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Fabrizio Fogliato

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BLIND HUSBANDS (Mariti ciechi/La legge della montagna, 1919) di Erich Von Stroheim

Erotismo latente, ambienti psicologici, rapporti crudeli, personaggi immorali, seduttori sordidi e luciferini nel primo film di Erich Von Stroheim

 

La biografia di alcuni registi spesso sfocia nella leggenda. Soprattutto durante il periodo della Silent Era in cui il personaggio pubblico diventa predominante su quello privato e – particolarmente durante gli anni ’10, in cui la figura di alcuni registi diventa sinonimo di clamore e successo – si registrano biografie prevalentemente immaginarie in grado di rappresentare al meglio personaggi dai contorni ben definiti senza creare distinzione tra dentro e fuori lo schermo. È il caso questo di Erich Von Stroheim il quale è prima attore, poi aiuto regista per David W. Griffith (Intollerance, 1915 e Hearts of the world, 1918) e, infine, regista dei suoi film.

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Nato vicino a Vienna nel 1885, emigra negli Stati Uniti all’inizio del ‘900. Sin da subito arricchisce il suo passato biografico di particolari inventati: il prefisso “Von” che richiama ad una discendenza nobile (mentre i genitori sono mercanti), il grado di ufficiale di cavalleria dell’impero austro-ungarico, (mentre a vent’anni diserta l’esercito) e una vocazione alla magniloquenza che se da un lato si manifesta nel suo cinema titanico, dall’altro diventa la zavorra che appesantisce ogni sua produzione – solo il primo dei suoi film può considerarsi veramente suo. L’intento di Stroheim è soprattutto quello di incarnare fuori e dentro lo schermo il suo personaggio feticcio, quello del militare prussiano, arrogante, perfido e meschino che indossa la divisa come una seconda pelle e che si atteggia con comportamento marziale e impeccabile salvo poi di svelare un animo dissoluto e immorale.

BO ARNE VIBENIUS: THRILLER – EN GRYM FILM (1972) / BREAKING POINT – PORNOGRAFISK THRILLER (1975)

“Tutto questo sangue, questa violenza, …e io che pensavo che la vostra fosse la generazione dell’amore!” (Last house on the Left)

Nel 1972 il professor universitario Wes Craven e il produttore Sean S. Cunningham portano sugli schermi americani un piccolo film dal titolo: Last House on the left (L’ultima casa a sinistra). I due sono quasi esordienti, hanno alle spalle solo un sexy-educational intitolato Together (id. 1970, interpretato dalla futura pornodiva Marilyn Chambers) ma grazie ai $ 50.000 offerti dalla Hallmark mettono insieme il film che sarà destinato a cambiare per sempre le regole della rappresentazione della violenza.

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Il film ispirato a La Fontana della Vergine di Ingmar Bergman, racconta la storia di violenze, stupri, umiliazioni e infine l’uccisione, subiti da due ragazze di provincia da parte di un gruppo di evasi feroci e sanguinari. Questi poi casualmente, durante la loro fuga, troveranno rifugio nella casa dei genitori di una delle due ragazze uccise. Qui, in maniera fortuita la madre scoprirà ciò che è successo e, d’accordo col marito, metterà in atto una selvaggia e rabbiosa vendetta. Il film, semplicistico, zoppicante – nella seconda parte davvero inverosimile, tale e tante sono le incredibili circostanze che guidano lo spettatore verso il sanguinoso epilogo – vuole essere nelle intenzioni di Craven e Cunningham una riflessione critica sul nucleo familiare, visto come coacervo di tensioni, violenze e rancori. Se questo obiettivo rimane solo sfiorato, il film ha importanza per come rappresenta in modo crudo ed efferato, e volutamente compiaciuto, la violenza, la rabbia e l’animalità dell’uomo, figlia, come ricorda lo steso Craven delle immagini di morte proventi dalla guerra nel sud-est asiatico.

THE SHOCK (1923) di Lambert Hillyer

Scavando negli oscuri registri del passato, una spaventosa pagina attira l’attenzione. Chinatown, quartiere del crimine, della paura, dell’odio e del mistero…il Cafè Mandarin, un vortice di vizi e di intrighi.

