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Fabrizio Fogliato

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BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 4: La prova generale

I grandi maestri: William Friedkin, Luis Buñuel, John Cassavetes, James Toback – ispirazioni sublimi su un cattivo tenente

Il poliziotto è nudo pertanto (e Ferrara opportunamente mostra un full-frontal mantegnano di Harvey Keitel in una delle prime scene del film), stretto in una città in cui la violenza dilaga e contagia ogni essere umano come una vera e propria epidemia o malattia. Non è casuale che Bad Lieutenantsia oltremodo accomunabile con uno dei film più controversi degli anni ’80, Cruising (id., 1980) di Williamn Friedkin e che la parabola di Lt ricalchi sul versante spirituale quella materiale di Steve Burns (Al Pacino). In Cruising, il poliziotto Steve Burns (Al Pacino) si addentra come infiltrato nella New York omosessuale alla ricerca di un serial killer che uccide e mutila i gay; la sua indagine però lo porterà a mettere in discussione la sua identità sessuale e a confrontarsi con il lato oscuro della sua anima. Anche qui, come in Bad Lieutenanttroviamo un’indagine poliziesca a fare da sfondo ad un tema ben più ampio e profondo: la conoscenza di se stessi fino alle estreme conseguenze. Come in Bad Lieutenant anche nel film di Friedkin, è fondamentale il contributo del sonoro: nel film di Ferrara i rumori nascondo i dialoghi, in Cruising il rumore del cuoio e della pelle e il battere dei tacchi e degli stivali delimitano luoghi e spazi e sono rivelatori di una minaccia costante. Steve Burns come Lt è spettatore passivo dei rapporti sessuali: se in Bad Lieutenanterano performance recitate, in Cruisingsono gli accoppiamenti e le orge dei locali sado-maso del Greenwich Village a sconvolgere ed affascinare la mente del protagonista, progressivamente compresso in spazi sempre più asfittici: azzeramento dello spazio quindi, cioè il vuoto.

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 3: A climax of blue power

Nick Ray, Robert Aldrich e Lee Frost: ispirazioni alte e basse su un cattivo tenente

Lt, dunque è un poliziotto, immerso, o meglio, un uomo che resta immerso nel peccato, se ne ritrova asfissiato, intossicato e non può che assorbirne ancora, sempre e di più, come se volesse integrarlo nella sua carne. L’elemento cardine del film – non quello di risolvere il caso criminale – lo stupro osceno, violento e blasfemo della religiosa serve da elemento scatenante per lasciare attraversare dalla Grazia il tenente, all’apice di una follia sublime che equivale a un suicidio. Questi non ha nome, è semplicemente “il tenente” (Lt), ma ha un grado, cioè un ruolo sociale. Lt invece vive la passione (quella delle scommesse), l’ubriachezza (droghe e alcool), l’orgasmo (masturbazione), ma il tutto è letteralmente consumato in solitudine attraverso pratiche auto distruttive e voyeuristiche.

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 2: New York

Il bisogno spirituale di un riscatto e la necessità di urlare il dolore e la sofferenza che affliggono la metropoli

Bad Lieutenant può apparire come un’orgia di realtà negative, con la sua descrizione della città come inferno e del corpo come catalizzatore del Male, ma tra le sue pieghe è forte e tangibile il bisogno spirituale di un riscatto e la necessità di urlare il dolore e la sofferenza che affliggono la metropoli. Il film racconta appunto il vuoto e la solitudine dell’uomo contemporaneo che vive dentro città sempre più grandi e impersonali, dove l’unica fuga è rappresentata dalla dipendenza e dalla ricerca di un Male che affascina, inseguito con lucidità e consapevolezza. La New York descritta nel film non ha nulla di affascinante ma sembra lo scenario di un film horror, dove il Male si materializza nelle forme più strane: nelle due prostitute intente nel rapporto bondage – non più persone ma recita di se stesse; nei dialoghi impregnati di violenza razzismo e sparati a raffica come mitragliate; nella religione ridotta a feticcio scenografico – la catena del rosario appesa al retrovisore della macchina di Lt o come l’immagine di Cristo impressa sul copri divano a casa del pusher. Il sesso è ormai ridotto a simulazione, non c’è neanche più la forza e la volontà di praticarlo: il tenente si masturba guardando la ragazza che mima una fellatio.

