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Silent Era

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BERG-EJVIND OCH HANS HUSTRU (I PROSCRITTI, 1918) di Victor Sjöström

“E’ senza dubbio il film più bello del mondo”. (Luis Delluc)

In Svezia nel 1912 si producono alcuni film particolarmente innovativi per quanto riguarda l’utilizzo del linguaggio cinematografico. Tre registi, Georg af Kiercker, Victor Sjöström e Mauritz Stiller, con le loro opere sfondano le barriere del kammerspiel di matrice tedesca e trasportano il dramma nei grandi spazi paesaggistici della scandinavia, in cui bellezza e vertigine si coniugano all’interno di una tensione narrativa senza precedenti. La tendenza e quella di una dimensione panteistica del dramma, in cui si coniugano l’espressione lirica delle vicende con una dimensione assoluta degli uomini e del loro destino. Una visione cosmica dello spazio e dell’individuo che si muove in esso, finalizzata alla rappresentazione di episodi archetipici trattati come vere e proprie parabole morali. L’asciuttezza e il rigore con cui vengono trattati i drammi individuali fanno prevalere l’aspetto psicologico (manifesto e latente) dei conflitti interpersonali. Le asperità, il gelo e la durezza del paesaggio nordico diventano sintesi metaforica e metonimica di un personaggio “terzo” in grado di determinare impreviste e sorprendenti svolte narrative. Questa visione, non-convenzionale, del cinema rende i film scandinavi del primo decennio del secolo XX° come la principale alternativa allo strapotere artistico, commerciale e linguistico del cinema hollywoodiano. Le sirene americane suonano ben presto anche per Stiller e Sjöström, ma i risultati che i due registi raggiungono sul suolo americano sono nettamente inferiori a quelli autoctoni. Spogliata dei suoi pilastri, “aggredita” dalle cinematografie emergenti delle vicine Danimarca e Germania, “l’età d’oro del cinema svedese” si esaurisce in poco meno di un decennio, e già nel 1921 la produzione crolla rovinosamente e i suoi autori sono consapevoli dell’impossibilità di una rinascita a breve termine.

BLIND HUSBANDS (Mariti ciechi/La legge della montagna, 1919) di Erich Von Stroheim

Erotismo latente, ambienti psicologici, rapporti crudeli, personaggi immorali, seduttori sordidi e luciferini nel primo film di Erich Von Stroheim

 

La biografia di alcuni registi spesso sfocia nella leggenda. Soprattutto durante il periodo della Silent Era in cui il personaggio pubblico diventa predominante su quello privato e – particolarmente durante gli anni ’10, in cui la figura di alcuni registi diventa sinonimo di clamore e successo – si registrano biografie prevalentemente immaginarie in grado di rappresentare al meglio personaggi dai contorni ben definiti senza creare distinzione tra dentro e fuori lo schermo. È il caso questo di Erich Von Stroheim il quale è prima attore, poi aiuto regista per David W. Griffith (Intollerance, 1915 e Hearts of the world, 1918) e, infine, regista dei suoi film.

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Nato vicino a Vienna nel 1885, emigra negli Stati Uniti all’inizio del ‘900. Sin da subito arricchisce il suo passato biografico di particolari inventati: il prefisso “Von” che richiama ad una discendenza nobile (mentre i genitori sono mercanti), il grado di ufficiale di cavalleria dell’impero austro-ungarico, (mentre a vent’anni diserta l’esercito) e una vocazione alla magniloquenza che se da un lato si manifesta nel suo cinema titanico, dall’altro diventa la zavorra che appesantisce ogni sua produzione – solo il primo dei suoi film può considerarsi veramente suo. L’intento di Stroheim è soprattutto quello di incarnare fuori e dentro lo schermo il suo personaggio feticcio, quello del militare prussiano, arrogante, perfido e meschino che indossa la divisa come una seconda pelle e che si atteggia con comportamento marziale e impeccabile salvo poi di svelare un animo dissoluto e immorale.

