Febbre di vivere (1953) di Claudio Gora
Un cult-movie dimenticato… che anticipa gli anni del “Boom”
Un cult-movie dimenticato… che anticipa gli anni del “Boom”
Le traversie produttive, gli aneddoti e l’analisi comparata tra la sceneggiatura originale di Pier Paolo Pasolini e il film Milano nera di Gian Rocco e Pino Serpi.
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A seguito del grande successo riscontrato dal primo volume e in attesa del secondo – in fase di lavorazione – ITALIA: ULTIMO ATTO diventa un progetto multimediale. Dai primi di Ottobre è attiva la landing page del volume Italia: ultimo Atto. L’altro cinema italiano, di Fabrizio Fogliato. La pagina è la base di un progetto multimediale – e in divenire – che a partire dal 2016 si attiverà con presentazioni, proiezioni, convegni e rassegne, il tuttoi ncentrato sul cinema italiano censurato, nascosto, rimosso e dimenticato.
Continuano il grande interesse e dibattito attorno ad un libro asimmetrico e “provocatorio” come:
A seguire le recensioni del libro e il nuovo progetto web. Leggi Tutto
La donna, incarnata da Emmanuelle, con il suo essere fragile, confusa e spaesata in una società che viaggia al doppio della sua velocità, con il suo ritrovarsi immersa in una città plumbea e tentacolare in cui il sole fatica a penetrare la coltre di nubi e di smog, si sente soffocata dal rumore, dall’invasività e pervasività degli annunci pubblicitari, soverchiata dalla frenesia e dalla presenza incombente dei cartelloni pubblicitari al punto che è costretta a muoversi come un fantasma (ignorata da tutti): un essere spersonalizzato che deambula in un mondo troppo più grande della sua vita. La solitudine e l’anonimato nella metropoli emergono con forza attraverso l’estetica della donna che, stretta (stritolata), in un completo marrone si agita inutilmente nel vuoto della città, correndo, sfuggendo e nascondendosi non si sa bene da che cosa: non di certo qualcosa che è all’esterno bensì all’interno di lei. Il vuoto è riempito dal rumore assordante delle auto, degli annunci pubblicitari, del fragore delle manifestazioni, dei lavori in corso; rumore che penetra, frastornante, persino nel chiuso dell’appartamento e che nel corpo di Emmanuelle si traduce in dolore.
Un cinema italiano nascosto, rimosso, sottaciuto e bandito che diventa cartina di tornasole del “Paese reale”
La spiaggia è un luogo di prossimità. Un luogo popolato da persone diverse ma unite dal desiderio di evasione e di riposo. Apparentemente è un luogo in cui la vicinanza stimola la conoscenza, in cui ci si incontra (a volte anche a distanza di anni), un luogo temporaneo, in cui le giornate scorrono sempre uguali eppure sempre diverse. La spiaggia per gran parte dell’anno è un miraggio, un traguardo ambito per dimenticare tutto e tutti e per ricominciare da zero una micro-vita – a scadenza definita, quella della fine delle vacanze – che si riproduce per pochi giorni con persone diverse, con contatti che si sa essere temporanei e con il desiderio, contraddittorio, che quel periodo duri tutto l’anno ma altrettanto desiderosi che finisca il prima possibile. In questo luogo in cui il rapporto di prossimità è forzato, in cui non si può evitare di dire qualcosa senza che chi si trova affianco possa ascoltarlo, dove un gruppo di conoscenze si consolida nel tratto di spiaggia occupato da sdraio e ombrelloni, gli italiani, a partire dagli anni ’50 cominciano a ritrovarsi. In realtà, “la villeggiatura” agognata e ambita, progressivamente, diventa una riproduzione in piccolo e per un tempo limitato, di schemi, stili di vita e atteggiamenti che oltre ad essere non dissimili da quelli quotidiani di tutto l’anno ne diventano la propaggine estrema e oltranzista a causa della convinzione che la spiaggia non preveda né regole né limiti alla libertà personale. Uno sfogatoio in cui tutto è concesso, spesso tollerato, a volte persino stimolato dalle condizioni di vita che il luogo prevede. L’Italia di quegli anni ha una voglia matta di lasciarsi andare, eppure appare ancora imbrigliata ai gioghi della tradizione (utilizzati, ipocritamente, come paravento morale)
Anche durante l’estate non accenna ad arrestarsi il grande successo di:
A seguire le recensioni del libro. Leggi Tutto
Cálamo è Vanità: il film è un road-movie spirituale che contrappone da un lato il dubbio e il libero arbitrio del seminarista e dall’altro il “gruppo” (=società) con le sue certezze fittizie (e materiali) e le sue ipocrisie. L’abito del film è quello del travestimento che lentamente disvela l’“Essere” di uomini e donne. In questo Massimo Pirri è diretto sin da subito, nel mostrare – già dalla prima sequenza del film – lo scambio dei vestiti tra Riccardo e Stefania, nella sublimazione simbolica di un rapporto sessuale impossibile. In una società corrotta come è quella rappresentata nel film, il trasformismo non rappresenta l’eccezione bensì la norma. Lo dimostra il fatto che la tonaca da prete di Riccardo diventi oggetto di travestimento, maschera, gioco, persino dileggio da parte di tutti coloro che la toccano – escluso il suo legittimo proprietario. Riccardo, prete-bambino, nel film riveste (e incarna) questo duplice ruolo, agendo sulla sottile linea di demarcazione su cui si legge il libero arbitrio. Egli è un “povero Cristo” (nel senso letterale del termine) costretto – suo malgrado – a intraprendere una via crucis al termine della quale è prevista la redenzione ma è negata la resurrezione.
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Una volta raccontata la disillusione generazionale (Calámo) e la destrutturazione dello Stato (Italia: ultimo atto?), le attenzioni di Massimo Pirri si rivolgono al nucleo fondante della società: la famiglia. L’Immoralità è un’onda anomala di immagini desacralizzanti, che travolge e annienta i protagonisti del film, con un furore e una poesia senza precedenti. Avulso da ogni modello, imperniato sull’ossimoro come idea di sceneggiatura e diretto sul limite della follia, L’Immoralità è un gioco al massacro senza regole e senza via di fuga, né per i personaggi né per lo sguardo dello spettatore. Pirri dirige un Kammerspiel fiabesco che si svolge (quasi) tutto in una villa e nel parco adiacente, descrivendo un universo concentrazionario di cinismo, perversione e pietismo. Guardando il film si palpa materialmente la furia nichilista che anima il regista e si rimane sbalorditi dalla coerenza e dalla sincerità con cui questo autore, non allineato, centrifuga valori e disvalori, moralità e moralismo, orribile e meraviglioso. Sempre in bilico sul crinale dell’ambiguità – e giostrato con un ritmo lento e avvolgente che dilata a dismisura i tempi del montaggio – il film descrive una spirale di odio/amore destinata a chiudersi in un cul de sac caustico e irriverente.