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 1: Le premesse

Una canzone, uno stupro e la messa in discussione psicologica e spirituale del vivere umano contemporaneo

Il tenente Lt (Harvey Keitel) accompagna i due figli a scuola, li insulta e dopo averli salutati, appena solo sniffa cocaina. Si reca sulla scena di un crimine, dove ci sono due ragazze morte in macchina. Egli però è più interessato a raccogliere le scommesse dei colleghi sulla partita di baseball dei L.A. Dodgers, su cui ha appena puntato quindicimila dollari. Incontra uno spacciatore, salgono su per le scale di un palazzo fatiscente e qui il tenente vende al pusher un sacchetto di droga. Prima di andarsene fuma del crack. Due prostitute recitano un bondage lesbico. Il tenente si ubriaca, balla con loro e poi nudo e piangente mima una crocifissione. In un negozio cinese ferma due ladri, non li arresta, ma anzi si fa consegnare il bottino. Si reca a casa di un’amica drogata (Zoë Lund) dove si buca con lei e fuma ancora del crack. Dorme a casa sul divano, si sveglia, insulta la suocera, cambia il canale della televisione mentre la figlia sta guardando i cartoni animati, e guarda la partita dove i Dodgers stanno ancora perdendo. Si reca sulla scena di un altro delitto e cerca di intascarsi la droga che c’è nella macchina, che però gli cade in maniera ridicola sotto gli occhi dei colleghi. Questi gli parlano dello stupro di una suora ad Haarlem e della taglia sui colpevoli messa dalla mafia. Il tenente va all’ospedale, spia la suora nuda e viene a sapere che è stata stuprata con un crocifisso. Il tenente ferma due ragazze per un fanale rotto. È notte e piove. Le costringe una a mostrare il sedere, l’altra a mimare una fellatio, mentre lui si masturba davanti a loro. Va nella Chiesa dove hanno violentato la suora, si sdraia e abbraccia una Madonna caduta. Più tardi ascolta il perdono che la suora concede ai colpevoli senza denunciarli. Sale in auto, sniffa cocaina e quando sente che i Dodgers hanno di nuovo perso spara sulla radio. Alla prima comunione della figlia, impreca in Chiesa mentre un bookmaker gli ricorda i suoi debiti. A casa sniffa cocaina sulle foto della comunione. Va in discoteca, si droga e scommette altri soldi sui Dodgers. Va da un suo amico spacciatore a ritirare una scatola piena di soldi ($ 30.000). Quando esce fuma crack per le scale. In auto assiste nervoso all’ennesima sconfitta dei Dodgers. Va dalla suora per convincerla a denunciare i suoi stupratori, ma questa gli consiglia di parlare solo con Cristo. Solo, in Chiesa, bestemmia piangente e digrignando i denti rabbioso si rivolge ad un Cristo dolce e silenzioso; gli si avvicina a quattro zampe chiedendo perdono per i suoi peccati e gli bacia i piedi invocando il suo aiuto. Alza lo sguardo e vede una donna nera che è venuta a riportare il calice rubato dai violentatori che lei conosce. Il tenente raggiunge i due ragazzi Paolo e Julio, li ammanetta, fuma crack con loro e li accompagna in macchina al terminal dei bus, dove piangendo li libera e consegna loro la scatola con i trentamila dollari. Li invita a salire sull’autobus e a lasciare la città. Sale in macchina e poco dopo gli si avvicina un’auto. Gli sparano nell’indifferenza più totale, poi qualcuno si accorge di lui.

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Quarta

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Simona, vede usurpato il suo ruolo di “amante del mostro” e agisce di conseguenza: ingaggia con la madre un duello estremo che la porta persino a concedersi sessualmente ad un attonito Federico. Nel bagno – nascosto dalla furia dei rangers che vogliono ucciderlo – egli subisce la provocazione di Simona, che si sdraia nuda sul tappeto dicendogli: “Allora cosa aspetti…o hai paura di Vera”. In una scena che  non lascia niente all’immaginazione – ma che appare incredibilmente pura – Federico possiede Simona rinnegando (o trasformando) quel ruolo di “mostro” finora assunto per diventare un ridicolo (e impossibile) amante affettuoso e premuroso. Simona continua a studiare le mosse della madre e si ritrova a spiare l’amplesso tra lei e Federico. Sentendosi tradita, piena di astio e rancore, si reca al commissariato per denunciare entrambi. L’uomo di legge ottiene da Vera la possibilità di arrestare Federico, e per non denunciarla per complicità, baratta con lei un rapporto sessuale: “Ci si può mettere d’accordo su qualunque cosa e a qualunque prezzo”.

