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Saggi Critici

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BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 7: La confessione della monaca. Mitopoiesi del Sacro nella scena inedita del film

Una chiesa centro del mondo; dove si intrecciano, a causa della violenza, le componenti dell’umano e del divino.

Gesù è morto per salvare l’umanità dai suoipeccati e dunqueè più che naturale che il tenente – ormai devastato fisicamente e psicologicamente – entri in chiesa e chieda perdono. Una chiesa dove sull’altare è stato versato lo sperma degli stupratori e il sangue virginale della suora, due sostanze dove si mescolano il sacro del divino e il profano dell’uomo. Una chiesa centro del mondo; dove si intrecciano, a causa della violenza, le componenti dell’umano e del divino e dentro la quale Cristo è presente pronto a ricevere gli insulti della disperazione umana e ad essere accusato di indifferenza dal tenente. Nell’abisso della disperazione Lt ritrova Dio, un Dio silenzioso che con il suo sguardo misericordioso e la sua sola presenza, in un istante ne riscatta l’intera vita, lo solleva nell’empireo della Grazia e lo conduce al perdono.

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 6: L’imitazione di Cristo e la Via Crucis dolorosa e straziante

Eccessi e misticismo in un’elegia dissacrante tra i Vangeli, Robert Bresson e George Bataille

Si coniugano, dunque, da un lato l’ “imitazione di Cristo”  – secondo i dettami evangelici in cui si dice che chi vuole comprendere pienamente e vivere le parole di Cristo deve fare in modo che tutta la sua vita sia modellata su quella di Cristo – e, dall’altro, la profanazione messa in scena in Bad Lieutenant, con particolare riferimento allo stupro blasfemo della suora e alla deturpazione della Chiesa. Scelta che rimanda alla “Storia dell’occhio” di George Bataille in cui l’episodio dello stupro e della profanazione del corpo di Don Aminado (nel finale) assumono sia i crismi di una messa nera quanto quelli di un estasi mistica legata alla sessualità. Come questi due punti di partenza opposti possano trovare coesione e coerenza, attraverso la messa in scena dell’erotismo, nel film di Abel Ferrara, è spiegato dalle parole di Alberto Moravia poste a prefazione dell’edizione italiana del racconto di Bataille:

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 5: Cassavetes vs Ferrara

Architettura di un corpo filmico e pornografia dell’anima

Sia per Ferrara che per Cassavetes, ciò che conta all’interno della macchina cinema è la tendenza a individuare una pulsione interna delle cose e degli esseri, cioè a mettere in scena percorsi esistenziali complessi e stratificati. In quest’ottica, per entrambi, sono egualmente importanti tanto i movimenti della macchina da presa volti a individuare i movimenti interiori, quanto il montaggio inteso come percezione globale e specifica dello spazio-tempo. La macchina da presa di John Cassavetes dà costantemente l’impressione di un inesausto movimento febbrile alla ricerca di volti e corpi: essa stessa è un personaggio che scruta e partecipa alla vita degli altri personaggi protagonisti del film. Allo stesso modo il montaggio si sviluppa attraverso una continua collisione di immagini, ellissi dilatate oltre misura e in una quasi totale assenza di raccordo tra i piani.

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 4: La prova generale

I grandi maestri: William Friedkin, Luis Buñuel, John Cassavetes, James Toback – ispirazioni sublimi su un cattivo tenente

Il poliziotto è nudo pertanto (e Ferrara opportunamente mostra un full-frontal mantegnano di Harvey Keitel in una delle prime scene del film), stretto in una città in cui la violenza dilaga e contagia ogni essere umano come una vera e propria epidemia o malattia. Non è casuale che Bad Lieutenantsia oltremodo accomunabile con uno dei film più controversi degli anni ’80, Cruising (id., 1980) di Williamn Friedkin e che la parabola di Lt ricalchi sul versante spirituale quella materiale di Steve Burns (Al Pacino). In Cruising, il poliziotto Steve Burns (Al Pacino) si addentra come infiltrato nella New York omosessuale alla ricerca di un serial killer che uccide e mutila i gay; la sua indagine però lo porterà a mettere in discussione la sua identità sessuale e a confrontarsi con il lato oscuro della sua anima. Anche qui, come in Bad Lieutenanttroviamo un’indagine poliziesca a fare da sfondo ad un tema ben più ampio e profondo: la conoscenza di se stessi fino alle estreme conseguenze. Come in Bad Lieutenant anche nel film di Friedkin, è fondamentale il contributo del sonoro: nel film di Ferrara i rumori nascondo i dialoghi, in Cruising il rumore del cuoio e della pelle e il battere dei tacchi e degli stivali delimitano luoghi e spazi e sono rivelatori di una minaccia costante. Steve Burns come Lt è spettatore passivo dei rapporti sessuali: se in Bad Lieutenanterano performance recitate, in Cruisingsono gli accoppiamenti e le orge dei locali sado-maso del Greenwich Village a sconvolgere ed affascinare la mente del protagonista, progressivamente compresso in spazi sempre più asfittici: azzeramento dello spazio quindi, cioè il vuoto.