THE SHOCK (1923) di Lambert Hillyer

Scavando negli oscuri registri del passato, una spaventosa pagina attira l’attenzione. Chinatown, quartiere del crimine, della paura, dell’odio e del mistero…il Cafè Mandarin, un vortice di vizi e di intrighi.

Anche nel periodo del cinema muto c’è stato (come sempre in tutta la storia del cinema) un cinema medio e popolare di matrice artigianale in grado di coinvolgere grandi masse di pubblico e di emozionare platee sterminate. A distanza di più di un secolo è talvolta difficile reperire questi film e ritrovare nel restauro la possibilità di conoscerli. Da sempre relegate nella categoria (pretestuosa) dei B-Movies, queste pellicole non trovano cittadinanza né sui libri di storia, né tanto meno sulle riviste di critica. Considerate opere minori (come in effetti sono), prive di valore artistico e di interessanti spunti critico-semiologici, realizzate da registi anonimi e spesso sconosciuti, alcune di esse tuttavia contengono elementi sorprendenti e situazioni anticipatrici dei “grandi classici”. The Shock di Lambert Hillyer è pienamente ascrivibile a questa categoria di film, ma a differenza di altri, fruisce della presenza di Lon Chaney nel ruolo di protagonista, di un villain donna difficilmente dimenticabile e della sorprendente e spettacolare distruzione di San Francisco nel finale del film

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Nato nello stato dell’Indiana nel 1889 dall’attrice Lydia Knott specializzata in ruoli western, Lambert Hillyer frequenta il mondo dello spettacolo sin da quando è bambino. Nei primi anni della sua carriera si dedica sia al giornalismo, sia al ruolo di scrittore. A partire dal 1917 comincia a lavorare per il mondo del cinema scrivendo sceneggiature e firmando regie di film di largo consumo: prevalentemente western ma anche melodrammi e polizieschi. La professione di regista la apprende e la perfeziona a Inceville sotto la supervisione del magnate del cinema muto Thomas Ince. A ventinove anni esordisce dietro la macchina da presa, con il film Strife (1917); nel 1919 gira Square Deal Sanderson e per tutti gli anni ’10 lega il suo nome al genere western e al sodalizio artistico con l’attore William S. Hart, che proprio grazie ai film di Hillyer diventa una star. Altri attori lanciati da Hillyer sono divenuti beniamini del grande pubblico come Buck Jones e Tom Mix, ma il regista dell’Indiana ha lavorato nella sua lunga e prolifica carriera anche con Lon Chaney (The Shock, 1923), Boris Karloff e Bela Lugosi (The Invisible ray, 1936). Successivamente alterna la sua produzione dividendosi tra cinema e televisione e nei primi anni ’50 diventa il regista principale della pioneristica serie televisiva western The Cisco Kid. Dopo questa esperienza decide di ritirarsi dalle scene. Muore a Los Angeles nel 1969. Lambert Hillyer non è nulla più che un onesto artigiano, capace e meticoloso, interessato a dirigere opere non particolarmente complesse indirizzate ad un pubblico eterogeneo e copioso, caratterizzate da una sorprendente vivacità della messa in scena e da un montaggio serrato e dinamico decisamente in anticipo sui tempi.

THE LODGER: A STORY OF THE LONDON FOG (1926) di Alfred Hitchcock

Suspance ininterrotta, inganno delle apparenze e codificazione di uno stile. Il cinema triangolare di Alfred Hitchcock tra erotismo, tensione, e parodia.

 Alfred Joseph Hitchcock nasce a Leytonstone a Est di Londra, il 13 agosto 1899. Cresce sotto una ferrea educazione di stampo cattolico e, a cinque anni – secondo un suo stesso racconto (di dubbia certezza) – dopo una innocente marachella viene portato dal padre in commissariato dove il poliziotto di turno viene invitato dal genitore a rinchiudere il bambino in cella per pochi minuti. L’episodio – nelle testimonianze del regista – è alla base delle sue fobie e dei suoi temi cinematografici così come è esplicito dell’avversione verso la giustizia, verso i suoi metodi e verso ogni tipo di uniforme.