Nel finale, Simona scopre il suicidio del padre, prende una pistola e uccide a freddo il commissario e la madre mentre sono a letto, per poi  liberare Federico e allontanarsi con lui mano nella mano. Il lieto fine fiabesco sembra trionfare, non attraverso la consueta uccisione del cattivo, bensì tramite la sua “trasformazione”, e non a caso è lo stesso Federico che, mentre si allontana dalla villa con Simona, dice: “Arriva sempre il momento di partire. Molto più in là del parco, dove l’erba cambia colore e incominciano le strade, quelle grandi. Prenderemo quelle”. Ma l’uomo – ignaro della sorte riservatogli da Simona – non coglie l’ironia glaciale con cui la bambina gli risponde: “È là che mi aspettano… quelli della mia età”.Federico entra nella grande voliera e scherza con la bambina/donna che, silenziosa, mentre lui si arrampica, prende la mira e lo uccide facendolo precipitare al suolo come se fosse un uccellino.

Massimo Pirri, non ha mai concepito il lieto fine per il suo cinema, né tanto meno ha cercato una conciliazione con il pubblico ma ha sempre messo in pratica (conoscendola o no non ha importanza) la posizione di Theodor Adorno sull’happy ending cinematografico:Il cinema del lieto fine non prende posizione sul mondo, non pensa alle vittime della storia, non fa altro che generare un mondo illusorio sul quale acquietarsi.[1]; questo perché il suo cinema vuole essere disturbante, trasversale ai generi e alle classificazioni.

La Vigevano de L’Immoralitàè archetipo di quella provincia opulenta, bigotta e ostinatamente padronale che nel Nord industrializzato ha lentamente sostituito i valori di solidarietà, fratellanza e rispetto reciproco con una strisciante ed espandente immoralità latente fatta di individualismo, sfruttamento e silenzio. La “cultura del silenzio” che domina il film di Pirri appare pertanto congeniale alla metafora della grande voliera vuota, dove gli uccelli in gabbia sono i personaggi stessi, rappresentativi di una provincia al collasso in cui il “mostro” diventa normale e dove i “normali” nascondono la natura di “mostri”. Chiusi nelle loro case (la villa), spaventati dal prossimo e dal diverso, educati dalla tv (che da b/n passa a colori), schiavi del culto del denaro, gli abitanti della provincia coltivano, inconsciamente, il morbo dell’immoralità, tramandandolo di madre in figlia come arma di difesa verso un mondo che non riconoscono e da cui vogliono staccarsi con qualunque mezzo, consapevoli del fatto che sono loro stessi a crearlo.

La grande voliera diventa quindi allegoria di un mondo – sostituivo di quello contadino – basato sul profitto e sulla sopraffazione (anche all’interno della famiglia stessa), teso, irrimediabilmente, all’accumulo e all’ostentazione della ricchezza – elemento necessario a determinare lo status sociale. L’illusione eterna di voler “esser libera” (come dice Vera) non esiste, è un alito di vento che spazza via la felicità per far posto al rancore e all’invidia: i personaggi de L’Immoralitànon sorridono mai. Quello del film è uno spaccato dove il nemico interno diventa proiezione esterna del diverso. L’immoralità è un cancro, le cui metastasi nascono nel secondo dopoguerra, ma è con la fine degli anni ’60 e con l’arrivo del benessere successivo che la malattia sedimenta nel corpo di un Italia che ha bruciato le potenzialità di diventare civile, per cominciare ad essere quel paese mancato, abbruttito e degenerato che L’Immoralitàe il suo regista descrivono con lucida e inquietante profezia.

[1]Alessandro Alfieri, Benjamin, Adorno e la contemporaneità, in CineCritica n.50/51, Aprile-Settembre 2008, pag.64

di Fabrizio Fogliato

L’IMMORALITA ’(1978)

Regia/Director: Massimo Pirri
Soggetto/Subject: Massimo Pirri, Federico Tofi, Morando Morandini
Sceneggiatura/Screenplay: Massimo Pirri, Federico Tofi, Morando Morandini
Interpreti/Actors: Lisa Gastoni (Vera), Karin Trentephol (Simona, figlia di Vera), Renato Rossini [Howard Ross] (Federico Anselmi), Mel Ferrer (marito di Vera), Andrea Franchetti (tenente di polizia), Wolfango Soldati (Antonio, un giustiziere), Francesco Ferri (amico), Deborah Lupo, Ida Meda
Fotografia/Photography: Riccardo Pallottini
Musica/Music: Ennio Morricone
Costumi/Costume Design: Sergio Palmieri
Scene/Scene Design: Sergio Palmieri
Montaggio/Editing: Cleofe Conversi
Suono/Sound: Piergiuseppe Ghezzi
Produzione/Production: Ducale Film, Una Cinecooperativa
Distribuzione/Distribution: Una Cinecooperativa
censura: 72568 del 08-11-1978
Altri titoli: Perché Simona