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 3: A climax of blue power

Nick Ray, Robert Aldrich e Lee Frost: ispirazioni alte e basse su un cattivo tenente

Lt, dunque è un poliziotto, immerso, o meglio, un uomo che resta immerso nel peccato, se ne ritrova asfissiato, intossicato e non può che assorbirne ancora, sempre e di più, come se volesse integrarlo nella sua carne. L’elemento cardine del film – non quello di risolvere il caso criminale – lo stupro osceno, violento e blasfemo della religiosa serve da elemento scatenante per lasciare attraversare dalla Grazia il tenente, all’apice di una follia sublime che equivale a un suicidio. Questi non ha nome, è semplicemente “il tenente” (Lt), ma ha un grado, cioè un ruolo sociale. Lt invece vive la passione (quella delle scommesse), l’ubriachezza (droghe e alcool), l’orgasmo (masturbazione), ma il tutto è letteralmente consumato in solitudine attraverso pratiche auto distruttive e voyeuristiche.

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 2: New York

Il bisogno spirituale di un riscatto e la necessità di urlare il dolore e la sofferenza che affliggono la metropoli

Bad Lieutenant può apparire come un’orgia di realtà negative, con la sua descrizione della città come inferno e del corpo come catalizzatore del Male, ma tra le sue pieghe è forte e tangibile il bisogno spirituale di un riscatto e la necessità di urlare il dolore e la sofferenza che affliggono la metropoli. Il film racconta appunto il vuoto e la solitudine dell’uomo contemporaneo che vive dentro città sempre più grandi e impersonali, dove l’unica fuga è rappresentata dalla dipendenza e dalla ricerca di un Male che affascina, inseguito con lucidità e consapevolezza. La New York descritta nel film non ha nulla di affascinante ma sembra lo scenario di un film horror, dove il Male si materializza nelle forme più strane: nelle due prostitute intente nel rapporto bondage – non più persone ma recita di se stesse; nei dialoghi impregnati di violenza razzismo e sparati a raffica come mitragliate; nella religione ridotta a feticcio scenografico – la catena del rosario appesa al retrovisore della macchina di Lt o come l’immagine di Cristo impressa sul copri divano a casa del pusher. Il sesso è ormai ridotto a simulazione, non c’è neanche più la forza e la volontà di praticarlo: il tenente si masturba guardando la ragazza che mima una fellatio.

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 1: Le premesse

Una canzone, uno stupro e la messa in discussione psicologica e spirituale del vivere umano contemporaneo

