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Fabrizio Fogliato

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VINCERE (2009) di Marco Bellocchio

Saggio in due parti: iconografia del potere, fantasmagoria e suggestioni storiche in Vincere di Marco Bellocchio.

(Seconda parte)

Idiosincrasia del sentimento

Noi oggi conosciamo la vicenda de Il figlio “segreto” di Mussolini attraverso le lettere di Ida Dalser, la corrispondenza tra Arnaldo Mussolini e Riccardo Paicher, le missive di Giulio Bernardi e le comunicazioni cifrate della polizia segreta fascista. Le notizie dunque circolano velocemente – anche all’epoca – riservate, solo ed esclusivamente ai diretti interessati, ma in tutto ciò vi è una totale assenza di rapporti relazionali. Ciò che emerge dal quadro collettivo dei fatti è un’idiosincrasia verso qualsiasi forma di sentimento. In Vincere, quest’aspetto è sottolineato attraverso le dinamiche della struttura narrativa. Già la scelta di frapporre – all’interno degli stacchi tra le sequenze più importanti – immagini significative che mostrano le “future” compagne di prigionia di Ida Dalser nel manicomio di Pergine appare indirizzata alla necessità di porre lo spettatore in uno stato di inquietudine e malessere. Un malessere non definito, che anticipa emotivamente gli sviluppi narrativi, in cui le immagini di queste donne inquadrate e fotografate – come foto d’epoca incastonate nella memoria – compaiono per ben cinque volte nei primi quaranta minuti di film: dopo l’incontro sulla panchina, dopo il secondo amplesso, dopo lo scontro sotto le finestre de Il Popolo d’Italia, dopo il colloquio tra Ida e il cognato.

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L’ultima immagine, appare dopo il sequestro del figlio Benito Albino e mostra il volto tumefatto e sofferente di Ida. Il regista dunque “accompagna” lo spettatore verso un’estenuante discesa agli inferi del sentimento e della ragione umana. Non a caso la seconda parte del film si apre con un freddo e laconico comunicato, che vuole certificare il passaggio da essere umano a “merce”, di cui è vittima la giovane donna: “Ministero dell’Interno Direzione Generale P.S. Ieri 13 Febbraio 1920, Ida Dalser con suo figlio Benito Albino Mussolini è stata riaccompagnata nella casa di sua sorella Adele maritata Rag. Riccardo Paicher at Sopramonte sobborgo di Trento STOP temporaneamente tranquilla STOP ma data propensione alla fuga dimostrata negli anni passati detta Ida Dalser è sempre tenuta sotto stretta sorveglianza di notte e di giorno…”. La scena successiva è oltremodo esplicativa dell’intreccio tra vicende private e storiche in cui Ida si trova suo malgrado coinvolta: è il 1923 e a Sopramonte si attua un’incursione squadrista durante la festa del Partito Socialista; Ida osserva la scena da dietro i vetri di una finestra, mentre lo stacco mostra l’immagine della sua mano insanguinata relativa al primo incontro con Mussolini a Trento nel 1907. Il sangue della Storia è dunque lo stesso che macchia anche la sua vita, poiché ella è ormai sottomessa al dominio di un uomo “gigantesco”, come appare nella successiva scena ripresa all’interno di un cinema.

VINCERE (2009) di Marco Bellocchio

Saggio in due parti: iconografia del potere, fantasmagoria e suggestioni storiche in Vincere di Marco Bellocchio

 

Enigma Dalser

Nella vicenda Dalser, c’è qualcosa di indefinito e poco chiaro. Qualcosa che ha a che fare con gli aspetti più intimi e oscuri dell’animo umano ma anche con il groviglio di relazioni di potere che legano un capo e i suoi sottoposti. Sarebbe troppo facile e superficiale liquidare gli avvenimenti come un susseguirsi di eventi e di azioni determinate dalla volontà di Benito Mussolini. Ma come si può credere che colui che in quegli stessi anni è impegnato a “trasformare l’Italia”, possa occuparsi in prima persona di una vicenda privata (anche se non marginale) visto che in gioco c’è la sua credibilità e l’onorabilità della sua coerenza. È evidente che l’animatore della famiglia autarchica e numerosa non possa rischiare di passare per bigamo, soprattutto dopo la stipula dei Patti Lateranensi dell’11 Febbraio 1929 e di una ritrovata riconciliazione con il Papa e con la Chiesa oltre Tevere. È altrettanto evidente che il comportamento – impulsivo, al limite dell’isteria, tenuto in più occasioni da Ida Dalser, possa, in quell’epoca, essere facilmente considerato come folle – nonostante che lo stress e l’angoscia a cui la donna è sottoposta con scientifica continuità e premeditazione possa apparire come giustificazione più che ragionevole per i suoi comportamenti eccessivi, animati da un evidente, e mai sopita passione indomita per il duce del fascismo.

