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Saggi Critici

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GERARD DAMIANO’S PEOPLE (1978)

Saggio in tre parti: La società messa a nudo: l’insostenibile leggerezza dell’intimità e l’impossibilità di rappresentare l’orgasmo secondo la visione di Gerard Damiano.

Gli episodi – da IV a VI… passando per il capolavoro “First Things First”

PART IV: “The Exhibition”

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Una coppia di borghesi di mezza età è seduta dentro una stanza grigia e anonima. L’uomo (Vince Benton) è seduto su una sedia, mentre la donna (Burgandy Grant [Ellyn Grant]) è adagiata su una poltrona. Di fronte a loro, due donne vestite con lingerie fetish (Michelle e Kelly Green) si intrattengono in una performance lesbo-sadomasochista. L’uomo rimane immobile, fuma una sigaretta e osserva tutto con distacco, mentre la donna comincia a toccarsi, stacca una piuma dal suo cappello e si masturba lentamente con essa. Ad un certo punto, dall’alto, scende una gabbia, da cui viene fatto uscire un uomo che indossa borchie e fasce di pelle nera. Viene fatto sdraiare su un tavolo dalle due lesbiche che gli praticano un fellatio, e dopo l’orgasmo si scambiano il suo sperma di bocca in bocca.

GERARD DAMIANO’S PEOPLE (1978)

La società messa a nudo: l’insostenibile leggerezza dell’intimità e l’impossibilità di rappresentare l’orgasmo secondo la visione di Gerard Damiano.

Gli episodi – da I a III

PART I: “The Game”

Un uomo (Jamie Gillis) e una donna (Serena) si ritrovano a casa dopo una giornata di lavoro. L’uomo è un imbianchino intento a finire di dipingere una parete della casa della donna. La donna lo rimprovera per il disordine, lo invita a finire in fretta il lavoro e sale al piano di sopra per farsi un bagno. Dopo un po’ Carl, questo il nome dell’uomo, sale anche lui, bussa alla porta, comunica alla donna di avere finito il lavoro; vede la donna discinta e dopo essersi assicurato che il marito non tornerà fino a sera, la aggredisce brutalmente e la forza ad una fellatio selvaggia. La donna, dopo un attimo di sorpresa si abbandona alle richieste dell’uomo. Dopo una dissolvenza, l’uomo e la donna sono sdraiati su una poltrona, in atteggiamento complice e dolce; attraverso una telefonata ricevuta si rivelano essere marito e moglie.

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Gerard Damiano, prende una classica situazione da film porno – la moglie annoiata e l’imbianchino prestante – e la trasforma in una riflessione sull’intimità della coppia. La vicenda è narrata con realismo e naturalezza. L’utilizzo della musica autunnale, dolce e struggente, contrasta (volutamente) con la brutalità del rapporto orale. Così come la masturbazione solitaria della donna con il getto della doccia – che anticipa la fellatio – viene ripresa da Damiano mescolando abilmente eccitazione e tensione, restituendo allo spettatore una sensazione inquietante e disagevole. L’attenzione del regista per la messa in scena è totale come ben dimostra il quadro – con la donna nuda, nel bagno, alle spalle di Serena – vero e proprio duplicato meccanico della donna e del suo desiderio. L’equilibrio iniziale è interrotto dall’intrusione del perturbante freudiano, che altera improvvisamente la formalità del rapporto e in un crescendo emotivo di turbamento, interroga lo spettatore.

GERARD DAMIANO’S PEOPLE (1978)

La società messa a nudo: l’insostenibile leggerezza dell’intimità e l’impossibilità di rappresentare l’orgasmo secondo la visione di Gerard Damiano.