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Terza

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Se in Grazie Zia il rifiuto del conformismo borghese e dei suoi stantii riti familiari passa attraverso la finzione di Alvise che si auto-dichiara paraplegico per cercare la sua nemesi – vedendo nell’eutanasia l’unica forma di “amore possibile” e l’unica risposta al suo desiderio di non appartenenza di classe – ne L’immoralità Simona non solo vuole vivere ma desidera – come dichiara lei stessa a fine film – raggiungere gli altri come lei. Dieci anni dopo il 1968 – in una società irrimediabilmente compromessa e corrotta – l’unica possibilità di raggiungere l’autonomia uscendo/sfuggendo dal conformismo é l’eliminazione sistematica di tutti coloro che, tradendo, rappresentano un ostacolo insormontabile. Uomini e donne che meritano di essere uccisi perché colpevoli di aver diffuso e alimentato il morbo dell’immoralità.

Immoralità che non esita a calpestare i sentimenti, e a negarli apertamente e cinicamente, con l’obiettivo, di ogni individuo, di dare un’immagine diversa da ciò che è, declinata secondo un “ideale” massificato. Esemplare a tal proposito appare il rapporto tra marito e moglie, mellifluo e fintamente affettuoso, percorso da improvvise scosse emotive animate da un cinismo barbaro e volgare. Quando Vera chiede al marito la firma di assegni in bianco, gli dice: “Pensa, con un bel colpo secco non ci saresti più. Io sarei ricca e libera e tu rosicchiato dai vermi”. L’Immoralità dunque, non solo ribalta le prerogative strutturali della fiaba, ma ne capovolge anche le aspettative emozionali: la fiaba, infatti, è al contempo, un racconto, sia ammonitore che finalizzato ad un insegnamento (o educazione), mentre il film costringe lo spettatore ad una visione sofferente ed epilettica, reiterando continuamente (e insistentemente) gli aspetti più deteriori e insani dei personaggi.

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Seconda

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Secondo “La morfologia della fiaba” di Vladimir Y. Propp, la fiaba deve iniziare con una situazione di partenza in seguito alla quale vengono elencati i membri della famiglia oppure viene presentato il futuro eroe secondo nome e condizione. L’immoralità invece, inizia in maniera opposta e antitetica presentando il cattivo in maniera simbolica e provocatoria. Il film si apre con una inquadratura dal basso che mostra un uomo con in braccio una bambina morta, un’immagine che già nella sua conformazione è, ontologicamente, pietistica. Quando quello stesso uomo, prima di allontanarsi velocemente con il furgone, però, seppellisce frettolosamente la bambina – e l’inquadratura mostra che ha le mutandine abbassate alle caviglie – ecco che quell’immagine primaria – che sembrava proporre una figura “buona” – diventa improvvisamente trasfigurazione di un “mostro”. Successivamente avviene la presentazione (per gradi) del nucleo familiare, ma il risultato è opposto rispetto alle volontà proppiane: quella proposta da Pirri è una visione spettrale della famiglia, che nulla a che spartire con l’immagine della fiaba. Il padre è costretto su una sedia a rotelle e vive in un mondo a parte situato ai piani alti della villa, la moglie Vera vive intenta a mantenere la tonicità del proprio corpo inteso da lei come lasciapassare sociale, mentre Simona è un misto di freddezza ingenuità sorrette da un animo torbido.

Il professore é una figura inesistente – per tutti tranne che per Simona – come sottolineato più volte dai personaggi del film. Per la bambina invece rappresenta sia il rifugio (ove cercare protezione) sia la conoscenza. E’ il padre che, all’inizio del film, fa le due affermazioni che guideranno l’agire di Simona. La prima é: “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. La seconda: “Per te Simona, il bosco è un luogo incantato…magico. Tu non ti accorgi di nulla di ciò che ti accade intorno, le lotte i conflitti, le tragedie. Il forte uccide il malato… o il più debole. Per sopravvivere…”. Il legame che intercorre tra padre e figlia – per quanto apparentemente labile e casuale – si rivela in realtà essere persino indissolubile: lo dimostra il fatto che la furia omicida e asettica della bambina si scateni alla vista del padre morto suicida. Sul tavolo di fronte a sé egli ha lasciato i due oggetti che lo rappresentano per tramandarli alla figlia: l’orologio che certifica che, ormai, non c’é più tempo e la pistola che indica la presa di coscienza e che é il momento delle decisioni irrevocabili.