storia

I “delitti”, perchè di questo si tratta, che hanno per vittime Ida Dalser e Benito Albino Mussolini hanno come movente quello della necessità di eliminare due persone scomode – sono privi di un colpevole o più colpevoli identificabili, visto che il numero di persone coinvolte in entrambe le vicende sfiora il centinaio. Dai fatti, inoltre, emergono tutta una serie di ambiguità: dai medici non medici che stilarono le diagnosi, dalla segretezza con cui per anni sono state custodite le cartelle cliniche, dal coinvolgimento diretto de Il Popolo d’Italia come trait-d’union tra ordini superiori ed esecuzioni locali. È comunque, altrettanto vero che non può essere escluso a priori il coinvolgimento diretto di Benito Mussolini il quale è sicuramente imbarazzato dal fatto che in Italia una donna possa essere libera di dichiararsi sua moglie e un giovane ragazzo possa utilizzare il suo cognome come legittimo. Inutile ora, a distanza di anni cercare una strada alternativa per risolvere la questione, così come cavillare sull’intreccio di fatti, ordini e casualità che portarono agli esiti nefasti della vicenda. Quello che rimane nella memoria è la testimonianza indelebile di eventi delittuosi, di matrice politica, in quanto determinati da una o più scelte e mossi da una collettività eterogenea (che talvolta inconsapevolmente) agisce in un’unica direzione. Alla luce di tutto ciò, appare pertanto opportuno considerare come un solo film non possa contenere al suo interno tutte le sfaccettature, le cause e le conseguenze di questa triste vicenda. Vincere, di Marco Bellocchio, opera di fatto una scelta ben precisa: quella di ritrarre, liberamente, il profilo di una “eroina” da romanzo d’appendice, declinandolo su tinte fosche e plumbee, le stesse che attraversano come un basso continuo il susseguirsi degli anni nel ventennio fascista.

NEL GORGO DEL PECCATO (1954) di Vittorio Cottafavi

La gabbia della famiglia e le belve feroci che si sbranano

 

Le riprese del film, co-prodotto con la tedesca Eichberg-Film iniziano nel Gennaio del 1954. Presumibilmente la fase di post-produzione si protrae fino alla tarda primavera, visto che in quel periodo – a fine Aprile – viene stampata una copia del film con il titolo I due amori, mentre per i primi di Maggio è annunciata l’uscita del fotoromanzo che porta lo stesso titolo. Il 5 Luglio, la Itala Film comunica alla SIAE il cambiamento del titolo in L’amore si difende che diventa il definitivo Nel gorgo del peccato il 23 Luglio, quando ottiene il visto censura con il divieto ai minori di 16 anni. Condizione per l’uscita nelle sale, però, è che vengano tagliate alcune scene ritenute troppo erotiche. Il film viene proiettato la prima volta in pubblico il 30 Ottobre 1954.

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Nonostante l’apporto dei tagli, la produzione fa ricorso in appello per far togliere il divieto. Il 16 Dicembre la commissione mantiene il divieto assegnato al film ma chiede ulteriori tagli per mitigare ulteriormente la componente erotica. A Gennaio la produzione riceve le indicazioni della commissione ma il film, inspiegabilmente, resta fermo per altri mesi per poi vedere la luce della sala solo a fine Giugno 1955 a Firenze. Per ricoprire il ruolo della madre all’inizio viene chiamata Rina Morelli che nel film finito doppia l’attrice protagonista Elisa Cegani. Le riprese in esterni si svolgono tra Roma e San Felice al Circeo. Il budget complessivo è di 95 milioni, l’incasso definitivo arriva a malapena ai 50 milioni.