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Incallito cinefilo, Hitchcock approda al mondo del cinema nelle vesti di sceneggiatore e, nel 1923, in seguito all’allontanamento del regista Graham Cutts dal set del film Always Tell Your Wife, esordisce alla regia sostituendolo e garantendosi un contratto per il successivo Number 13 (vero esordio cinematografico) – film di cui oggi non rimane più traccia a causa del fallimento della società produttrice durante la lavorazione che ha come conseguenza la distruzione del negativo girato. Anche del suo secondo film The Mountain Eagle non rimane quasi nulla se non i pochi fotogrammi pubblicati nel libro-intervista di Francois Truffaut.

REGENERATION di Raoul Walsh (1915)

Il primo gangster-movie della storia del cinema.

 

“E’ felice solo quando lavora. Walsh accetterebbe qualsiasi regia pur di trovarsi sul set” (J.P. Coursodon)

Raoul Walsh, come regista, si pone antiteticamente rispetto alla scuola dei suoi contemporanei Stroheim-Ingram. Niente magniloquenza, niente ricostruzioni sceniche, l’atmosfera generale e storica usata solo come sfondo ma un’attenzione puntigliosa e mordace sulla storia, sulla caratterizzazione dei personaggi e sull’azione. Il suo obiettivo è quello di velocizzare la narrazione di intrecciare il montaggio e di esasperare l’uso del parallelismo tra vicende per dare incisività alla pellicola in modo da coinvolgere il pubblico con intensità e stupore. Al centro del suo cinema due grandi temi che, in un modo o nell’altro, attraversano tutta la sua sterminata filmografia fino alla metà degli anni’60: la rivalità e l’amicizia virile. Temi che troveranno compimento nei western degli anni ‘40 e ’50 ma presenti sin dai suoi primi melodrammi cui fa parte il misconosciuto e sorprendente Regeneration (1915) frutto del suo praticantato alla scuola di David Wark Griffith. Personaggio scontroso e schivo, celebre più per i suoi eccessi che per il suo cinema, Raoul Walsh (“padre” di tanto cinema moderno – Peckinpah, Foley, Ferrara, Scorsese, Tarantino…) in realtà non è per niente dissimile dai protagonisti dei suoi film: amante dell’alcool e del gioco d’azzardo, ma anche abile cacciatore e discreto sportivo, al punto che spesso le lavorazioni delle sue opere si trasformano in vere e proprie avventure. Set pericolosi i suoi, in cui si può mettere a repentaglio la vita o trovarsi faccia a faccia con veri e propri malavitosi, con interpreti spinti fino al limite e abituati al rischio e all’imprevisto. Regeneration non fa eccezione, visto che sul set del film si trovano a “recitare” insieme sia attori professionisti che veri abitanti dei bassifondi di New York. Questi ultimi sono chiamati ad interpretare se stessi mentre la macchina da presa di Walsh si insinua, quasi si mimetizza, nella Bowery dell’East Side, “frugando” con sapienza e pudore nelle vite, nelle case e nel futuro di questi disadattati.

THE CHEAT (I PREVARICATORI, 1915) di Cecil B. De Mille

Cecil. B. DeMille: “Il pubblico ha sempre ragione. Faccio i miei film per il pubblico non per la critica.