Anche nel periodo del cinema muto c’è stato (come sempre in tutta la storia del cinema) un cinema medio e popolare di matrice artigianale in grado di coinvolgere grandi masse di pubblico e di emozionare platee sterminate. A distanza di più di un secolo è talvolta difficile reperire questi film e ritrovare nel restauro la possibilità di conoscerli. Da sempre relegate nella categoria (pretestuosa) dei B-Movies, queste pellicole non trovano cittadinanza né sui libri di storia, né tanto meno sulle riviste di critica. Considerate opere minori (come in effetti sono), prive di valore artistico e di interessanti spunti critico-semiologici, realizzate da registi anonimi e spesso sconosciuti, alcune di esse tuttavia contengono elementi sorprendenti e situazioni anticipatrici dei “grandi classici”. The Shock di Lambert Hillyer è pienamente ascrivibile a questa categoria di film, ma a differenza di altri, fruisce della presenza di Lon Chaney nel ruolo di protagonista, di un villain donna difficilmente dimenticabile e della sorprendente e spettacolare distruzione di San Francisco nel finale del film

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Nato nello stato dell’Indiana nel 1889 dall’attrice Lydia Knott specializzata in ruoli western, Lambert Hillyer frequenta il mondo dello spettacolo sin da quando è bambino. Nei primi anni della sua carriera si dedica sia al giornalismo, sia al ruolo di scrittore. A partire dal 1917 comincia a lavorare per il mondo del cinema scrivendo sceneggiature e firmando regie di film di largo consumo: prevalentemente western ma anche melodrammi e polizieschi. La professione di regista la apprende e la perfeziona a Inceville sotto la supervisione del magnate del cinema muto Thomas Ince. A ventinove anni esordisce dietro la macchina da presa, con il film Strife (1917); nel 1919 gira Square Deal Sanderson e per tutti gli anni ’10 lega il suo nome al genere western e al sodalizio artistico con l’attore William S. Hart, che proprio grazie ai film di Hillyer diventa una star. Altri attori lanciati da Hillyer sono divenuti beniamini del grande pubblico come Buck Jones e Tom Mix, ma il regista dell’Indiana ha lavorato nella sua lunga e prolifica carriera anche con Lon Chaney (The Shock, 1923), Boris Karloff e Bela Lugosi (The Invisible ray, 1936). Successivamente alterna la sua produzione dividendosi tra cinema e televisione e nei primi anni ’50 diventa il regista principale della pioneristica serie televisiva western The Cisco Kid. Dopo questa esperienza decide di ritirarsi dalle scene. Muore a Los Angeles nel 1969. Lambert Hillyer non è nulla più che un onesto artigiano, capace e meticoloso, interessato a dirigere opere non particolarmente complesse indirizzate ad un pubblico eterogeneo e copioso, caratterizzate da una sorprendente vivacità della messa in scena e da un montaggio serrato e dinamico decisamente in anticipo sui tempi.

JADE (1995) di William Friedkin

Fetish of evidence: i feticci della società dell’immagine.

La prima metà degli anni ’90 segna l’esplosione cinematografica del thriller-erotico, e contemporaneamente l’affermazione multimiliardaria dello sceneggiatore Joe Eszterhas, il quale con i suoi script (Basic Instinct su tutti) costruisce un breve filone di successo, capace nel giro di pochi anni di dare vita ad una serie di epigoni minori (dei quali il migliore rimane The Last Seduction di John Dahl (1993)). L’autore delle sceneggiature di Basic Instinct (di Paul Verhoeven, 1992), Sliver (di Philip Noyce, 1993), e Jade (di William Friedkin, 1995), è un abile manipolatore e un furbo venditore di se stesso che, attraverso una serie di script scadenti e velleitari, riesce a far credere a Hollywood di essere il nuovo Re Mida del cinema. Di quanto esiguo, sia il contributo del suo lavoro per la riuscita o meno di un film, è dimostrato dal fatto che l’unico dei tre succitati, Sliver (che mortifica il romanzo omonimo di Ira Levin), girato non da un “autore” – ma da un abile mestierante come Philip Noyce – risulta debole, improbabile e lacunoso, anche sul versante del cotè erotico – a differenza degli altri due in cui la sapiente mano di Verhoeven in un caso e quella di Friedkin nell’altro riescono a sorvolare su dialoghi risibili e scontati, per costruire tutto l’impatto dei due film solo ed esclusivamente attraverso la regia e la messa in scena.