LE SALAMANDRE (1969) di Alberto Cavallone

Le dannate della terra

Nel 1967 lo sceneggiatore Sergio Lentati e il regista Alberto Cavallone si recano a Tunisi per effettuare i sopralluoghi – da Tunisi a Monastir – per un possibile film da farsi avente come base di partenza le teorie anticolonialiste dell’intellettuale e attivista Frantz Fanon. Questi, in sintesi, sostiene che la libertà dal colonialismo, per i popoli sottomessi, sarà raggiunta soltanto nel momento in cui la violenza subita sarà restituita. Da qui si sviluppa l’idea di un film politico sul tema avente come spunto iniziale e canovaccio narrativo la storia di un rapporto lesbico tra una fotografa bianca e una fotomodella nera. La prima stesura della sceneggiatura a cui partecipa anche Lentati si intitola C’era una bionda, poi, successivamente al timone del film rimane solo Cavallone e il titolo cambia in Le salamandre (titolo ammiccante a Les biches (Le cerbiatte, (1968) di Claude Chabrol). Il primo giro di manovella delle riprese del film avviene a Sidi Bousaid nell’estate del 1968 (periodo in cui si svolgono tutte le riprese).

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Ursula (Erna Schürer [Emma Costantino]), una fotografa d’alta moda, si trova in Tunisia per lavoro: con lei è la sua modella preferita, Uta (Beryl Cunningham), una nera che è riuscita a sfuggire alla miseria del ghetto con il lavoro che Ursula le ha offerto. L’arrivo di Henri Duval (Anthony Vernon [Antonio Casale]), un medico francese, rompe l’equilibrio del rapporto amoroso che le legava. Egli sembra voler scavare nelle loro coscienze: ma mentre Ursula si difende rispondendo con delle battute, per Uta le parole del dottore hanno un certo effetto che aumenta il suo nascosto tormento che nasce da un complesso razziale. Ed essa tenta di ribellarsi, sollecitata anche dal misterioso giovane, ma il forte legame che la tiene unita ad Ursula, il di lei morboso attaccamento e il senso di sicurezza che essa le dà, le tolgono ogni coraggio. Ma la speranza le viene da Duval che le propone di andare con lui separandosi da Ursula: e per vincere la resistenza di questa, Henri accetta la di lei proposta amorosa. Uta che però assiste non vista, crede ad un inganno di Duval e il giorno dopo sulla spiaggia uccide prima Duval e poi Ursula.

JACOPETTI FILES Biografia di un genere cinematografico italiano

Rassegna Stampa – Settembre 2016

JACOPETTI FILES
Biografia di un genere cinematografico italiano


di
Fabrizio Fogliato e Fabio Francione
(Mimesis Edizioni, 2016)

Ci è solo e sempre interessato il cinema. Va detto che il libro, inevitabilmente, parte da Gualtiero Jacopetti ma poi se ne allontana nel seguire vicende molto diverse tra loro. Una su tutte quella dei F.lli Alfredo e Angelo Castiglioni.

Il libro è ricolmo di documenti editi (pochi) e inediti (molti) provenienti da archivi pubblici e privati. Per scoprirli rimando alla lettura del libro. Aggiungo solo che quella dei F.lli Castiglioni è una vicenda etno-cinematografica mai raccontata finora.

[Fabrizio Fogliato e Fabio Francione su taxidrivers.it]

