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ABEL FERRARA. UN FILMAKER A PASSEGGIO TRA I GENERI su TAXIDRIVERS.IT

Intervista a cura di Gianluigi Perrone – 09 Marzo 2015

 

Il Critico Fabrizio Fogliato esplora nuovamente l’universo di Abel Ferrara con un saggio edito da Sovera dove ci si sofferma ampiamente e come mai fino ad ora sull’opera del regista newyorkese, includendo l’intera produzione, inclusa molta produzione spesso considerata “minore” o tralasciabile, ma che invece dipinge l’autore a tutto tondo. Impreziosiscono vari interventi di personaggi che hanno circuitato intorno all’universo Ferrara. Per saperne di più chiediamo alcune domande all’autore

 

leggi l’intervista integrale

FEMMES DE SADE di Alex De Renzy (1976)

Il carnevale infinito della società liberata

 

Il cinema di Alex De Renzy è un inno alla libertà. Il regista della west-coast costruisce film dopo film un mondo irreale, onirico, fantasmagorico, in cui tutto è possibile e in cui anche i lati più biechi e oscuri della natura umana diventano accettabili e giustificati. Definito a suo tempo dal New York Times come “Il Cecille B. De Mille dell’hardcore”, il regista di San Francisco, sin dal suo esordio affronta il lato perverso e “contronatura” della sessualità: in Animal Lover (id., 1971) attraverso uno pseudo-documentario delirante e irriverente cerca di dare spiegazione logica e “naturale” alla zoofilia, mentre il film che chiude il suo periodo più artistico e fecondo Long Jeanne Silver (id., 1977) ha come protagonista una bionda con una gamba amputata che usa il moncherino per regalare piacere sessuale ai suoi partners. Alex De Renzy, è un ottimo regista uno dei pochi nel genere in grado di sostenere con successo anche la regia di film “normali” (e non è casuale che nei suoi film l’hard abbia, in proporzione, sempre uno spazio ridotto rispetto alla narrazione), e uno dei pochi ad ottenere una recitazione misurata e credibile dai suoi performers. Aspetti questi che elevano il suo cinema, la cui cifra stilistica è quella del bizzarro spesa all’interno di una idea di società impossibile ma che prende forma e consistenza proprio grazie a quella “macchina dei sogni” che è il cinema. Nel suo cinema è negato il lato oscuro e problematico del sesso (in questo è l’esatto contraltare di Gerard Damiano), ma è presente solo una visione libertaria, ridanciana e carnevalesca dell’accoppiamento corporeo in ogni forma e declinazione indipendentemente dal genere e dalla quantità, e ogni violazione di questa regola deve essere sanzionata. Nel programmatico Femmes de Sade, le violenze perpetrate dal villain di turno vengono irrimediabilmente punite dalla società stessa in cui egli si è introdotto come un corpo estraneo violandone le regole e profanandone la “sacra” libertà, mediante un rito/orgia collettivo che si conclude con deiezioni di gruppo sul corpo del malcapitato lasciato a terra esanime e ricoperto di escrementi mentre una società colorata, multiforme e godereccia si allontana da lui facendo il trenino e cantando beffardamente “Bye Bye Rocky”.

REVOLUTIONARY ROAD di Sam Mendes (2008) – Parte Terza

Una famiglia… allo specchio…

 

Revolutionary Road è un film ben scritto anche per l’attenzione posta nei dettagli, come dimostra in questo caso il fatto che April non si accorga che Elen le dice “Sembravate” utilizzando un verbo di pura apparenza e pertanto nascondendo alla giovane donna la cruda verità: nella vita dei Wheeler e nel loro modo di fare non c’è niente di speciale, ma solo il più apatico conformismo. Non a caso i loro amici Milly e Shep si rendono subito conto di quanto sia ridicola la volontà di trasferirsi a Parigi. Anche loro evitano accuratamente di dirglielo, sottolineando con malcelato perbenismo, quanto siano contenti di questa scelta. Anche Milly e Shep non sono esenti dalla paura della solitudine e dell’abbandono, la loro prima preoccupazione è quella di perdere gli amici di sempre. Ma nella relazione di questa coppia c’ è un punto decisamente sconvolgente: il fatto che loro due e i figli siano già entità singole e separate. Non a caso i figli sono come “ipnotizzati” davanti alla televisione e non ascoltano neanche i richiami del padre, e la stessa Milly, prima di andare a letto scoppia in lacrime quando Shep le fa presente di quanto sia stupida la scelta di andare a Parigi. Nella fragilità di Milly c’è tutta la fragilità della donna degli anni ’50, supinamente appiattita sulle posizioni e sulle idee del marito, al punto che trovare da parte di Milly una comunione di idee sulla assurdità della scelta di Frank ed April, risulta per lei momento essenziale (al punto di commuoversi) della sua relazione con il marito.

