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IL CONFORMISTA (1970) di Bernardo Bertolucci

Tra Alberto Moravia e Bernardo Bertolucci: anamnesi dell’inconscio, il telaio del mistero della caverna, architettura del mondo borghese e tradimento della messa in scena.

Il Conformista (1970), film di Bernardo Bertolucci, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Aberto Moravia, è opera autonoma con una sua espressività ed un suo linguaggio (cinematografico) specifico. L’intento del regista parmense, coadiuvato dal montatore Franco “Kim” Arcalli, è quello di infondere nello spettatore, lo spirito (e non la realtà) e l’atmosfera di un’epoca. Il Conformista evoca un “impressione di realtà” e, attraverso ogni aspetto filmico e narrativo, non tradisce mai questa idea di partenza. È dunque evidente che si tratta di un’operazione di stravolgimento (del romanzo, ma non solo) tesa a visualizzare l’immagine di un simulacro (il fascismo), che ha nel concetto di “normalità” l’adesione silenziosa e totalizzante a un sistema di regole anti-democratiche. Il protagonista, Marcello Clerici, convinto della sua “anormalità”, rivelata (apparentemente) da un episodio della sua infanzia, si inserisce volutamente in un sistema omogeneo e massificato in cui ogni diversità non solo non è contemplata, ma è perfino condannata.

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Per tutta la durata del film, la sua indole poggia in equilibrio instabile sull’ambiguità: egli è al contempo assimilato al pensiero unico e straziato dal dubbio: “Insomma, se il fascismo fa fiasco, se tutte le canaglie, gli incompetenti e gli imbecilli che stanno a Roma portano la nazione italiana alla rovina, allora io non sono che un misero assassino”. (Alberto Moravia, Il Conformista, Bompiani, Milano, 2005, pag. 244). Amara conclusione cui egli giunge dopo la caduta del fascismo la notte del 25 Luglio 1943, dopo aver intuito che, forse, il suo crimine di infanzia è vissuto solo nella sua testa, e che forse, la strenua corsa alla ricerca di una “normalità” omologata, è stata la negazione del concetto stesso di vita. Il suo rientrare nella “normalità” coincide con l’adesione alla polizia segreta fascista denominata OVRA. Scelta emblematica, visto che qui gli agenti non si sporcano mai le mani, non uccidono, ma si limitano a segnalare, e a fornire informazioni, in modo che altri portino a termine l’eliminazione del soggetto indicato.

IL PREFETTO DI FERRO (1977) di Pasquale Squitieri

Una guerra combattuta in prima persona in rappresentanza dello stato di diritto: un western duro, freddo e dal taglio futurista.

Girato con taglio americano, impregnato di umori nostrani, Il Prefetto di ferro, diretto da Pasquale Squitieri nel 1977 è un rarissimo esempio di film italiano con protagonista un eroe positivo. Cesare Mori, è un italiano tutto d’un pezzo, un uomo saggio e tenace pervaso da una profonda etica e da un senso morale legato all’essere un dipendente dello Stato. In sintesi, un uomo di Stato capace di interpretare e divulgare al meglio il rispetto della legge. Il Prefetto di ferro è un film in grado di colpire l’immaginario collettivo, allora come oggi, proprio grazie ad una messa in scena asciutta e raffinata costruita per lasciare ampio spazio alle gesta e al pensiero di Cesare Mori. Un film “americano”, che piace agli americani, al punto da essere invitato per una proiezione privata alla Casa Bianca, come racconta lo stesso Pasquale Squitieri:

Il film sbarca negli Stati Uniti per la Settimana del cinema italiano a New York. Tornato in albergo Claudia, Giuliano ed io, troviamo due funzionari della C.I.A. che ci dicono che il film Iron Prefect (Il Prefetto di ferro) è stato invitato dal Presidente Carter per una proiezione alla Casa Bianca (…) Noi rimaniamo sbalorditi da questa cosa, ma tutto va come previsto dai due funzionari e io mi porto dietro una cinepresa perchè dico: “Chi ci        crederà mai?”. Ci portano nella stanza del caminetto, dove ci mettiamo seduti, abbastanza           intimiditi, Claudia, Giuliano ed io e dopo un po’ arrivano Elizabeth Taylor, Gregory Peck, …insomma mezza Hollywood. Arriva il Presidente Jimmy Carter, me lo presentano, andiamo in proiezione. Proiettano il film, applausi e poi la cena. Poi andai a parlare col Presidente con quel poco di inglese che mastico, e ringraziandolo gli chiesi perchè mi aveva       invitato. Lui mi rispose che per la prima volta ha visto un italiano tutto d’un pezzo, un italiano di profonda onestà (…). inutile dire che di questo evento, che non si è mai più ripetuto, uscirono tre righe sul Corriere della Sera…” [Silvia D’Amico Benedicò, Gioia Magrini, Roberto Meddi, A proposito di …, Intervista a Pasquale Squitieri in Extra DVD Il Prefetto di ferro, Medusa, Milano, 2009]
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VINCERE (2009) di Marco Bellocchio