Leggi l’intervista integrale e la rassegna stampa completa

EXHIBITION ’79 (1979) di Jean-François Davy

Il corpo e la memoria

Quattro anni dopo Exhibition, il regista Jean-François Davy ritorna sulle tracce di Claudine Beccarie, la quale in quel film si era raccontata in un modo che, probabilmente, neanche lei aveva previsto. L’attrice per Davy si era rivelata come un canale interessante per uno studio più mirato dell’industria del sesso in rapida crescita. Affascinato dalla sua “musa” (dopo le riprese del film del 1975 i due ebbero anche una breve relazione) Davy aveva programmato di tornare da Claudine Beccarie per vedere quello che stava facendo, ogni quattro anni. Ecco quindi nascere Exhibition’ 79 dove, abilmente assistito dal direttore della fotografia Roger Fellous, il regista racconta la trasformazione contemporanea della donna e dell’industria pornografica. Il successivo episodio avrebbe dovuto essere girato nel 1983 ma l’attrice fece perdere le sue tracce. In Exhibition ‘79 troviamo una Beccarie disillusa e malinconica in netta contrapposizione esistenziale con la donna volitiva e spigliata di Exhibition. Niente sesso in questo film, incentrato non sul corpo, bensì sulla personalità, sull’anima di Claudine Beccarie che, all’epoca ha deciso di smettere di recitare davanti alle cineprese. Il regista, che qui rinuncia ad ogni forma di voyeurismo per mettere in scena, a posteriori, la memoria di un’epoca di speranze e libertà andate perdute oscilla, tra il tratteggiare il recente passato dell’industria hard – utilizzando segmenti del film precedente con l’audio distorto e la fotografia slavata e monocromatica – e il presente di un mercato, ormai deprivato di qualsivoglia contenuto e forma, fatto di prodotti amatoriali, performers improvvisati, e minacciato dall’imminente espansione del video.

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Abbandonata la carriera di attrice e dopo un secondo divorzio dal collega performer Didier Faya e un aborto del figlio cercato e voluto (il cui desiderio era già espresso nel primo film), Claudine si è ritirata in un tranquillo paese di campagna per allevare conigli e galline, con l’aiuto un amica-fidanzata di nome Nova.

ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri (prefazione di Davide Pulici)

Rassegna Stampa – Estate 2016

A distanza di un anno dalla sua uscita il variegato mondo della critica sembra non voler distogliere l’attenzione da “ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri”(prefazione di Davide Pulici).

http://www.italiaultimoatto.it/

 

Nella storia del cinema italiano di Fabrizio Fogliato, ad esempio, non c’è spazio per i nomi che…”ci hanno sempre detto” essere la storia del cinema italiano. Niente Rossellini, De Sica, Visconti, Germi, Fellini, Visconti, Antonioni, Ferreri, insomma. Infatti Fogliato ha apostrofato il suo Italia: Ultimo Atto come l’altro cinema italiano. Un altro cinema, che molto difficilmente troverebbe spazio nei corsi universitari standard; e – o meglio, perché – un cinema altro, escluso dai canoni ufficiali in quanto impegnato a cercare strade non convenzionali, forse per la critica troppo poco intellettuali e grammaticalmente ortodosse ma non per questo meno coraggiose e, nei risultati migliori, meno riuscite. [cineclandestino.it]

Fogliato parte da Sole (1928/’29), film d’esordio di Blasetti, e Rotaie (1929) di Camerini (non proprio due sconosciuti, ma batta un colpo chi ha visto questi due film!), per arrivare – quando già imperversavano, come facce opposte di una stessa medaglia, la commedia scollacciata e le città violente, nere e a mano armata – a massimo Pirri, a cui giustamente dedica l’epilogo del suo viaggio. Finalmente diremmo, un’analisi del cinema di Pirri (significativa l’intervista a corredo) contestuale a un racconto dell’Italia e delle immagini d’Italia su grande schermo.
Un libro per chi non si accontenta dei racconti ufficiali. [cinequanon.it]

Leggi le recensioni integrali

EXHIBITION 2 (1976-78) DI Jean-François Davy

Eyes Wide Shut: Intervista con la… vampira

 

Le risposte delle donna appaiono più crudeli e sferzanti del reale sadomasochismo rappresentato, nudo e crudo, sulla scena.

Il controverso Exhibition 2 (id., 1976-1978) calca ulteriormente la mano sul principio di ambiguità della sguardo e, parallelamente si spinge nell’analisi introspettiva dell’estremo attraverso un personaggio-maschera che non si svela mai completamente ma che fa intravedere la sua fragilità di fondo di fronte alla quale antepone un gusto cerebrale per la provocazione e per l’eccesso ben consapevole che questo faccia parlare di lei: Sylvia Bourdon. C’è nel film – in quello che ne rimane dopo le vicende giudiziarie – una sincerità sorprendente e straniante in cui le risposte delle donna appaiono più crudeli e sferzanti del reale sadomasochismo rappresentato, nudo e crudo, sulla scena.