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Prima

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

In una villa solitaria, posta in un parco a qualche chilometro di distanza dall’abitato, vivono la signora Vera (Lisa Gastoni), suo marito (Mel Ferrer) da tempo immobilizzato su di una sedia a rotelle e la dodicenne Simona (Karin Trentephol). Mentre la madre cerca evasioni con gli uomini dei dintorni e in casa passa il tempo a bisticciare con il marito, la ragazzina trascorre molte ore nel parco o nascosta in casa a spiare i genitori. Un giorno Simona si imbatte in Federico (Howard Ross [Renato Rossini]), un giovane ferito e inseguito perché ha ucciso una bambina dopo averla violentata. La piccola nasconde il fuggitivo, ma ben presto la madre si accorge della presenza dell’uomo e intreccia con lui una relazione. Vera, avendo capito di chi si tratta, ha la ben precisa intenzione di servirsi di Federico per eliminare il marito. Simona, maturata in fretta, desidera un figlio da Federico. La situazione precipita, anche perché i sospetti della polizia e dei “vigilanti” si stanno accentrando sulla villa.Una volta raccontata la disillusione generazionale (Càlamo) e la destrutturazione dello Stato (Italia: ultimo: atto?), le attenzioni di Massimo Pirri si rivolgono al nucleo fondante della società: la famiglia. L’Immoralità è un’onda anomala di immagini desacralizzanti, che travolge e annienta i protagonisti del film, con un furore e una poesia senza precedenti. Avulso da ogni modello, imperniato sull’ossimoro come idea di sceneggiatura e diretto sul limite della follia, L’Immoralità è un gioco al massacro senza regole e senza via di fuga, né per i personaggi né per lo sguardo dello spettatore. Pirri dirige un Kammerspiel fiabesco che si svolge (quasi) tutto in una villa e nel parco adiacente, descrivendo un universo concentrazionario di cinismo, perversione e pietismo. Guardando il film si palpa materialmente la furia nichilista che anima il regista e si rimane sbalorditi dalla coerenza e dalla sincerità con cui questo autore, non allineato, centrifuga valori e disvalori, moralità e moralismo, orribile e meraviglioso. Sempre in bilico sul crinale dell’ambiguità – e giostrato con un ritmo lento e avvolgente che dilata a dismisura i tempi del montaggio – il film descrive una spirale di odio/amore destinata a chiudersi in un cul de sac caustico e irriverente.

IL CORPO (1974) di Luigi Scattini

L’erotico-esotico più anomalo e sorprendente. Un film destinato a perdersi nelle onde di quello stesso oceano ripreso in modo mai così minaccioso e pericoloso

Film che chiude la trilogia con Zeudi Araya, ma anche film profondamente sentito, frutto di un’elaborazione molto personale all’interno di una dimensione onirica e di desiderio. Luigi Scattini chiude il cerchio e confeziona un’opera non convenzionale (per il genere), profondamente irrisolta e proprio per questo ancor più affascinante. Un film d’atmosfera mortifera in cui non c’è spazio né per il sole né per l’amore. Un film destinato (inevitabilmente – dati i presupposti) a perdersi nelle onde di quello stesso oceano ripreso in modo mai così minaccioso e pericoloso. Ne Il corpo, la storia raccontata è secondaria – e a poco o nulla serve ricondurla all’opera di James Cain “Il postino suona sempre due volte”, perché in questo caso si tratta di un puro e semplice pretesto necessario ad imbastire il film e a tenerlo assieme alla bene e meglio per evitare che sfugga dalle mani. Il corpo è un film che doveva essere altro ma che, incredibilmente delle intenzioni iniziali – disattese e mai portate a compimento – conserva, sotto traccia, tutta la forza dirompente della tragedia esistenziale anche se virata sulle corde del fumetto erotico.

La sceneggiatura definisce il personaggio di Antoine con tratti hemingwayani e distilla nei dialoghi citazioni – più o meno occulte – di Conrad, dello stesso Hemingway e James Cain. Dell’idea iniziale rimangono l’isolotto di fronte a Trinidad (“luogo ideale e irreale”) e tre personaggi che altro non sono che tre corpi alla deriva aggrappati con le unghie e con i denti, a quel che rimane del sogno caraibico. Personaggi monocordi le cui psicologie sono appena abbozzate così come lo sono le loro origini, nonché gli oscuri motivi che li hanno spinti a ritrovarsi su quei pochi metri di terra, roccia e mangrovie in mezzo all’oceano. Due uomini (Antoine e Alain) e una donna (Princess), più un’altra, Madeleine – moglie di Antoine – che vive sulla terra ferma (a Port-of-Spain) rabbiosi e imbelli, stretti nella morsa del loro egoismo, della loro solitudine e di un caldo soffocante che fa sudare i corpi e annebbia la mente. Giornate trascorse in attesa del nulla, in un inverno caraibico che schiaccia come una cappa opprimente e che toglie il respiro sotto un cielo plumbeo mai così basso e caliginoso. Nessun personaggio positivo, nessuno slancio di generosità, nessuna vocazione alla solidarietà e all’altruismo, nessun contatto né amicale né amoroso – bensì solo sesso fintamente esotico e sodomitico, litri di rhum gelato da ingollare a perdifiato e relazioni oscene perché prive di qualsivoglia afflato gioioso e spontaneo.