THE ATROCITY EXHIBITION (2000) di Jonathan Weiss

La filosofia dell’atrocità secondo James G. Ballard: il controllo del tempo, la realtà pervasiva dei media, automobili come oggetti-feticcio sessualizzati e l’ossessione delle psicopatologie.

The Atrocity Exhibition di Jonathan Weiss, a partire dal suo completamento non è quasi mai stato proiettato. Il regista ha lavorato con risorse molto limitate, e ha dovuto gestire continue interruzioni produttive a causa della carenza di fondi che hanno portato lo sviluppo del processo creativo a prolungarsi per alcuni anni. Il director’s cut originale ha una durata di 105′, mentre una versione decurtata fino a 90′, e non ancora ultimata, è stata proiettata a Rotterdam nel 1998 e allo Slamdance Festival del 1999. Il senso dell’operazione è racchiuso nelle parole dello stesso regista: “Chi pensa che il mondo rappresentato nel libro di Ballard sia ormai superato, rimarrà fortemente deluso. I contenuti sono di una attualità sconcertante: non viviamo in un paesaggio dove la realtà pervasiva dei media controlla il nostro tempo? Non siamo ossessionati e consumati da psicopatologie che creano e determinano le nostre relazioni con noi stessi, la nostra famiglia e gli amici, i nostri modelli, i nostri governi? Non è che le nostre automobili e altri veicoli sono diventati degli oggetti-feticcio sessualizzati?” (Simon Sellars, ballardian.com)

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Il film diretto nel 2000 dall’australiano Jonathan Weiss e scritto in collaborazione con Michael Kirby, non è mai uscito nelle sale, ma ha ricevuto la gratificazione dell’entusiasmo dello stesso Ballard, che dopo la visione ne ha suggerito l’aggiunta dell’introduzione iniziale. Il “corridoio della paura” percorso dalla macchina da presa che si avvicina con un lento carrello alle spalle del Dott. Traven all’inizio del film (che è complementare allo stesso corridoio percorso dalla steady cam nel finale del film) ha come geometrica direzione universale quella del bianco totale che appare sullo sfondo dello schermo: una sorta di visione astratta della morte.

01 Maggio 1994 – SENNA (2010) di Asif Kapadia

L’Ultimo e il Primo

Imola 30 Aprile 1994 – Roland Ratzenberger (AUT) – Imola 01 Maggio 1994 – Ayrton Senna (BRA)

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Senna
di Asif Kapadia
(UK/2010)

Uomini in carne ossa dentro gli abitacoli, macchine che diventano protesi organiche: un racconto di vita e un atto d’amore verso un campione. Il ritratto luci e ombre di un uomo che ha fatto del rischio la sua professione e che è morto per un “incidente” sul lavoro. Un poeta della velocità e un esteta dell’estremo. Mai in un documentario il ritratto di un campione è stato così lucido, coerente e privo di giudizio, e mai le immagini della realtà sono state in grado di cogliere così minuziosamente la spiritualità dello sport.

di Fabrizio Fogliato

TECNICA DI UN AMORE (1973) di Brunello Rondi

La libertà è un feroce predatore che uccide il pavido e l’ingenuo, che annulla l’ipocrita e che sbrana il presuntuoso.