REVOLUTIONARY ROAD di Sam Mendes (2008) – Parte Seconda

La lunga estate calda

 

In Revolutionary Road la destrutturazione familiare ha come apice il momento dell’aborto prima e della morte poi, ma in realtà è già in atto sin dal prologo, attraverso quel violentissimo dialogo sotto la luce flebile di un lampione, in cui Frank e April si rinfacciano addirittura delle mancanze e degli errori legati al loro genere di appartenenza: uomo e donna. Il problema viene quindi, accantonato prima, dilazionato poi e infine esplode in tutta al sua forza attraverso ( e questo è un vero colpo d’ “autore”) il monologo finale del malato di mente, John, il quale con semplicità e immediatezza traccia un quadretto senza speranza, sincero e sofferente di cosa sono (sempre stati) April e Frank e la loro “apparente” felicità familiare. Per descrivere questo momento cruciale Sam Mendes ricorre alla sua immagine iconica, quella con la famiglia seduta a tavola, perfettamente e simmetricamente inquadrata in campo medio con la macchina da presa fissa, ma questa volta la fissità del quadro mostra anche, in maniera netta incontrovertibile, la fissità dell’assenza di sentimenti, dell’aridità che abita in marito e moglie e della loro nevrosi troppo a lungo repressa. Il film di Mendes, concentra nel periodo estivo la fase montante della crisi.

REVOLUTIONARY ROAD di Sam Mendes (2008) – Parte Prima

Padre Nostro che sei nei cieli… dacci il nostro inferno quotidiano…

 

“Ho scelto quel titolo per suggerire come la strada intrapresa nel 1776 sia diventata col passare degli anni un vicolo cieco” (Richard Yates)

Sam Mendes firma la sua opera migliore con una regia misurata, tutta basata sul principio di sottrazione, meticolosa e puntuale nel sottolineare le crepe di una famiglia, una società e una nazione. Asseconda la meravigliosa sceneggiatura di Justin Haythe e traduce sullo schermo tutto l’impatto emotivo del romanzo di Richard Yates, con un rigore fino ad ora sconosciutogli, e costruisce una struttura narrativa scevra da ipocrisie, furberie e velleità. Attraverso Revolutionary Road, con il contributo determinate di Leonardo Di Caprio e Kate Winslet (nuovamente sul set insieme ad 11 anni di distanza dal Titanic), Sam Mendes mette in scene un racconto amaro e lancinante sul crollo delle illusioni. Sviscera il complesso emotivo-“rivoluzionario” degli anni ’50, ne mette in mostra una visione cruda e reale, ne esalta le contraddizioni, le ipocrisie e lo spaesamento post-bellico, ne denuncia il materialismo, il conformismo e la solitudine degli individui. Come il romanzo, anche il film manda in pezzi l’American dream attraverso una visione del futuro infantile e utopica, legata ad egoismi individuali, frutto più di frustrazione quotidiana che di desiderio di cambiamento. I personaggi di Revolutionary Road non sono bidimensionali (per la prima volta in Mendes): sono uomini e donne complessi, psicologicamente instabili, umani nelle loro sofferenze e nella loro rabbia repressa; perdenti consapevoli della disfatta imminente, anarcoidi sui generis legati ad un conformismo di convenienza e opportunità, ipocriti nel mostrarsi e bugiardi nel relazionarsi con gli altri (e tra loro).

ABEL FERRARA. UN FILMAKER A PASSEGGIO TRA I GENERI su POINTBLANK.IT

Recensione a cura di Giorgio Sedona – 22 Gennaio 2015

 

Tratteggiare il profilo di un regista così controverso ed espressivamente potente come Abel Ferrara in poche righe è impresa ardua e rischiosa. Un artista che con la sua personalissima visione del mondo è riuscito a concederci dei lavori d’intensa maestria e profondità. Acuto misuratore dell’animo umano, diviso tra il Bene ed il Male assoluti, tra la santità ed il peccato, tra la luce del giorno e la notte della strada, con il suo stile umorale, sgangherato ma pur sempre originale ha percorso, trasversalmente, quarant’anni di cinema americano.Fabrizio Fogliato con la sua monografia dal titolo Abel Ferrara – Un filmaker a passeggio tra i generi, edito da Sovera Edizioni, ripercorre la strada artistica del regista del Bronx partendo dal principio, dal cortometraggio Nicky’s Film (1971), che segnerà l’inizio della collaborazione con lo sceneggiatore Nicholas St. John – collaborazione che continuerà per molti altri film del regista – e terminando con il film 4:44 – Last Day on Earth (2011). L’autore ci accompagna nel percorso monografico in maniera attenta e puntuale, non tralasciando assolutamente nulla, conscio del fatto che Abel Ferrara è tanto materiale d’indagine, è un artista visivo poliforme che dimostra la sua visione del mondo non solo ad un livello puramente cinematografico, ma anche realizzando videoclip, cortometraggi, puntate seriali, autore di progetti poi non concretizzati; e per capire appieno Ferrara occorre conoscere anche cosa non è riuscito poi a realizzare, quelle opere in potenza di un regista maledetto.