Cronoprologo

Una settimana di lavorazione e un budget di 23.000 dollari, tanto ha richiesto il tournage di Deep Throat (quello di cui il suo autore disse: “Non è un film…è uno scherzo!”). Quando nel Giugno del 1972 al Mature World Theatre di New York venne presentato Deep Throat (Gola profonda) di Gerard Damiano, il mondo del cinema e la società intera ebbero un sussulto. Il film incasserà dal 1972 a oggi, oltre 600 milioni di dollari, cifra che lo colloca a pieno titolo nella classifica dei dieci migliori incassi di tutti i tempi assieme a Titanic, E.T. l’extra-terrestre e Biancaneve e i sette nani. Quello che poteva diventare un elemento complementare del cinema mainstreamcioè il rendere esplicito all’interno della narrazione l’atto sessuale – venne ben presto fagocitato dalla logica commerciale e ostracizzato dall’ipocrita perbenismo, spingendo la pornografia a chiudersi in un ghetto dorato. La pornografia rinuncia così ad essere narrativa e si autodestruttura fino diventare oggi giorno: o semplice addizione di performance sessuali (i cosiddetti wall to wall) o a categorizzarsi in miriadi di sottogeneri per soddisfare ogni singola perversione.

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VINCERE (2009) di Marco Bellocchio

Saggio in due parti: iconografia del potere, fantasmagoria e suggestioni storiche in Vincere di Marco Bellocchio.

(Seconda parte)

Idiosincrasia del sentimento

Noi oggi conosciamo la vicenda de Il figlio “segreto” di Mussolini attraverso le lettere di Ida Dalser, la corrispondenza tra Arnaldo Mussolini e Riccardo Paicher, le missive di Giulio Bernardi e le comunicazioni cifrate della polizia segreta fascista. Le notizie dunque circolano velocemente – anche all’epoca – riservate, solo ed esclusivamente ai diretti interessati, ma in tutto ciò vi è una totale assenza di rapporti relazionali. Ciò che emerge dal quadro collettivo dei fatti è un’idiosincrasia verso qualsiasi forma di sentimento. In Vincere, quest’aspetto è sottolineato attraverso le dinamiche della struttura narrativa. Già la scelta di frapporre – all’interno degli stacchi tra le sequenze più importanti – immagini significative che mostrano le “future” compagne di prigionia di Ida Dalser nel manicomio di Pergine appare indirizzata alla necessità di porre lo spettatore in uno stato di inquietudine e malessere. Un malessere non definito, che anticipa emotivamente gli sviluppi narrativi, in cui le immagini di queste donne inquadrate e fotografate – come foto d’epoca incastonate nella memoria – compaiono per ben cinque volte nei primi quaranta minuti di film: dopo l’incontro sulla panchina, dopo il secondo amplesso, dopo lo scontro sotto le finestre de Il Popolo d’Italia, dopo il colloquio tra Ida e il cognato.

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L’ultima immagine, appare dopo il sequestro del figlio Benito Albino e mostra il volto tumefatto e sofferente di Ida. Il regista dunque “accompagna” lo spettatore verso un’estenuante discesa agli inferi del sentimento e della ragione umana. Non a caso la seconda parte del film si apre con un freddo e laconico comunicato, che vuole certificare il passaggio da essere umano a “merce”, di cui è vittima la giovane donna: “Ministero dell’Interno Direzione Generale P.S. Ieri 13 Febbraio 1920, Ida Dalser con suo figlio Benito Albino Mussolini è stata riaccompagnata nella casa di sua sorella Adele maritata Rag. Riccardo Paicher at Sopramonte sobborgo di Trento STOP temporaneamente tranquilla STOP ma data propensione alla fuga dimostrata negli anni passati detta Ida Dalser è sempre tenuta sotto stretta sorveglianza di notte e di giorno…”. La scena successiva è oltremodo esplicativa dell’intreccio tra vicende private e storiche in cui Ida si trova suo malgrado coinvolta: è il 1923 e a Sopramonte si attua un’incursione squadrista durante la festa del Partito Socialista; Ida osserva la scena da dietro i vetri di una finestra, mentre lo stacco mostra l’immagine della sua mano insanguinata relativa al primo incontro con Mussolini a Trento nel 1907. Il sangue della Storia è dunque lo stesso che macchia anche la sua vita, poiché ella è ormai sottomessa al dominio di un uomo “gigantesco”, come appare nella successiva scena ripresa all’interno di un cinema.