Jean-François Davy racconta direttamente così le traversie legali a cui il film è andato incontro: “La versione che resta è quella terribilmente mutilata dalla censura. Quando presentai la pellicola per il visto venne bloccata e, successivamente, sequestrata con l’accusa di “attentato alla dignità della persona”. Il film rimane bloccato per più di un anno. Viene poi rilasciato con pesantissimi tagli e classificato come film pornografico nonostante non ci siano scene di sesso esplicito. E’ un film dal forte impatto sociale incentrato su un problema che esiste nella società e che vuole spiegare il funzionamento delle dinamiche sadomasochiste. Resta il fatto che la versione integrale del film, ormai perduta, era molto più interessante di quel poco che rimane” (Intervista a Jean-François Davy in L’avant-scène cinema n.550 – Marzo 2006).

L’ARGENTO CHE URLA – L’UCCELLO DALLE PIUME DI CRISTALLO (1970) di Dario Argento

Un libro degli anni’50 è fonte di ispirazione per un ‘opera dalle affinità elettive con il teatro, la scrittura, le teorie del cinema e Michelangelo Antonioni: tra Incomunicabilità e memoria

 

Il film è una rappresentazione per immagini della paura delle relazioni insite in ogni essere umano e al contempo una riproduzione del processo di scrittura.

 

Argento definisce il suo cinema come “storie oniriche e tuttavia profondamente latine”, frutto del magma emotivo e irrazionale che da sempre abita in lui, abilmente mescolato con le suggestioni di tanto cinema visto, soprattutto quello di Fritz Lang. Il suo cinema non può che essere ontologicamente imperfetto e irrisolto, perché vive di suggestioni e non di raziocinio; i suoi film sono incubi tradotti in immagini in cui dominano la componenti fantasmagoriche e esoteriche ma nel quale si mescolano, sotterranee (eppure vivide e pulsanti) le ansie, le paure e le inquietudini della contemporaneità. La sua ambizione, come dichiara lui stesso, è quella di “prendere lo spettatore per mano, stringendo o allentando la presa”, per guidarlo all’interno dell’alterità di un mondo inesistente in cui dominano il caos, l’inafferrabile, l’oscurità e il ridicolo. Gli esiti del suo cinema discontinuo, confuso e diseguale sono opere interamente cucite addosso all’emotività dello spettatore senza mai prendere in considerazione l’ordine, il rigore o la linearità: incubi ad occhi aperti dove i personaggi urlano in modo sguaiato e cartoonesco, sanguinano ed espellono litri di emoglobina con cui imbrattano lo schermo e si agitano in narrazioni istintuali e viscerali che non contemplano né il realismo né la verosimiglianza.

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Dario Argento, quindi, rappresenta veramente un caso curioso per il nostro cinema: al di là del suo essere riconosciuto, retoricamente e inutilmente, come il più importante esponente del cinema di genere italiano (un vero e proprio luogo comune), egli è tanto bistrattato dalla critica (da sempre), quanto osannato da una folta schiera di appassionati, fan, e studiosi, visto che attorno al regista romano si sviluppa una delle più nutrite bibliografie dedicate all’opera di un regista italiano. Date le premesse, quindi, un regista di cui forse si è già detto tutto (troppo) e il contrario di tutto. Un cineasta la cui opera è stata sviscerata in ogni particolare e la cui produzione è stata accuratamente scandagliata nei minimi dettagli per portare alla luce, aneddoti, curiosità, tagli, revisioni, “falsi” soggetti (il caso Chipsiomega sul retro copertina del disco Cinevox del 1980 di Profondo Rosso), e poi ancora, contraddizioni, discendenze espressioniste, cromatismi baviani, ecc. Nel caso dell’opera di esordio è evidentemente già stato approfondito il rapporto tra la sceneggiatura del film e il romanzo “La statua che urla” di Fredric Brown del 1953 e sono già state messe in luce le contiguità e le discrepanze tra le due opere. Anche il rapporto tra il film e il cinema di Antonioni è già stato sfiorato soprattutto nell’analisi del “dettaglio rivelatore” e dell’ovvio rimando a Blow-Up (1968).