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BUG di WILLIAM FRIEDKIN (2006)

Lo sguardo onnipotente dell’incertezza

 

Presentato a Cannes ’59, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, Bug di William Friedkin, è un lungometraggio livido e per nulla conciliatorio, che innesta un vortice delirante di paranoia patologica che trascina con sé persone, ambienti e psiche, impedendo di rintracciare coordinate chiare e percepibili, e facendo, ancora una volta, dell’ambiguità, l’unica chiave di lettura possibile. Un film che si confronta con l’orrore e la deviazione che possono insinuarsi in menti umane isolate dal mondo (nel film non compare alcun segno della tecnologia corrente; niente cellulari, solo un vecchio telefono di bachelite che squilla in continuazione) e costrette ad una condizione di vita disagiata. Bug è interamente circoscritto intorno all’unità di luogo, la stanza del Rustic Motel in Oklahoma; scelta che permette al regista di lasciare intatto fino alla fine l’interrogativo se le visioni (?) dei protagonisti siano vere o il risultato di manie di persecuzione, ma anche di innestare un discorso “politico” più ampio, riempiendo i dialoghi di riferimenti alla storia americana (recente e non), compreso il fuoco amico del “terrorista” che viene dall’interno (come gli insetti). Non appare casuale la citazione di Tim Mc Veigh, nel monologo di Agnes che anticipa la chiusura del film e che riassume in un delirio scoordinato e psicotico il percorso che hanno condotto lei e Peter fino a quel punto. Timothy James McVeigh è infatti, l’autore dell’ attentato di Oklahoma City del 19 aprile 1995, in cui rimasero uccise 168 persone, in quello che è stato il più sanguinoso atto terroristico perpetrato nel territorio degli Stati Uniti fino all’11 settembre 2001. Il nemico è dentro di noi (visibile o invisibile non ha importanza), questo sembra dirci William Friedkin con Bug, che non a caso reinterpreta e aggiorna attraverso la piece teatrale di Tracy Letts (che scrive anche la sceneggiatura del film), l’episodio da lui diretto per la serie “Ai confini della realtà”, nel 1983, sostituendo le sperimentazioni chimiche del diserbante Orange ed il gas psichedelico BZ, utilizzati dall’esercito durante la guerra del Vietnam con presunte sperimentazioni condotte sui soldati statunitensi durante la Prima Guerra del golfo.

ABEL FERRARA. UN FILMAKER A PASSEGGIO TRA I GENERI su SENTIERISELVAGGI.IT

Recensione a cura di Roberto Rosa – 22 Novembre 2014

 

La passione per il regista newyorkese è palpabile in Fogliato così come la profonda conoscenza frutto di anni di studi che gli permettono di non smarrire mai lo sguardo d’insieme nell’analizzare il percorso autoriale di uno dei più imprevedibili (e, va detto, anche discontinui) registi contemporanei attraverso tutte le sue opere. Edito da Sovera Edizioni.

Leggi l’intera recensione

GERARD DAMIANO’S PEOPLE (1978)

First Things First

 

Una settimana di lavorazione e un budget di 23.000 dollari, tanto ha richiesto il tournage di Deep Throat (quello di cui il suo autore disse: “Non è un film…è uno scherzo!”). Quando nel giugno del 1972 al Mature World Theatre di New York venne presentato Deep Throat (Gola profonda) di Gerard Damiano, il mondo del cinema e la società intera ebbero un sussulto. Il film incasserà dal 1972 a oggi, oltre 600 milioni di dollari, cifra che lo colloca a pieno titolo nella classifica dei dieci migliori incassi di tutti i tempi assieme a Titanic, E.T. l’extra-terrestre e Biancaneve e i sette nani. Quello che poteva diventare un elemento complementare del cinema mainstream, cioè il rendere esplicito all’interno della narrazione l’atto sessuale, venne ben presto fagocitato dalla logica commerciale e ostracizzato dal diffuso ma ipocrita perbenismo, spingendo la pornografia a chiudersi in un ghetto dorato. La pornografia rinuncia così ad essere narrativa e si auto-destruttura fino diventare oggi giorno: o semplice addizione di performance sessuali (i cosiddetti wall to wall) o a categorizzarsi in miriadi di sotto-generi per soddisfare ogni singola perversione. Nato nel Bronx 4 Agosto 1928 (e morto il 25 Ottobre 2008, a Fort Mayers in Florida), Gerard Damiano fino alla fine degli anni ’70 fa il parrucchiere nel Queens dove possiede con la moglie due saloni di bellezza. Nel 1968 poi, grazie ad un suo dipendente che frequenta il mondo del cinema, Damiano accetta di fare da truccatore ed estetista per alcuni film indipendenti. Poco alla volta si appassiona e impara il mestiere. Nel 1970 gira Sex USA, un filmino in 8-mm. sul nascente mondo del porno americano, firmandolo con lo pseudonimo di Jerry Gerard. Quindi fonda una sua etichetta indipendente: la Gerard Damiano Film Production Inc. Ne possiede la maggioranza, ma due terzi sono in mano alla famiglia mafiosa dei Peraino. Proprio da qui arriveranno i soldi per finanziare Deep Throat, e dall’incredibile successo del film avrà inizio la sua carriera come “autore” di film pornografici.