Il tenente Lt (Harvey Keitel) accompagna i due figli a scuola, li insulta e dopo averli salutati, appena solo sniffa cocaina. Si reca sulla scena di un crimine, dove ci sono due ragazze morte in macchina. Egli però è più interessato a raccogliere le scommesse dei colleghi sulla partita di baseball dei L.A. Dodgers, su cui ha appena puntato quindicimila dollari. Incontra uno spacciatore, salgono su per le scale di un palazzo fatiscente e qui il tenente vende al pusher un sacchetto di droga. Prima di andarsene fuma del crack. Due prostitute recitano un bondage lesbico. Il tenente si ubriaca, balla con loro e poi nudo e piangente mima una crocifissione. In un negozio cinese ferma due ladri, non li arresta, ma anzi si fa consegnare il bottino. Si reca a casa di un’amica drogata (Zoë Lund) dove si buca con lei e fuma ancora del crack. Dorme a casa sul divano, si sveglia, insulta la suocera, cambia il canale della televisione mentre la figlia sta guardando i cartoni animati, e guarda la partita dove i Dodgers stanno ancora perdendo. Si reca sulla scena di un altro delitto e cerca di intascarsi la droga che c’è nella macchina, che però gli cade in maniera ridicola sotto gli occhi dei colleghi. Questi gli parlano dello stupro di una suora ad Haarlem e della taglia sui colpevoli messa dalla mafia. Il tenente va all’ospedale, spia la suora nuda e viene a sapere che è stata stuprata con un crocifisso. Il tenente ferma due ragazze per un fanale rotto. È notte e piove. Le costringe una a mostrare il sedere, l’altra a mimare una fellatio, mentre lui si masturba davanti a loro. Va nella Chiesa dove hanno violentato la suora, si sdraia e abbraccia una Madonna caduta. Più tardi ascolta il perdono che la suora concede ai colpevoli senza denunciarli. Sale in auto, sniffa cocaina e quando sente che i Dodgers hanno di nuovo perso spara sulla radio. Alla prima comunione della figlia, impreca in Chiesa mentre un bookmaker gli ricorda i suoi debiti. A casa sniffa cocaina sulle foto della comunione. Va in discoteca, si droga e scommette altri soldi sui Dodgers. Va da un suo amico spacciatore a ritirare una scatola piena di soldi ($ 30.000). Quando esce fuma crack per le scale. In auto assiste nervoso all’ennesima sconfitta dei Dodgers. Va dalla suora per convincerla a denunciare i suoi stupratori, ma questa gli consiglia di parlare solo con Cristo. Solo, in Chiesa, bestemmia piangente e digrignando i denti rabbioso si rivolge ad un Cristo dolce e silenzioso; gli si avvicina a quattro zampe chiedendo perdono per i suoi peccati e gli bacia i piedi invocando il suo aiuto. Alza lo sguardo e vede una donna nera che è venuta a riportare il calice rubato dai violentatori che lei conosce. Il tenente raggiunge i due ragazzi Paolo e Julio, li ammanetta, fuma crack con loro e li accompagna in macchina al terminal dei bus, dove piangendo li libera e consegna loro la scatola con i trentamila dollari. Li invita a salire sull’autobus e a lasciare la città. Sale in macchina e poco dopo gli si avvicina un’auto. Gli sparano nell’indifferenza più totale, poi qualcuno si accorge di lui.

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Quarta

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Simona, vede usurpato il suo ruolo di “amante del mostro” e agisce di conseguenza: ingaggia con la madre un duello estremo che la porta persino a concedersi sessualmente ad un attonito Federico. Nel bagno – nascosto dalla furia dei rangers che vogliono ucciderlo – egli subisce la provocazione di Simona, che si sdraia nuda sul tappeto dicendogli: “Allora cosa aspetti…o hai paura di Vera”. In una scena che  non lascia niente all’immaginazione – ma che appare incredibilmente pura – Federico possiede Simona rinnegando (o trasformando) quel ruolo di “mostro” finora assunto per diventare un ridicolo (e impossibile) amante affettuoso e premuroso. Simona continua a studiare le mosse della madre e si ritrova a spiare l’amplesso tra lei e Federico. Sentendosi tradita, piena di astio e rancore, si reca al commissariato per denunciare entrambi. L’uomo di legge ottiene da Vera la possibilità di arrestare Federico, e per non denunciarla per complicità, baratta con lei un rapporto sessuale: “Ci si può mettere d’accordo su qualunque cosa e a qualunque prezzo”.

Nel finale, Simona scopre il suicidio del padre, prende una pistola e uccide a freddo il commissario e la madre mentre sono a letto, per poi  liberare Federico e allontanarsi con lui mano nella mano. Il lieto fine fiabesco sembra trionfare, non attraverso la consueta uccisione del cattivo, bensì tramite la sua “trasformazione”, e non a caso è lo stesso Federico che, mentre si allontana dalla villa con Simona, dice: “Arriva sempre il momento di partire. Molto più in là del parco, dove l’erba cambia colore e incominciano le strade, quelle grandi. Prenderemo quelle”. Ma l’uomo – ignaro della sorte riservatogli da Simona – non coglie l’ironia glaciale con cui la bambina gli risponde: “È là che mi aspettano… quelli della mia età”.Federico entra nella grande voliera e scherza con la bambina/donna che, silenziosa, mentre lui si arrampica, prende la mira e lo uccide facendolo precipitare al suolo come se fosse un uccellino.

