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L’Italia s’è rotta

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AVERE VENT’ANNI (1978) di Fernando Di Leo – Parte Seconda

Ritratto selvaggio di un paese senza futuro

 

Erroneamente si parla, da sempre, di Avere vent’anni come di un road movie: in realtà il film si svolge per l’80% a Roma e solo per un 20% affronta spostamenti e/o divagazioni “on the road”. Certo se lo si intende come un “viaggio” all’interno del contesto sociale italiano di quegli anni, allora il genere può apparire appropriato, altrimenti non si può non notare come la pellicola di Fernando di Leo altro non sia che la rappresentazione spettrale di qualcosa che è esistito nella mente delle giovani generazioni e subito svanito con le percosse e la repressione autocratica di una nazione che vuole limitare la libertà in quanto ritiene che questa è foriera solo di disordine all’interno dell’ordine dello status-quo precostituito.

AVERE VENT’ANNI (1978) di Fernando Di Leo – Parte Prima

Partitura incompiuta per un film mancato

 

Com’è triste aver vent’anni… tra il proibito e l’illusione,

scoprire che la vita peggiorerà.

Gli entusiasmi dei vent’anni… stai attento a come vivi!

Ormai non c’è altro da credere che non bruci in un momento”

                                                                                                (Spadaccino/di Leo – Gloria Guida)

Lia (Gloria Guida) e Tina (Lilli Carati) sono due belle ragazze che si incontrano per caso su una spiaggia. Decidono di andare a Roma facendo l’autostop. Giunte nella capitale si procurano (a modo loro) da mangiare, caffè e sigarette, e poi si dirigono verso la comune di Piazza Dante 21 gestita da Michele Palumbo (Vittorio Caprioli) detto “il nazariota”. Qui intreccino diversi rapporti più o meno amichevoli con “il riccioletto” (Vincenzo Crocitti), Rico (Ray Lovelock), Argiumas (Leopoldo Mastelloni) …Personaggi strani, anomali, quasi spettrali che popolano uno spazio vuoto e desolante. Per mantenersi e su invito del “nazariota” le due giovani cominciano a vendere enciclopedie nei quartier bene della capitale e anche qui incontrano uomini e donne da “fine dell’impero”, tra cui il Prof. Affatati (Danele Vargas), una borghese sola (Licinia Lentini) e un pensionato ministeriale (Fernando Cerulli). Fatto ritorno alla comune, vengono arrestate con tutti gli abitanti a seguito di una retata della polizia guidata dal commissario Zamboni (Giorgio Bracardi). Viene dato loro il foglio di via per fare ritorno al loro paese. Non ci arriveranno mai, perché sulla via del ritorno, in una trattoria isolata nel bosco si imbattono in un branco di balordi che le stuprano e le uccidono brutalmente.

Il titolo del film, come noto, prende spunto dall’epigrafe in calce alla prefazione di “Aden Arabia” opera del filosofo e scrittore Paul Nizan già amico di Jean-Paul Sartre e fervente comunista francese fino al momento dell’abiura ideologica in seguito alla firma del patto Ribbentrop-Molotov del 1939: “Avevo vent’anni… Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”.

SUOR OMICIDI (The Killer Nun, 1978) di Giulio Berruti

Ite, missa est!

 

Prodotto da Enzo Gallo, che in realtà si preoccupa solo di depositare un titolo di giornale che recita appunto Suor omicidi, questa è una delle pellicole più iconoclaste e provocatorie che il nostro cinema di genere abbia mai prodotto. Intelligente e raffinato nella messa in scena, il film appartiene di diritto a quel cinema medio trans-genere, in grado (più di ogni altro) di leggere e filtrare la realtà. Uscito nel 1978 ed esempio pregnante del filone denominato nun-exploitation, Suor omicidi (aka The Killer Nun) di Giulio Berruti è un film sfortunato e maledetto, distrutto dalla censura, scomparso dalla circolazione per quasi trent’anni e divenuto oggetto di culto, anche per la sua capacità di andare oltre al facile erotismo di facciata e di non affondare nelle paludi del soft-core, evitando ogni scivolone nel cattivo gusto.