E quelli che gira fino al 1985 (anno di Cravings) sono veri e propri film narrativi, in alcuni dei quali vengono affrontate tematiche sociali, psicologiche e religiose, senza mai rinunciare alla recitazione e trasportando l’erotismo al di fuori delle scene di sesso: Damiano sa costruire con abilità una struttura pornografica superando di gran lunga il semplice film-pretesto di esibizioni hardcore. Tutto nei suoi film rimanda continuamente all’erotismo e nulla è pura parentesi, momento di stacco e di attesa tra un amplesso e l’altro: nulla cioè viene lasciato al caso, nulla viene subito come un momento inevitabile, una necessaria soluzione di continuità tra situazioni di pura esibizione genitale. (Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Laterza, Roma, 1987, p.328). Damiano dunque è autore a tutto tondo in un genere dove la critica, di solito, non ne riconosce, e Gerard Damiano’s People, film a episodi del 1978, oltre a rappresentare il momento-sintesi di elaborazione della sua ossessione registica (la fellatio), vuole essere un ritratto della società americana del tempo e un allegoria sul tema del desiderio. Un lavoro fortemente autoriale e personale (come ben dimostra il titolo originale), che pone il regista newyorkes di fronte al mettere in scena se stesso e nel trasformare il film in un vero e proprio flusso di coscienza. Il suo modo di intendere il cinema hard è espresso al meglio dalla sua viva voce: “Alcuni istanti, forse frazioni di secondo, prima dell’orgasmo, l’uomo assume un’espressione bellissima. I muscoli si contraggono, il respiro si fa flebile e ansimante, e sul volto la pelle disegna i tratti di una maschera inquietante, quasi espressionista. Per fissare questo momento unico e irripetibile giro sempre con due macchine da presa: una orientata sui genitali e l’altra fissa sul primo piano dell’attore, pronta a cogliere ciò che succede sul suo viso.(…) L’orgasmo è l’unica attività dove l’uomo non può mentire, perchè in quell’istante, anche per una frazione di secondo, il suo viso è privo di segreti” (in A.A.V.V. Diva Blue, Giugno 1986. trad. Fabrizio Fogliato).

leggi l’intero saggio, pubblicato il 14 Ottobre 2014 su rapportoconfidenziale.org

AMERICAN BEAUTY di Sam Mendes (1999) – Parte Seconda

Invito a cena …con cinismo

 

Atto I: Ritratto di una famiglia americana

Prima di tutto c’è un’immagine che colpisce: lo sguardo di Jane alla pagina internet sulla chirurgia plastica per rifarsi il seno, prima di uscire di casa per andare a scuola. Un frammento, una scheggia di desiderio, veloce e fugace, che lentamente con il proseguo del film viene meno grazie alla consapevolezza, che la ragazza acquisisce, in merito a se stessa e al suo corpo, lungo la strada della sua relazione con Ricky. Consapevolezza e desiderio, due parametri che stridono fortemente con l’immagine plastica della famiglia: quella che Mendes mostra attraverso un lento zoom in avanti, immersa in una atmosfera sospesa mentre i tre componenti sono seduti a cena; al centro del tavolo un mazzo di American Beauty ben illuminato da un fascio di luce, posizione di oggetti e persone perfettamente ordinata, la simmetria dello spazio delimitata dalla presenza delle candele, insomma il ritratto patinato della famiglia americana. Per mostrare che l’apparenza inganna Mendes ricorre alla presenza di un controcampo muto (mostrato attraverso la ripresa video della handycam di Ricky), in cui non c’è bisogno di parole per vedere come il rapporto tra Jane e suo padre sia irrimediabilmente compromesso e come la madre Carolyn sia totalmente impotente a causa della sua pochezza e fragilità.