 

La realizzazione di film della durata minima di 5-6 bobine, superiori dunque all’ora, a partire dagli anni ’10, allunga il periodo delle riprese, e impone la figura del regista (cioè di quello che all’epoca viene chiamato “Man behind the camera”); l’allungarsi della vita “del set”, trasforma la lavorazione di un film in qualcosa di avventuroso e imprevedibile, che nulla ha più a che fare con la quotidianità delle riprese di un giorno per i film da venti minuti. Per questi motivi, il regista si impone come figura “eroica”, al quale è demandato l’arduo compito di portare a termine il film che ha accettato di girare. Cecil Blount DeMille nasce il 12 Agosto del 1881 ad Ashfield in Massachusetts, e fin da piccolo entra in contatto con l’ambiente dello spettacolo, grazie soprattutto al padre Henry, insegnante alla Columbia University e predicatore di sermoni, il quale assieme alla moglie Mathilda scrive testi per il teatro. Nel 1900 il giovane DeMille inizia a scrivere per il teatro e a recitare assieme al fratello maggiore William. Attratto dal cinema, fonda una propria casa di produzione cinematografica, la “DeMille Play Company”. Nel 1913, dopo aver assistito entusiasta a The Great Train Robbery di Edwin S. Porter (1903), si unisce a Samuel Goldwyn e a Jesse L. Lasky e fonda la “Jesse Lasky Feature Play Company”, che di lì a poco diventerà la Paramount Pictures. A partire dagli anni ’20, dopo aver attraversato gli anni ’10 con una serie di commedie problematiche (ed ad alto tasso erotico, come Old Wiwes for new (1918) con Gloria Swanson) sulla relazione matrimoniale, inizia ad affermarsi come realizzatore di film biblici, solco nel quale proseguirà la sua carriera fino alla fine degli anni ’50. DeMille muore il 21 Gennaio 1959.

NANA (1926) di Jean Renoir

Belle Epoque: decadenza e sadismo

Nanà non è soltanto una creatura senza moralità, una donna perduta dai suoi vizi; è anche la personificazione del decadimento di una società. (Jean Renoir)

Jean Renoir individua in Nanà di Emile Zola l’opera che, tradotta per il cinema, può rappresentare per lui il definitivo salto di qualità come regista e, per il sotto-testo intrinseco al romanzo, la possibilità di raccontare la fine di un’epoca attraverso la metafora esistenziale dell’ascesa e caduta di una giovane donna. Il film che Renoir vuole mettere in scena è tanto ambizioso quanto costoso. Nanà (id., 1926), co-produzione franco-tedesca viene a costare un milione di franchi dell’epoca e viene portato a termine grazie al contributo di Pierre Braunberger, il titolare della Delog Film che mette a disposizione i suoi studi cinematografici per effettuare le riprese a Berlino. Durante i mesi che precedono l’avvio delle riprese, Renoir deve confrontarsi con due problematiche non proprio indifferenti: deve cercare gli interpreti e le maestranze che gli permettano di realizzare il film ma, soprattutto, deve confrontarsi con le difficoltà inerenti all’acquisizione dei diritti per la trasposizione cinematografica del romanzo. Nel 1926 l’opera di Zola non è ancora così conosciuta come lo sarà in seguito e pertanto il regista deve accordarsi con Jues Salomon, titolare dei diritti per il cinema, per una cifra di settantacinquemila franchi. La co-produzione, permette a Renoir di avere a disposizione un budget cospicuo, ma gli offre anche la possibilità di ottenere la distribuzione del film in Germania cosa che dovrebbe garantire al film un sicuro guadagno. Questa aspettativa viene ben presto frustata, perché nonostante il film ottenga il visto censura per la Germania il 22 Dicembre 1926 viene presentato a Berlino solo nel Febbraio del 1929.

MERRY-GO-ROUND (DONNE VIENNESI, 1923) di Erich Von Stroheim

Erich Von Stroheim: l’incompiutezza della grandiosità, il realismo “estremo”, il sadismo nei rapporti umani… quello che poteva essere e che non è stato….