Il film ribalta ogni convenzione di genere soprattutto per quanto riguarda il rapporto sessuale con l’indigena – normalmente liberatorio, gioioso e all’interno di una dimensione positiva – trasformandolo in un sodalizio (perfino una penetrazione spirituale) con le forze oscure. Con Il corpo Luigi Scattini altera la percezione dello spettatore-medio (che affolla le sale ingolosito dalle nudità della Araya) e ne annulla ogni spasimo erotico trasformando l’icona del sesso libero e naturale nell’incarnazione seducente, ammiccante e serpentina del Male. Un corpo, statuario, levigato, perfetto e dalla pelle vellutata, al servizio del cervello della donna, la quale – con sorprendente e allarmante consapevolezza – è capace di usarlo per ogni sua esigenza: prima fra tutti quella di andarsene dall’isola per trovare non l’amore (come il film sembra presagire) bensì la ricchezza. L’agire di Princess è finalizzato ad acquisire uno status sociale che la allontani da quello della “negra” e “miserabile” – è lei stessa a confessarlo ad Alain quando questi le chiede di fuggire con lui. C’è ne Il corpo una breve sequenza di raccordo in cui la donna, di fronte allo specchio, indossa gli orecchini si prova il vestito giallo, si ammira ammiccante, sorride, per poi strappare tutto con rabbia e gettarlo via consapevole che per ora la chance di fuga non è ancora a porta di mano. Non a caso, subito dopo, rivolgendosi ad Antoine – che si dirige in città per fare compere – le chiede di comprarle un paio di scarpe; l’uomo interdetto, prima le osserva i piedi in silenzio e poi le chiede “Ma da quando tu porti le scarpe?”.

Princess, è l’antitesi di Simon, la donna libera, ingenua, spontanea, semplice e dalla naturale nudità de La ragazza dalla pelle di luna, in quanto donna manipolatrice che usa il suo corpo per secondi fini, che si spoglia con calcolo e premeditazione e che si offre fingendo di donare amore ma in realtà succhiando la vita. Di fronte a Princess, lo spettatore dell’epoca è disarmato perché privato di ogni giustificazione e, improvvisamente, chiamato ad essere responsabile dei suoi pensieri. Se in genere, l’erotico-esotico ha nella sua ontologia la de-responsabilizzazione di chi guarda verso le nudità mostrate in quanto frutto di una distanza sia culturale che spaziale (le nere sono creature “inferiori” e vivono in Africa, luogo che è possibile solo sognare), con Il corpo si trova di fronte ad una donna, sì dalla pelle nera, ma dalla mentalità occidentale, che usa la sua intelligenza per trasformare in “corpi” coloro che ha di fronte e pertanto decisamente inquietante nel suo spogliarsi malizioso. Quest’aspetto è mostrato da Scattini in tutta la prima parte del film – quella in cui Princess non proferisce parola – chiudendo il suo volto in strettissimi e fulminanti primissimi piani e fasciando il suo corpo in un abito rosso fuoco il cui fulgore (a contrasto col nero della pelle) acceca la vista. Quando la donna comincia a parlare – passando dallo status di corpo-oggetto (che subisce le angherie sessuali di Antoine) a quello di essere pensante, gli abiti diventano infantili e rosa confetto non per ingenuità bensì per strategia. È presentandosi come “bambina” infelice, sofferente e piegata dalle vessazioni del rude compagno che riesce a catturare le attenzioni di Alain.