VINCERE (2009) di Marco Bellocchio

Saggio in due parti: iconografia del potere, fantasmagoria e suggestioni storiche in Vincere di Marco Bellocchio

 

Enigma Dalser

Nella vicenda Dalser, c’è qualcosa di indefinito e poco chiaro. Qualcosa che ha a che fare con gli aspetti più intimi e oscuri dell’animo umano ma anche con il groviglio di relazioni di potere che legano un capo e i suoi sottoposti. Sarebbe troppo facile e superficiale liquidare gli avvenimenti come un susseguirsi di eventi e di azioni determinate dalla volontà di Benito Mussolini. Ma come si può credere che colui che in quegli stessi anni è impegnato a “trasformare l’Italia”, possa occuparsi in prima persona di una vicenda privata (anche se non marginale) visto che in gioco c’è la sua credibilità e l’onorabilità della sua coerenza. È evidente che l’animatore della famiglia autarchica e numerosa non possa rischiare di passare per bigamo, soprattutto dopo la stipula dei Patti Lateranensi dell’11 Febbraio 1929 e di una ritrovata riconciliazione con il Papa e con la Chiesa oltre Tevere. È altrettanto evidente che il comportamento – impulsivo, al limite dell’isteria, tenuto in più occasioni da Ida Dalser, possa, in quell’epoca, essere facilmente considerato come folle – nonostante che lo stress e l’angoscia a cui la donna è sottoposta con scientifica continuità e premeditazione possa apparire come giustificazione più che ragionevole per i suoi comportamenti eccessivi, animati da un evidente, e mai sopita passione indomita per il duce del fascismo.

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I “delitti”, perchè di questo si tratta, che hanno per vittime Ida Dalser e Benito Albino Mussolini hanno come movente quello della necessità di eliminare due persone scomode – sono privi di un colpevole o più colpevoli identificabili, visto che il numero di persone coinvolte in entrambe le vicende sfiora il centinaio. Dai fatti, inoltre, emergono tutta una serie di ambiguità: dai medici non medici che stilarono le diagnosi, dalla segretezza con cui per anni sono state custodite le cartelle cliniche, dal coinvolgimento diretto de Il Popolo d’Italia come trait-d’union tra ordini superiori ed esecuzioni locali. È comunque, altrettanto vero che non può essere escluso a priori il coinvolgimento diretto di Benito Mussolini il quale è sicuramente imbarazzato dal fatto che in Italia una donna possa essere libera di dichiararsi sua moglie e un giovane ragazzo possa utilizzare il suo cognome come legittimo. Inutile ora, a distanza di anni cercare una strada alternativa per risolvere la questione, così come cavillare sull’intreccio di fatti, ordini e casualità che portarono agli esiti nefasti della vicenda. Quello che rimane nella memoria è la testimonianza indelebile di eventi delittuosi, di matrice politica, in quanto determinati da una o più scelte e mossi da una collettività eterogenea (che talvolta inconsapevolmente) agisce in un’unica direzione. Alla luce di tutto ciò, appare pertanto opportuno considerare come un solo film non possa contenere al suo interno tutte le sfaccettature, le cause e le conseguenze di questa triste vicenda. Vincere, di Marco Bellocchio, opera di fatto una scelta ben precisa: quella di ritrarre, liberamente, il profilo di una “eroina” da romanzo d’appendice, declinandolo su tinte fosche e plumbee, le stesse che attraversano come un basso continuo il susseguirsi degli anni nel ventennio fascista.

L’ARGENTO CHE URLA – L’UCCELLO DALLE PIUME DI CRISTALLO (1970) di Dario Argento

Un libro degli anni’50 è fonte di ispirazione per un ‘opera dalle affinità elettive con il teatro, la scrittura, le teorie del cinema e Michelangelo Antonioni: tra Incomunicabilità e memoria

 

Il film è una rappresentazione per immagini della paura delle relazioni insite in ogni essere umano e al contempo una riproduzione del processo di scrittura.

