Estratto del libro su LE SALAMANDRE (1969) di Alberto Cavallone
Le salamandre assume subito i toni di un affresco politico in cui il menage a trois è elemento puramente decorativo (dal punto di vista sentimentale) ed è elemento simbolico (dal punto di vista concettuale). I tre ruoli, infatti, appaiono perfettamente in linea con le volontà del regista: la fotografa, possessiva, spietata, dominante e bianca tiene alla catena la sua modella, schiava (inconsapevole), remissiva, riconoscente e nera, mentre lo psichiatra, elemento distonico, è la leva che mette in moto il processo di consapevolezza di Uta e, contemporaneamente, rappresenta il colonialista ipocrita che pensa solo a lavarsi la coscienza con la buona azione di turno. Non a caso è negli interni (l’abitacolo della vettura, il locale, l’appartamento nel finale) che la sua azione di “analisi” si fa più pregnante, quell’azione che Cavallone circoscrive in spazio oscuri e cavernosi, asfittici e claustrofobici in cui emerge la dimensione primitiva (e animale) dell’essere umano. L’azione dello psichiatra, poco alla volta fa emergere – in modo provocatorio – quella che secondo le tesi di Fanon appare come la naturale predisposizione alla sottomissione e al colonialismo del terzo mondo a cui dovrebbe corrispondere una sollevazione popolare, una rivolta che porti, attraverso la violenza, alla dovuta compensazione. […]