Oggetto misterioso per lungo tempo, l’ottavo film da regista di Brunello Rondi è oggi finalmente visibile nella copia depositata presso la cineteca nazionale. Il film è registrato al visto censura con la durata di 100 min., mentre la copia a disposizione ne dura appena 81; difficile dunque dare una valutazione complessiva di Tecnica di un amore, anche perchè quella oggi visionabile è una copia in cui anche il montaggio non sembra seguire l’ordine cronologico degli avvenimenti (i riferimenti sono i vestiti dei protagonisti, che nella seconda parte del film cambiano improvvisamente riportando lo spettatore a scene già viste e interrotte nel primo tempo), frutto probabilmente di un assemblaggio frettoloso e non filologico. Da ciò che rimane di Tecnica di un amore, è molto difficile trarre un giudizio esaustivo su quali fossero le intenzioni del regista, anche perchè già in fase di presentazione, il film viene bocciato in primo grado l’01.03.1973, e nel verbale della commissione si legge: “Il film è tutto improntato ad un ossessivo erotismo e sia il dialogo chetalune sequenze (…) sono descritte con realismo sessuale così crudo da realizzare certamente offesa al buon costume” (Alessio Di Rocco in Nocturno n.86).

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Il blocco viene revocato in appello ma il film subisce tagli consistenti che ne snaturano l’impianto originario. Dalle parole del direttore della fotografia Claudio Racca, si può apprendere il contesto in cui si sviluppa la produzione della pellicola: “Fu girato a Ponza, sul panfilo di Adelina Tattilo, che era la produttrice insieme a Carlo Maietto. La protagonista era Janet Agren, che stava vivendo la sua storia d’amore con Maietto, e aveva soppiantato la prima attrice designata, Erna Schurer, ex dello stesso Maietto, insomma, si lavorò tra questi intrghi sentimentali. Brunello Rondi, con il quale collaborai ancora come direttore della fotografia, per Valeria dentro e fuori, era un ottimo regista, un intellettuale …”.

JACOPETTI FILES Biografia di un genere cinematografico italiano

Rassegna Stampa – Marzo/Aprile 2017

JACOPETTI FILES – Elaborando un autore (controverso)

[…] Trasversale perché Gualtiero Jacopetti – per noi – è il nome attorno a cui nei primi anni’60 si consolida una vera e propria factory (Franco Prosperi, Paolo Cavara, Stanis Nievo, Antonio Climati, Mario Morra) che dopo l’opera iniziale Mondo cane subirà una vera e propria diaspora in cui ogni protagonista continuerà – a modo suo – l’indagine attorno al mondo iniziata dal capostipite. Insomma rimarranno tutti legati al genere di riferimento e – in qualche modo – cercheranno di dare versioni e declinazioni personali del mondo movie. Segmentata perché nel libro sono presi in considerazione ben diciotto film – compresa l’opera degna e meritoria di riscoperta di Alfredo e Angelo Castiglioni – che indagano il genere e che da Jacopetti progressivamente si allontanano sempre più.

dall’intervista a  cinemaitaliano.info

Leggi l’intera rassegna stampa con recensioni, interviste radio, interventi di scrittori ed esperti… e tanto altro ancora

THE LODGER: A STORY OF THE LONDON FOG (1926) di Alfred Hitchcock

Suspance ininterrotta, inganno delle apparenze e codificazione di uno stile. Il cinema triangolare di Alfred Hitchcock tra erotismo, tensione, e parodia.

 Alfred Joseph Hitchcock nasce a Leytonstone a Est di Londra, il 13 agosto 1899. Cresce sotto una ferrea educazione di stampo cattolico e, a cinque anni – secondo un suo stesso racconto (di dubbia certezza) – dopo una innocente marachella viene portato dal padre in commissariato dove il poliziotto di turno viene invitato dal genitore a rinchiudere il bambino in cella per pochi minuti. L’episodio – nelle testimonianze del regista – è alla base delle sue fobie e dei suoi temi cinematografici così come è esplicito dell’avversione verso la giustizia, verso i suoi metodi e verso ogni tipo di uniforme.

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Incallito cinefilo, Hitchcock approda al mondo del cinema nelle vesti di sceneggiatore e, nel 1923, in seguito all’allontanamento del regista Graham Cutts dal set del film Always Tell Your Wife, esordisce alla regia sostituendolo e garantendosi un contratto per il successivo Number 13 (vero esordio cinematografico) – film di cui oggi non rimane più traccia a causa del fallimento della società produttrice durante la lavorazione che ha come conseguenza la distruzione del negativo girato. Anche del suo secondo film The Mountain Eagle non rimane quasi nulla se non i pochi fotogrammi pubblicati nel libro-intervista di Francois Truffaut.