Massimo Pirri, non ha mai concepito il lieto fine per il suo cinema, né tanto meno ha cercato una conciliazione con il pubblico ma ha sempre messo in pratica (conoscendola o no non ha importanza) la posizione di Theodor Adorno sull’happy ending cinematografico:Il cinema del lieto fine non prende posizione sul mondo, non pensa alle vittime della storia, non fa altro che generare un mondo illusorio sul quale acquietarsi.[1]; questo perché il suo cinema vuole essere disturbante, trasversale ai generi e alle classificazioni.

La Vigevano de L’Immoralitàè archetipo di quella provincia opulenta, bigotta e ostinatamente padronale che nel Nord industrializzato ha lentamente sostituito i valori di solidarietà, fratellanza e rispetto reciproco con una strisciante ed espandente immoralità latente fatta di individualismo, sfruttamento e silenzio. La “cultura del silenzio” che domina il film di Pirri appare pertanto congeniale alla metafora della grande voliera vuota, dove gli uccelli in gabbia sono i personaggi stessi, rappresentativi di una provincia al collasso in cui il “mostro” diventa normale e dove i “normali” nascondono la natura di “mostri”. Chiusi nelle loro case (la villa), spaventati dal prossimo e dal diverso, educati dalla tv (che da b/n passa a colori), schiavi del culto del denaro, gli abitanti della provincia coltivano, inconsciamente, il morbo dell’immoralità, tramandandolo di madre in figlia come arma di difesa verso un mondo che non riconoscono e da cui vogliono staccarsi con qualunque mezzo, consapevoli del fatto che sono loro stessi a crearlo.

La grande voliera diventa quindi allegoria di un mondo – sostituivo di quello contadino – basato sul profitto e sulla sopraffazione (anche all’interno della famiglia stessa), teso, irrimediabilmente, all’accumulo e all’ostentazione della ricchezza – elemento necessario a determinare lo status sociale. L’illusione eterna di voler “esser libera” (come dice Vera) non esiste, è un alito di vento che spazza via la felicità per far posto al rancore e all’invidia: i personaggi de L’Immoralitànon sorridono mai. Quello del film è uno spaccato dove il nemico interno diventa proiezione esterna del diverso. L’immoralità è un cancro, le cui metastasi nascono nel secondo dopoguerra, ma è con la fine degli anni ’60 e con l’arrivo del benessere successivo che la malattia sedimenta nel corpo di un Italia che ha bruciato le potenzialità di diventare civile, per cominciare ad essere quel paese mancato, abbruttito e degenerato che L’Immoralitàe il suo regista descrivono con lucida e inquietante profezia.

[1]Alessandro Alfieri, Benjamin, Adorno e la contemporaneità, in CineCritica n.50/51, Aprile-Settembre 2008, pag.64

di Fabrizio Fogliato

L’IMMORALITA ’(1978)

Regia/Director: Massimo Pirri
Soggetto/Subject: Massimo Pirri, Federico Tofi, Morando Morandini
Sceneggiatura/Screenplay: Massimo Pirri, Federico Tofi, Morando Morandini
Interpreti/Actors: Lisa Gastoni (Vera), Karin Trentephol (Simona, figlia di Vera), Renato Rossini [Howard Ross] (Federico Anselmi), Mel Ferrer (marito di Vera), Andrea Franchetti (tenente di polizia), Wolfango Soldati (Antonio, un giustiziere), Francesco Ferri (amico), Deborah Lupo, Ida Meda
Fotografia/Photography: Riccardo Pallottini
Musica/Music: Ennio Morricone
Costumi/Costume Design: Sergio Palmieri
Scene/Scene Design: Sergio Palmieri
Montaggio/Editing: Cleofe Conversi
Suono/Sound: Piergiuseppe Ghezzi
Produzione/Production: Ducale Film, Una Cinecooperativa
Distribuzione/Distribution: Una Cinecooperativa
censura: 72568 del 08-11-1978
Altri titoli: Perché Simona