 

Merry-Go-Round (Donne viennesi, 1923), ovvero “carosello”, lo stesso che Erich Von Stroheim è stato costretto a fare per tutta la sua carriera da regista, sulla “giostra” di Hollywood tra produttori presuntuosi e arroganti, tra manie di grandezza spropositate per un’azienda commerciale (come è il cinema), set abbandonati (o da cui è stato cacciato) e rulli di pellicola bruciati (per recuperare un poco d’argento) e espunti dalle versioni montate dei suoi film, quelle stesse che Von Stroheim ha disconosciuto cancellando il suo nome dai credits. L’esempio più fulgido del deturpamento artistico della sua opera, irreversibilmente manipolata dagli studios, è proprio Merry-Go-Round, film girato da Von Stroheim per tre quarti, prima di essere cacciato dal set da un giovanissimo Irving Thalberg, con l’accusa (infondata) di aver sperperato oltre $ 500.000 per i costumi. Oggi il film, sui titoli di testa della versione uscita nel 1925, porta la firma di Rupert Julian, un onesto mestierante chiamato dalla Universal per terminare il film. La coppia Carl Laemmle e Irving Thalberg, al comando della major si illude che, al nuovo regista, basti seguire la sceneggiatura dello stesso Von Stroheim per portare a termine il film nel migliore dei modi, mentre il montaggio, che nei credits porta la firma dello stesso Julian, viene in realtà portato a termine da Irving Thalberg, il quale è anche l’artefice del ridicolo e pessimo finale del film, che scardina completamente il senso dell’opera di Von Stroheim, ne mortifica le intenzioni artistiche e snatura la poetica e la drammaturgia dei primi cinquanta minuti di film (quelli diretti dal regista viennese), sostituendo con un sentimentalismo d’accatto e con un happy ending ridicolo e forzatissimo, il finale originale, girato (ma incompiuto) da Von Stroheim e mai montato in nessuna edizione del film.

A FOOL THERE WAS (1915) di Frank Powell

Vamp, Femme Fatale …Vampira: la prima della storia del cinema

A Fool There Was (id., 1915) di Frank Powell, è forse (molti film della Silent Era sono andati perduti) il primo film che affronta la figura del vampiro. Lo fa da un punto di vista “realistico”, quello della seduzione e della dipendenza che l’essere perverso instilla nelle sue vittime “inconsapevoli”. La dinamiche è duplice, da un lato quella della caccia, una pericolosa partita che si “gioca” tra inseguitore e inseguito, e dall’altra quella della partita a scacchi, in cui alle mosse del vampiro corrispondono gli errori della vittima. Non si tratta di vampiri in stile Nosferatu o Dracula, bensì dell’idea di vampiro-umano, quello che non sembra tale, ma che è rappresentato come una figura articolata del desiderio e che come tale si dissimula nelle pieghe della quotidianità. Quella di A Fool There Was è una donna-vampiro, una donna (volutamente) senza nome, ma anche senza né passato né futuro (che agisce solo in un presente necrofilo che è sempre tale), che possiede un potere destabilizzante e letale nei confronti della fragilità maschile.

SCHLOSS VOGELÖD (1921) di F.W. Murnau

Fantasmi da un passato poco conosciuto

Schloss Vogelöd è il film che precede Nosferatu – Eine Symphonie des Grauens (Nosferatu, 1921). Schloss Vogelöd appartiene a quella serie di opere meno conosciute del regista tedesco rislaenti al periodo in cui è sotto contratta con la Decla-Bioscop, periodo in cui, nonostante il successo di film come Der Gang in die Nacht (Il cammino della notte, 1920), non viene ancora ritenuto dalla critica un grande artista bensì solo un’interessante e promettente giovane di talento. Quello alla Decla-Bioscop è il periodo in cui F.W.Murnau affina la sua capacità, unica, di costruire, in situazioni normali e ordinarie (utilizzando gli elementi naturali, luce, aria, acqua…) un atmosfera carica di minaccia e di sfumature vagamente misteriosi e inquietanti.