famiglia come tanti; come tutti quelli che si desiderava uccidere quando ci si sedeva di fronte, durante i pasti ai tavoli di tante anonime cucine italiane. Aldo Moro, le Brigate Rosse, rappresentano la “fine delle cose” che si lascia alle spalle solo macerie morali e materiali. “Svitol”, nell’inverno del 1978, è già un estraneo in un paese che non ha memoria e che vuole, irresponsabilmente, solo dimenticare: lo dimostra lo stato di incuria e abbandono in cui versa la lapide di via Caetani cui va a fare visita.

Anche la gente comune come la madre di “Svitol”, è spaesata, nell’indefessa ricerca di identificare il terrorista – evocato dal sonoro radiofonico della telefonata di Mario Moretti a Eleonora Moro poco prima dell’esecuzione del marito – intravederlo nella folla, riconoscerlo sull’autobus, nell’inesausto bisogno di avere risposte che appaiono, peraltro, impossibili. La dialettica – l’unica e l’ultima che rimane per “Svitol” ‒ può essere solo quella con un padre putativo: il commissario, coscienza critica prima, strumento di autodistruzione poi; quando non ci sono più né domande né risposte.

Marco Tullio Giordana gioca nel film con l’irrelato tra registro ironico e drammatico. Al primo appartengono: l’importazione del “felpatino” ‒ metonimia dell’ideologia legata al mito dell’America Latina; l’iperbole lessicale delle definizioni di “destra” e “sinistra”; le contrattazioni intorno alla valigetta con l’immagine di Giuseppe di Vittorio. Al secondo vanno ascritti i “fantasmi della storia”; la dacadence dei compagni (opportunamente contaminata con il grottesco); la solitudine sociale declinata attraverso la struggente rappresentazione iconografica del ballo tra la sua ex fidanzata con l’amico gay mentre egli, “Svitol”, guarda, interdetto, la bambina senza padre; la sua nemesi ‒ che non ha nulla di catartico ma è pura essenza crudele della “fine delle cose”. Una morte ricercata, indotta attraverso la mano di un “padre” (il commissario) e inscenata come una rappresentazione che la accomuna alle immagini dei cadaveri eccellenti riprodotte sui giornali e ricalcate nei contorni per restituirle alla loro natura di sagome tutte uguali. Piazza del Gesù, via delle Botteghe Oscure, via Caetani sono i luoghi da ripercorrere in una sorta di sinestesia della memoria che conduce all’appuntamento con la morte: un cadavere sul selciato tracciato geometricamente dalle righe bianche del parcheggio.

La Storia è una casella da riempire di cui, alla fine, non rimane che la sagoma tracciata, anch’essa col gesso bianco. Quello di “Svitol” è uno dei tanti cadaveri nell’anonimato di una Storia insensata e nefasta; restituisce una dimensione semantica fittizia e apparente – come evocato dal commissario – solo attraverso gli schermi dei televisori sintonizzati sui telegiornali. Il 9 maggio 1978 RGB Televisione riprende per prima le immagini del cadavere di Aldo Moro, riempie di senso gli schermi televisivi per gli istanti della durata delle riprese. Poi, anche il corpo di Moro e la sua scena primaria diventano solo una delle tante componenti di una strage infinita: uno sterminato elenco di morti simboliche che ‒ di fronte all’escatologia della “fine delle cose” ‒ tornano esseri umani rivelando l’insostenibile peso di una responsabilità collettiva, nazionale, italiana.

di Fabrizio Fogliato ©

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1 Uva C. (a cura di), Schermi di piombo, p.236

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