Lo stigma di una generazione…
In realtà i dialoghi talvolta logorroici, talvolta “presuntuosi” di Càlamo, sono invece parte di una scelta autorale consapevole – forzatamente ricercata – finalizzata a mettere in scena il falso come stile di vita e persino come stigma di una generazione. Il film si avvolge attorno alla condanna del gruppo che – come rabbiosamente comprende Riccardo nel finale – alla rivoluzione “non ci ha mai creduto” ma l’ha utilizzata, strumentalmente per nascondere pavidità e velleitarismo. Le parole, dunque, nella sceneggiatura del film diventano puro elemento retorico che denuncia l’ipocrisia dei sessantottini, i quali altro non hanno fatto che approfittare delle circostanze per vivere una stagione simbolicamente libertaria, prima di rientrare nei ranghi del conformismo borghese e rassicurante: non a caso, nel finale una volta indossati gli abiti di circostanza le parole del gruppo si fanno rarefatte e concrete.
Voi cari “sessantottini”, avevate tutto, ricchezza e cultura. […] Voi “sessantottini”, avevate dalla vostra la comprensione e l’ammiccamento complice dei vostri genitori e dei grandi giornali borghesi. “Sun Zueni”, sono giovani dicevano di voi, guardandovi con l’occhio compiaciuto con cui il padre guarda il figlio “tanto vivace”, i vostri genitori borghesi e benestanti…[1]