 

Argento definisce il suo cinema come “storie oniriche e tuttavia profondamente latine”, frutto del magma emotivo e irrazionale che da sempre abita in lui, abilmente mescolato con le suggestioni di tanto cinema visto, soprattutto quello di Fritz Lang. Il suo cinema non può che essere ontologicamente imperfetto e irrisolto, perché vive di suggestioni e non di raziocinio; i suoi film sono incubi tradotti in immagini in cui dominano la componenti fantasmagoriche e esoteriche ma nel quale si mescolano, sotterranee (eppure vivide e pulsanti) le ansie, le paure e le inquietudini della contemporaneità. La sua ambizione, come dichiara lui stesso, è quella di “prendere lo spettatore per mano, stringendo o allentando la presa”, per guidarlo all’interno dell’alterità di un mondo inesistente in cui dominano il caos, l’inafferrabile, l’oscurità e il ridicolo. Gli esiti del suo cinema discontinuo, confuso e diseguale sono opere interamente cucite addosso all’emotività dello spettatore senza mai prendere in considerazione l’ordine, il rigore o la linearità: incubi ad occhi aperti dove i personaggi urlano in modo sguaiato e cartoonesco, sanguinano ed espellono litri di emoglobina con cui imbrattano lo schermo e si agitano in narrazioni istintuali e viscerali che non contemplano né il realismo né la verosimiglianza.

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Dario Argento, quindi, rappresenta veramente un caso curioso per il nostro cinema: al di là del suo essere riconosciuto, retoricamente e inutilmente, come il più importante esponente del cinema di genere italiano (un vero e proprio luogo comune), egli è tanto bistrattato dalla critica (da sempre), quanto osannato da una folta schiera di appassionati, fan, e studiosi, visto che attorno al regista romano si sviluppa una delle più nutrite bibliografie dedicate all’opera di un regista italiano. Date le premesse, quindi, un regista di cui forse si è già detto tutto (troppo) e il contrario di tutto. Un cineasta la cui opera è stata sviscerata in ogni particolare e la cui produzione è stata accuratamente scandagliata nei minimi dettagli per portare alla luce, aneddoti, curiosità, tagli, revisioni, “falsi” soggetti (il caso Chipsiomega sul retro copertina del disco Cinevox del 1980 di Profondo Rosso), e poi ancora, contraddizioni, discendenze espressioniste, cromatismi baviani, ecc. Nel caso dell’opera di esordio è evidentemente già stato approfondito il rapporto tra la sceneggiatura del film e il romanzo “La statua che urla” di Fredric Brown del 1953 e sono già state messe in luce le contiguità e le discrepanze tra le due opere. Anche il rapporto tra il film e il cinema di Antonioni è già stato sfiorato soprattutto nell’analisi del “dettaglio rivelatore” e dell’ovvio rimando a Blow-Up (1968).

TRANS-EUROP-EXPRESS (1966) di Alain Robbe-Grillet

I lunghi binari dell’erotismo, ovvero la follia e il delirio di una società in divenire

 

“La pornografia per me non esiste” (Alain Robbe-Grillet), affermazione che spazza via ogni concessione erotica dal film (come invece, superficialmente, suggerisce il titolo italiano A pelle nuda), per posizionarlo in una dimensione coerente con l’epoca in cui è stato realizzato. Trans-Europ-Express è un film-laboratorio, in cui l’antipsicologismo con cui sono non-delineati i personaggi va di pari passo (parallelamente, come i binari del treno appunto) con elementi sadiani necessari all’autore per incunearsi nell’immaginario di una società che, come il treno del titolo, corre verso una liberazione sessuale (e non), fittizia e utopica. Non è casuale, quindi, che le tre parole componenti il nome del treno, ritornino nel film sulla copertina di un libro raffigurante un treno che sta per investire una donna legata sui binari (Transes), su una rivista di bondage (Europe) e sul settimanale L’Express sulla cui copertina il titolo rimanda a “l’uomo che morì 4 volte” (Express, e il chiaro riferimento al protagonista plurimo della vicenda del film). Quella costruita dall’inventore del Nouveau Roman è un’architettura ludica in cui il cinema è rappresentato come un gioco la cui natura contempla un creazione ed una scrittura fatte di continue ipotesi, cancellazioni e correzioni. La scelta, coerente con questa idea, che Robbe-Grillet persegue nel film attraverso la messa in scena di un erotismo “plastico e statico”, coincide con la necessità di desensualizzare le immagini e di sterilizzare l’eccitazione dello spettatore trasformando le donne (protagoniste del film) in manichini.

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