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Terza

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Se in Grazie Zia il rifiuto del conformismo borghese e dei suoi stantii riti familiari passa attraverso la finzione di Alvise che si auto-dichiara paraplegico per cercare la sua nemesi – vedendo nell’eutanasia l’unica forma di “amore possibile” e l’unica risposta al suo desiderio di non appartenenza di classe – ne L’immoralità Simona non solo vuole vivere ma desidera – come dichiara lei stessa a fine film – raggiungere gli altri come lei. Dieci anni dopo il 1968 – in una società irrimediabilmente compromessa e corrotta – l’unica possibilità di raggiungere l’autonomia uscendo/sfuggendo dal conformismo é l’eliminazione sistematica di tutti coloro che, tradendo, rappresentano un ostacolo insormontabile. Uomini e donne che meritano di essere uccisi perché colpevoli di aver diffuso e alimentato il morbo dell’immoralità.

Immoralità che non esita a calpestare i sentimenti, e a negarli apertamente e cinicamente, con l’obiettivo, di ogni individuo, di dare un’immagine diversa da ciò che è, declinata secondo un “ideale” massificato. Esemplare a tal proposito appare il rapporto tra marito e moglie, mellifluo e fintamente affettuoso, percorso da improvvise scosse emotive animate da un cinismo barbaro e volgare. Quando Vera chiede al marito la firma di assegni in bianco, gli dice: “Pensa, con un bel colpo secco non ci saresti più. Io sarei ricca e libera e tu rosicchiato dai vermi”. L’Immoralità dunque, non solo ribalta le prerogative strutturali della fiaba, ma ne capovolge anche le aspettative emozionali: la fiaba, infatti, è al contempo, un racconto, sia ammonitore che finalizzato ad un insegnamento (o educazione), mentre il film costringe lo spettatore ad una visione sofferente ed epilettica, reiterando continuamente (e insistentemente) gli aspetti più deteriori e insani dei personaggi.

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Seconda

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Secondo “La morfologia della fiaba” di Vladimir Y. Propp, la fiaba deve iniziare con una situazione di partenza in seguito alla quale vengono elencati i membri della famiglia oppure viene presentato il futuro eroe secondo nome e condizione. L’immoralità invece, inizia in maniera opposta e antitetica presentando il cattivo in maniera simbolica e provocatoria. Il film si apre con una inquadratura dal basso che mostra un uomo con in braccio una bambina morta, un’immagine che già nella sua conformazione è, ontologicamente, pietistica. Quando quello stesso uomo, prima di allontanarsi velocemente con il furgone, però, seppellisce frettolosamente la bambina – e l’inquadratura mostra che ha le mutandine abbassate alle caviglie – ecco che quell’immagine primaria – che sembrava proporre una figura “buona” – diventa improvvisamente trasfigurazione di un “mostro”. Successivamente avviene la presentazione (per gradi) del nucleo familiare, ma il risultato è opposto rispetto alle volontà proppiane: quella proposta da Pirri è una visione spettrale della famiglia, che nulla a che spartire con l’immagine della fiaba. Il padre è costretto su una sedia a rotelle e vive in un mondo a parte situato ai piani alti della villa, la moglie Vera vive intenta a mantenere la tonicità del proprio corpo inteso da lei come lasciapassare sociale, mentre Simona è un misto di freddezza ingenuità sorrette da un animo torbido.

Il professore é una figura inesistente – per tutti tranne che per Simona – come sottolineato più volte dai personaggi del film. Per la bambina invece rappresenta sia il rifugio (ove cercare protezione) sia la conoscenza. E’ il padre che, all’inizio del film, fa le due affermazioni che guideranno l’agire di Simona. La prima é: “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. La seconda: “Per te Simona, il bosco è un luogo incantato…magico. Tu non ti accorgi di nulla di ciò che ti accade intorno, le lotte i conflitti, le tragedie. Il forte uccide il malato… o il più debole. Per sopravvivere…”. Il legame che intercorre tra padre e figlia – per quanto apparentemente labile e casuale – si rivela in realtà essere persino indissolubile: lo dimostra il fatto che la furia omicida e asettica della bambina si scateni alla vista del padre morto suicida. Sul tavolo di fronte a sé egli ha lasciato i due oggetti che lo rappresentano per tramandarli alla figlia: l’orologio che certifica che, ormai, non c’é più tempo e la pistola che indica la presa di coscienza e che é il momento delle decisioni irrevocabili.