AUTOFOCUS (2002) di Paul Schrader – Parte Seconda

E Dio disse a Caino: guarda come ti ammazzo una star della televisione

Il sesso e la sua consumazione, orgiastica e seriale, l’accumulo di corpi femminili ogni volta diversi e sempre uguali, si susseguono nella vita di Crane, il quale preso nel delirio di onnipotenza garantitogli da Hogan’s heroes, tenta di riprodurre e replicare all’infinito i suoi incontri sessuali rendendoli “eterni” attraverso l’impressione su nastro e prodigandosi in un lavoro/dipendenza in cui colleziona polaroid che certificano le diversità dei caratteri sessuali delle donne che incontra, focalizzando prevalentemente la sua attenzione sul seno (come testimonia il “montaggio sequenziale” in cui Schrader mostra seni di ogni tipo, età ed epoca, come a voler rappresentare un tipo di maschio esistente da sempre). Bob Crane, è affetto da una solitudine persistente e patologica,   ed è chiuso in un concetto di sessualità infantile e coatto, come dimostra la scena della consumazione onanistica degli home movies pornografici da parte di John e Bob nella taverna della casa di Patty. Il suo dunque, nell’ottica integralista e calvinista di Schrader è un “peccato mortale” perchè legato al raggiungimento di un piacere vuoto e momentaneo, slegato da qualsivoglia implicazione sentimentale: stando così le cose appare quasi inevitabile, quindi, che l’espiazione della colpa passi attraverso la morte. La morte “di finzione” di Bob Crane mostrata in Autofocus, non è molto dissimile da quella documentata dalla sua biografia e testimoniata dalle vicende seguenti il ritrovamento del suo cadavere.

AUTO FOCUS WILLEM DAFOE, GREG KINNEAR Ref: 11881 Supplied by Capital Pictures *Film Still - Editorial Use Only* Tel: +44 (0)20 7253 1122 www.capitalpictures.com sales@capitalpictures.com (F/SD012)

Nell’edizione finale del film, Paul Schrader ha (giustamente) eliminato la scena in cui viene mostrato il ritrovamento del corpo esanime di Crane da parte di Victoria Berry, sua compagna di lavoro nella piece teatrale Beginner’s Luck. Nel momento in cui la donna entra nell’appartamento, ancora ignara dell’accaduto, è testimoniata tutta la parabola auto-distruttiva dell’attore, e il luogo stesso (l’appartamento al Windfield Complex) assume valore metaforico nella sua “messa in scena” scenografica. Nel documentario Murder in Scottsdale (id., 2001) di David Naylor il ritrovamento del cadavere di Bob Crane, alle 13.00 del 29 Giugno 1978 è raccontato con dovizia di particolari dalla viva voce di Stephen Avilla, l’avvocato difensore di John Carpenter e da quella di Jim Raines, all’epoca procuratore della contea di Marcopa: “L’appartamento è completamente buio, non si riesce a vedere all’interno senza accendere la luce. Crane aveva messo delle tende molto scure per nascondere tutta la pornografia che aveva e le fotografie cui stava lavorando, oltre che nascondere quello che faceva giorno e notte con le donne che portava lì. Quindi, quando Victoria apre la porta, passa dalla luce accecante del sole dell’Arizona alle 13.00 del mattino alla stanza buia dell’appartamento di Crane. Entrata, si chiude la porta alle spalle. A quel punto è estremamente buio e lei non accende la luce. Chiama Bob ma non riceve risposta, si addentra ulteriormente nell’appartamento e nota che la porta della camera da letto è socchiusa. E’ tutto oscurato. Le tende sono tirate. Si avvicina alla porta, guarda dentro e vede il contorno indistinto di qualcuno sul letto. Si avvicina convinta che si tratti di una donna visto che la zona della testa è più scura. A quel punto nota che si tratta di sangue, sangue coagulato”.