«In tutta franchezza: non lo so. Non l’ho mai pensato e se è veramente così, ne sono lusingato, anche se Suor omicidi editato è la metà del film che avrei voluto girare. Penso di dovere molto a Pedro Almodóvar che ha spalancato le menti ed annullato certe irritanti forme di rispetto che rasentano la superstizione. Considero Almodóvar il mio maestro. Il mio guaio è che l’allievo ci ha provato due anni prima.» (Intervista a Giulio Berruti al Ravenna Nightmare Film Festival)

LO SQUARTATORE DI NEW YORK (1982) di Lucio Fulci

La città dell’ultima paura

Lucio Fulci gira il film definitivo; un film che mette in relazione il paese di Non si sevizia un paperino con la metropoli, un film il cui titolo iniziale doveva essere The Beauty Killer (interpretando al meglio tanto il contenuto del film quanto il rapporto tra morte e bellezza) e che viene girato tra l’agosto e l’ottobre del 1981. Lo squartatore di New York esce nel 1982, ed è il film-cerniera tra il decennio appena concluso ed i rampanti anni ’80: del primo conserva l’atmosfera morbosa e la fotografia plumbea, mentre dei secondi presagisce il “peggio” sia dal punto di vista visivo sia da quello narrativo; quello di Fulci è un film estremo, interamente imperniato sulla rappresentazione del Male, compenetrata tanto all’impulso omicida quanto al desiderio erotico. La sessualità è morbosa e umiliante al centro del film, l’atto sessuale vero e proprio è ridotto a mera rappresentazione (il live sexy-show), mentre la sua riproduzione nel film assume i toni aberranti di masturbazioni improprie (il piede del portoricano o la mano monca di Scallenda), e si coniuga perfettamente con la deriva gore e truculenta degli omicidi.

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Gli squartamenti sono ripresi in primo piano, con dovizia di particolari sanguinolenti, con la macchina da presa che indugia voyeuristicamente sulla “distruzione” dei corpi femminili. Non si tratta però né di compiacimento né di violenza gratuita, poiché Fulci, con Lo squartatore di New York ambisce a rappresentare una dichiarazione “autoriale” di impotenza: una resa di fronte al tempo, all’irrompere della violenza reale (proposta dai media) ben più truce e cruenta di quella della finzione; ma il film è anche una vera e propria presa di coscienza, in cui l’orrore (quello “vero” dei telegiornali) si è trasformato in spettacolo. Non a caso una delle battute centrali del film traduce pienamente il punto di vista del regista. Quando Fay è in ospedale, dopo l’aggressione, e confida a Peter di aver avuto un allucinazione in cui lui la uccideva, gli dice: “Che orrore… non riesco più a distinguere la realtà dall’immaginazione”, l’uomo risponde: “Non devi assolutamente avere paura delle tue fantasie… sono molto meno pericolose della realtà”.

L’ASSASSINO di Elio Petri (1961)

L’istruttoria è chiusa…. dimentichi… se può…

Elio Petri, prima di esordire alla regia lavora a lungo come soggettista e sceneggiatore (suoi sono I Mostri (1963) di Dino Risi, che avrebbe anche dovuto dirigere, L’impiegato (1960) di Gianni Puccini e Alta infedeltà (1964) di cui dirige l’episodio “Peccato nel pomeriggio”, oltre all’esordio (non accreditato) in Roma ore 11 (1952) di Pasqualino de Santis). Al suo debutto da regista “autodidatta” egli instilla nella sua opera, uno stile inconfondibile, al tempo stesso audace e ragionato, e impone un efficacia drammatica alla storia e una padronanza del mezzo tecnico e della messa in scena senza eguali nel cinema precedente (solo Luchino Visconti ha la stessa perizia tecnico-stilistica e lo stesso carisma “autoriale”). Il tutto al servizio di un cinema che è proiettato nel futuro, avanti di vent’anni rispetto al momento in cui viene prodotto con al centro una serie di tematiche eterogenee e contingenti in grado di rendere ogni suo film universale e senza tempo.