Una volta preso al laccio il giovane imbelle lo manipola a suo piacimento spingendolo a fare tutto ciò che lei vuole. Princess – dietro la dolcezza apparente e dietro i modi affettati – è sottilmente crudele e profondamente infida: come dimostra l’improvviso ricatto sessuale con cui mette spalle al muro l’inconsistente Alain. Ne esce così, un ritratto ambiguo e luciferino della donna, accentuato ancor più dal sorriso estatico e dallo sguardo enigmatico perfettamente integrato con l’ambiente caraibico-invernale in cui il caldo è persistente, la pioggia incessante, l’umidità soffocante e le zanzare non danno tregua. Sin dai titoli di testa, infatti, il regista mostra un oceano bizzoso, grigio e putrescente da cui emergono relitti arrugginiti e resti di navi cannibalizzate. Port-of-Spain è una città caotica fatta di baracche le cui strade sono cosparse di detriti e dove – dietro ad ogni angolo – può esplodere la rabbia e si può essere assaliti dalla violenza per un conto non soldato o per un debito pendente (come puntualmente accade ad Antoine). Ma la capitale di Trinidad è anche una città-approdo in cui vegeta uno come Alain – un uomo troppo stupido per essere vero – che solo grazie alla sua fisicità (il corpo, appunto) riesce a colpire l’attenzione di Antoine salvandolo dal pestaggio di cui è vittima. Alain è un inetto e un ingenuo, un giovane tanto ambizioso (“Io ottengo sempre ciò che voglio” – dice ad Antoine) a parole, quanto vigliacco e incapace nei fatti. In fondo, Alain è proprio un “nessuno” (come viene apostrofato da Antoine durante l’indianata), un corpo e basta: necessario – con i muscoli per fare il lavoro del suo capo mentre lui si crogiola sull’amaca ingollando litri di rhum – e con le mani sia per dare piacere a Princess e sia per farsi armare da lei per uccidere Antoine (senza riuscirci, ovviamente).

In città vive Madeleine, la moglie di Antoine, una donna sola e disperata ma perfettamente lucida nel leggere tra le righe del triangolo che sull’isolotto si agita tra Eros e Thanatos: “Io non mi fido di uno che non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare” dice ad Alain poco prima di rivelargli che lei sa che Antoine è morto; “Quella bastarda è capace di tutto” afferma più volte riferendosi a Princess, persino anticipando la possibile fine sua e del marito destinati a rimanere su quell’isola ma come cadaveri.

Questo microcosmo dedito ad un gioco al massacro più per noia che per reali necessità è tratteggiato da Luigi Scattini attraverso nervose riprese con la macchina a mano alternate a lunghi carrelli e panoramiche descrittive. Gli stacchi improvvisi sui primissimi piani dei personaggi trasformano i loro volti in maschere grottesche e diaboliche – così come fa la recitazione: sovraeccitata e teatrale di Enrico Maria Salerno, quella dimessa e monocorde di Leonard Mann [Leonardo Manzella], quella scolastica ed elementare di Carrol Baker e quella per sottrazione – che esalta sguardi ed espressioni – di Zeudi Araya. Ne consegue che ne Il corpo la ripresa in stile documentario – marchio di fabbrica del regista – Luigi Scattini la relega in secondo piano – anche perché in quest’esotismo non c’è nulla di accattivante – isolandola in un’unica sequenza – il Sanctuary dove gli Scarlet Ibis nidificano tra le mangrovie dal fascino magnetico e dallo scenario meraviglioso. Tutto il film ha un impianto fortemente cinematografico – e non caso visto che si tratta di un racconto equivoco – in cui non si capisce dove finisce la realtà e inizia il sogno – dai tratti fortemente allegorici. Il montaggio più volte, elimina il parlato per lasciare spazio alla musica di Piero Umiliani a commento delle immagini, mentre – altre volte – elimina la colonna sonora per lasciare spazio allo sciabordio delle onde. Scelte che rendono Il corpo un film di difficile classificazione: banale, inconcludente e persino ripetitivo se lo si guarda in maniera superficiale, criptico, ondivago e affascinate se si guarda in profondità e se si entra nell’atmosfera appiccicosa e urticante in cui è avvolta la vicenda.

Negli ultimi venti minuti di pellicola – quelli in cui il regista sembra ammiccare al Roman Polanski degli esordi – il film letteralmente si sfalda dal punto di vista narrativo per lasciare spazio all’immagine e alla sua forza simbolica. Sono i minuti in cui – a livello narrativo – il destino, la casualità e le coincidenze fortuite sembrano alimentare le possibilità di fuga di Alain e Princess, e sono quelli che – a livello figurativo – rivelano la trappola rappresentata dall’esotismo. Tra i fumi neri di un falò sulla spiaggia che si perdono in un cielo altrettanto nero che minaccia tempesta, lei, lui e l’altro inscenano il simulacro di un rito tribale (con danze e fuga in mare a bordo di una barca fatiscente) ad alto tasso alcoolemico destinato a concludersi con il casuale e tragico – quanto ricercato e fortemente voluto – annegamento di Antoine, l’ultimo ostacolo sulla via della fuga, della salvezza e dell’approdo sicuro. Paradossalmente, però, è proprio in quello stesso momento che la fuga diventa negata, perché un altro nemico – invisibile e ben più subdolo – si insinua sotto la pelle dei due giovani pronti a salpare verso l’Europa: la paura. Paura di essere scoperti e quindi bloccati in prigione, ma anche e soprattutto – ed questo che realmente interessa a Scattini – paura di non essere adatti, di essere inadeguati alla vita occidentale. A dimostrazione di ciò ci sono sia il pianto reale di Princess chiusa in camera con il volto – stretto in un primo piano rivelatore della sincerità – appoggiato alle imposte nel momento in cui Alain le rivela che Madeleine sa tutto, sia il modo in cui i due si presentano al check-in della compagnia aerea BOAC (British Overseas Airways Corporation – attiva dal 1939 al 1974) in cui si avverte che persino i vestiti indossati stridono con le reali pretese di libertà dei due. Vestiti che li rendono appariscenti – e pertanto riconoscibili – da Madeline che senza apparente motivo deambula per l’aeroporto chiedendo misteriose informazioni (di cui non si sente il sonoro) a poliziotti e steward.