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Gli agenti intervistati nel documentario parlano di una scena del delitto caotica in cui c’è gente che fuma, che telefona. Scottsdale è un piccolo centro di provincia, e la polizia di non è abituata agli omicidi di celebrità, così si trova per le mai un caso più grande di lei, difficile da gestire e da controllare. Gli indizi conducono a John Carpenter come principale indiziato, ma né le indagini del 1978 né quelle di dieci anni dopo ordinate dal nuovo procuratore della contea di Marcopa Richard Romley, che fa riaprire le indagini anche per interessi politici ed elettorali, portano alla soluzione del caso. Nel 1988 John Carpernter va a processo, un processo indiziario, che si risolve con la soluzione dell’imputato che successivamente muore di infarto all’età di settantadue anni. Ma questa parte processuale non interessa al regista, che concentra la propria attenzione sulla parabola esistenziale del protagonista. Paul schrader, attraverso il racconto dell’ascesa e del declino dell’attore, ambisce a costruire la rappresentazione, distonica e alterata, dell’ “American way of life”; lo fa frammentando e distruggendo il concetto di successo (e della presunta felicità ad esso collegato), inteso come mitizzazione dell’individuo (e di conseguenza spersonalizzazione dello stesso). Bob Crane, una volta divenuto popolare, impara a costruirsi una identità fittizia e onnipotente in cui convivono, contemporaneamente, il buon padre di famiglia (premuroso con i figli e pacato con la mogli) e il dipendente dal sesso (onnivoro e insaziabile). Il sesso nella vita di Bob Crane agisce da moneta di scambio per affermare (comprare) la propria personalità: faccio sesso con centinaia di donne che vengono con me solo perchè sono Bob Crane, quindi esisto non solo come immagine. Anche durante gli amplessi, in fondo, Crane non fa niente altro che interpretare una parte, quella che lui stesso si è cucito addosso, evocata già dalla voce-off in prima persona che chiude la prima scena del film: “Io ho sempre voluto farmi notare. Avete presente il tipo no? Ce n’è uno in ogni classe: lo sbruffone. Eddie Cantor mi disse che piacere è già il 90% dell’opera… e aveva ragione. Beh! Quello sono io. Un tipo che piace”.

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L’edonismo, l’apparire , il “piacere” (inteso anche come stato di estasi sessuale), vengono dipinti da Schrader come qualcosa di momentaneo, legato al concetto filosofico di “permanenza del possibile”, uno stato transitorio che non conduce mai alla felicità perchè (come la pornografia) la rimanda di orgasmo in orgasmo. La trappola schraderiana in Atofocus, non è orchestrata sulla superficie di un desiderio sessuale patologico, ma è rappresentata da qualcosa di ben più profondo, di intangibile e sfuggente come il “peccato originale”; che si tratti di qualcosa di intimo e religioso, slegato sia dalla carriera che dal mestiere di attore (con relativa popolarità annessa) è testimoniato dalla presenza, nelle scene iniziali del film, di Bob e sua moglie Anne, in chiesa durante la messa, e le parole, pronunciate dal prete, che chiudono la scena sono appunto: “…E tornerà nuovamente per giudicare i vivi e i morti”. La tentazione si fa carne con il proseguire del film, il giudizio divino è sempre immanente, e l’edonismo patologico di Bob Crane viene trasfigurato in un perverso gusto del piacere onanistico: il suo egoismo implica che la partner di turno, non sia altro che carne, uno strumento per il suo piacere, privo di volontà, sentimenti, ed emozioni. La morte è un sacrificio necessario per mondare i propri peccati e per espiare la colpa primordiale; condizione accentuata, nel film, dalla pena del contrappasso che porta Crane ad essere ucciso con un treppiede per macchina fotografica: lo strumento di piacere che si fa strumento di morte La morte porta con se anche la fine della propria immagine nella realtà ma non nella finzione, infatti, la riproducibilità delle immagini, la loro continuità rappresentata dai nastri del VTR permettono la prosecuzione della vita di fiction e legano l’occhio dello spettatore con quello meccanico della cinepresa e con l’immagine amatoriale riprodotta.