Luigi Scattini realizza le riprese di questa sequenza sempre mettendo nell’inquadratura, i due giovani in primo piano e – con effetto flou – Madeleine i profondità di campo per mostrare allo spettatore come l’agire della donna influenzi i comportamenti della coppia. E’, quindi, inevitabile che la tragedia si compia, la paura prenda il sopravvento e coincida con una pallottola sparata da un anonimo funzionario che penetra la carne di Alain in fuga sulla pista per far uscire un rivolo di colore rosso che non ha nulla del romantico dei tramonti caraibici bensì il sapore acre e pungente della sconfitta e della disillusione. Alla vista della morte di Alain, Princess compie l’inutile sacrificio di immolare il suo giovane corpo “divino e perfetto” contro il carburatore di una jeep in transito sulla pista dell’aeroporto: la sua morte, è stato l’unico gesto realmente spontaneo della sua breve esistenza, un gesto d’amore estremo e inutile ma che, cinematograficamente, la riconsegna all’immaginario dello spettatore: le strappa di dosso la pelle diabolica del Male per rivestirla del candore dell’innocenza perduta dell’esotismo.

di Fabrizio Fogliato

 

IL CORPO
Regia/Director: Luigi Scattini
Soggetto/Subject: Massimo Felisatti, Fabio Pittorru
Sceneggiatura/Screenplay: Massimo Felisatti, Fabio Pittorru, Luigi Scattini
Interpreti/Actors: Enrico Maria Salerno (Antonio), Zeudi Araya (Princess), Leonard Mann [Leonardo Manzella] (Alain Breton), Carroll Baker (Madeleine), Luigi Antonio Guerra, Mario Garriba
Fotografia/Photography: Anton Giulio Borghesi
Musica/Music: Piero Umiliani
Costumi/Costume Design: Cristina Lorenzi
Scene/Scene Design: Gastone Carsetti
Montaggio/Editing: Graziella Zita
Suono/Sound: Fiorenzo Magli
Produzione/Production: Filmarpa, P.A.C. – Produzioni Atlas Consorziate
Distribuzione/Distribution: P.A.C.
Censura: 64150 del 06-03-1974

BUONE NOTIZIE – LA PERSONALITA’ DELLA VITTIMA (1979) di Elio Petri

Elio Petri rilegge Jean-Paul Sartre. Riflessione disordinata e ghignante su uno spettacolo privato

“Il senso della morte era un’ossessione. In certi momenti il sentimento della morte era così forte che non riuscivo più a mangiare e a dormire”. Per un regista dalla personalità poliedrica e complessa come Elio Petri le ossessioni personali, le disillusioni verso un mondo che stenta a riconoscere (e a riconoscerlo) prendono forma attraverso concetti scritti in ordine sparso come fossero degli appunti: la paura della morte, la depressione latente, le perplessità di fronte a una realtà storica che ha tradito le aspettative rivoluzionarie. “Per fare un film bisogna avere, oggi molta follia e molto amore per il cinema. E questo è probabilmente l’unico aspetto positivo della faccenda”. Nell’ultimo periodo della sua vita (stroncato da un tumore all’età di 53 anni il 10 novembre 1982), il regista si trova stretto in un vicolo cieco in cui le pareti dell’incomunicabilità da un lato e della paura della morte dall’altro, stritolano la sua ispirazione facendo emergere – sottoforma di sgradevolezza programmata – solo malessere e sofferenza dell’artista. Ecco allora che il cinema deve prendere strade diverse: non più metafora ma analisi esistenziale, non più dinamismo della messa in scena ma staticità (debordante del primo piano), non più ricerca del successo ma riflessione disordinata e ghignante su uno spettacolo privato come è quello della vita di coppia.