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Paul Schrader, in Autofocus, costruisce un percorso “visivo” in cui la dualità e l’anomia di Bob Crane si esplicano attravrso l’indistinta rappresentazione delle immagini da lui riprese: senza soluzione di continuità egli passa da riprendere le immagini di vita familiare (i bambini che giocano sul tappeto, la moglie che lava i piatti), a farsi riprendere dall’amico e sodale John Carpenter mentre una donna gli pratica una fellatio (oltre ad orge, e ogni prestazione sessuale da lui consumata). Quando si rivede nell’uno come nell’altro caso, la soddisfazione sul suo volto è la stessa: per lui non c’è alcuna differenza perchè l’importante è rivedersi (e in questo Crane rappresenta un antesignano del narcisismo oggi imperante nell’industria dell’immagine), stare davanti ad una videocamera o ad una macchina da presa, sorridere all’obiettivo, ammiccare, sedurre plasmare i propri spettatori. Non è casuale che per converso e con non poche implicazioni e ambiguità di carattere omosessuale, John Carpenter replichi a Crane dicendogli che invece lui preferisce stare dietro la macchina da presa o la videocamera, perchè ogni attore, per esistere, ha bisogno di un operatore/regista, così come ogni narciso dello specchio, perchè quello che conta è affermare la propria immagine, esistere per piacere (anche solo a se stesso). “La famiglia prima di tutto…E’ certo più importante di un qualsiasi programma televisivo” chiosa Crane di fronte alle perplessità della moglie riguardo al recitare in un serial comico sull’olocausto, ma allo stesso tempo, l’inibizione imposta dalla donna al marito, descrive al meglio la condizione di repressione in cui egli è costretto per la necessità di apparire ipocritamente “normale”. Poco dopo, sempre Anne, gli rimprovera la presenza di pornografia nel garage: badando al puritanesimo di facciata, la donna non si accorge delle devianze del marito.

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Che l’impianto di Autofocus sia improntato alla rappresentazione morale della scelta e del peccato è certificato dal dialogo imbarazzato tra Bob (in cerca di una possibile confessione) e il prete (conscio del problema di Bob e della sottovalutazione dello stesso) alla tavola calda, in cui mentre Crane è distratto dalle grazie di una giovane fan, il prete e amico gli intima severe: “Bisogna allontanarsi dalle occasioni di peccato”. Il voyeurismo, dunque è una occasione di peccato e in quanto tale sono colpevoli tanto il protagonista quanto il regista quanto lo spettatore, e la moltiplicazione del quadro mostrata in più scene del film ha la forte valenza morale di far riflettere chiunque guardi sulla responsabilità insita nell’atto. Durante l’incontro con la ragazza bionda e quella mora, Carpenter riprende Crane e al termine della serata gli mostra quanto fatto. Nella scena si vede Carpenter che mostra all’amico le riprese in cui si vede Bob che fotografa la ragazza mentre lei si spoglia, loro due sono sul divano e guardano le immagini sullo schermo televisivo (e in queste si vede Bob che guarda la donna attraverso l’obiettivo della Polaroid), mentre l’inquadratura oggettiva mostra allo spettatore tutta la scena: lo sguardo è moltiplicato, potenzialmente all’infinito, così come ogni immagine replica se stessa. Attraverso questo semplice espediente cinematografico la “visione morale” del regista si impone agli occhi dello spettatore e mette a confronto la sua “colpa” con quella del personaggio, il cui slogan è: “Un giorno senza sesso è un giorno sprecato”. La realtà non è più sufficiente e il peccato passa anche attraverso la riproducibilità della stessa, e la necessità è quella di essere in possesso dei supporti adeguati per poterla “controllare” (le funzioni del VTR allora e quelle del telecomando oggi) come afferma Bob Crane durante l’allucinazione sul set di Hogan’s heroes: “Non riesco a pensare ad altro che il sesso: fare sesso, filmare sesso, guardare sesso… ma non tutti hanno il proprio esperto video… tra il sesso, Patty e le checche…non riconosco più la mia vita…”

di Fabrizio Fogliato