Saggio in due parti: iconografia del potere, fantasmagoria e suggestioni storiche in Vincere di Marco Bellocchio.

(Seconda parte)

Idiosincrasia del sentimento

Noi oggi conosciamo la vicenda de Il figlio “segreto” di Mussolini attraverso le lettere di Ida Dalser, la corrispondenza tra Arnaldo Mussolini e Riccardo Paicher, le missive di Giulio Bernardi e le comunicazioni cifrate della polizia segreta fascista. Le notizie dunque circolano velocemente – anche all’epoca – riservate, solo ed esclusivamente ai diretti interessati, ma in tutto ciò vi è una totale assenza di rapporti relazionali. Ciò che emerge dal quadro collettivo dei fatti è un’idiosincrasia verso qualsiasi forma di sentimento. In Vincere, quest’aspetto è sottolineato attraverso le dinamiche della struttura narrativa. Già la scelta di frapporre – all’interno degli stacchi tra le sequenze più importanti – immagini significative che mostrano le “future” compagne di prigionia di Ida Dalser nel manicomio di Pergine appare indirizzata alla necessità di porre lo spettatore in uno stato di inquietudine e malessere. Un malessere non definito, che anticipa emotivamente gli sviluppi narrativi, in cui le immagini di queste donne inquadrate e fotografate – come foto d’epoca incastonate nella memoria – compaiono per ben cinque volte nei primi quaranta minuti di film: dopo l’incontro sulla panchina, dopo il secondo amplesso, dopo lo scontro sotto le finestre de Il Popolo d’Italia, dopo il colloquio tra Ida e il cognato.

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L’ultima immagine, appare dopo il sequestro del figlio Benito Albino e mostra il volto tumefatto e sofferente di Ida. Il regista dunque “accompagna” lo spettatore verso un’estenuante discesa agli inferi del sentimento e della ragione umana. Non a caso la seconda parte del film si apre con un freddo e laconico comunicato, che vuole certificare il passaggio da essere umano a “merce”, di cui è vittima la giovane donna: “Ministero dell’Interno Direzione Generale P.S. Ieri 13 Febbraio 1920, Ida Dalser con suo figlio Benito Albino Mussolini è stata riaccompagnata nella casa di sua sorella Adele maritata Rag. Riccardo Paicher at Sopramonte sobborgo di Trento STOP temporaneamente tranquilla STOP ma data propensione alla fuga dimostrata negli anni passati detta Ida Dalser è sempre tenuta sotto stretta sorveglianza di notte e di giorno…”. La scena successiva è oltremodo esplicativa dell’intreccio tra vicende private e storiche in cui Ida si trova suo malgrado coinvolta: è il 1923 e a Sopramonte si attua un’incursione squadrista durante la festa del Partito Socialista; Ida osserva la scena da dietro i vetri di una finestra, mentre lo stacco mostra l’immagine della sua mano insanguinata relativa al primo incontro con Mussolini a Trento nel 1907. Il sangue della Storia è dunque lo stesso che macchia anche la sua vita, poiché ella è ormai sottomessa al dominio di un uomo “gigantesco”, come appare nella successiva scena ripresa all’interno di un cinema.

VINCERE (2009) di Marco Bellocchio

Saggio in due parti: iconografia del potere, fantasmagoria e suggestioni storiche in Vincere di Marco Bellocchio

 

Enigma Dalser

Nella vicenda Dalser, c’è qualcosa di indefinito e poco chiaro. Qualcosa che ha a che fare con gli aspetti più intimi e oscuri dell’animo umano ma anche con il groviglio di relazioni di potere che legano un capo e i suoi sottoposti. Sarebbe troppo facile e superficiale liquidare gli avvenimenti come un susseguirsi di eventi e di azioni determinate dalla volontà di Benito Mussolini. Ma come si può credere che colui che in quegli stessi anni è impegnato a “trasformare l’Italia”, possa occuparsi in prima persona di una vicenda privata (anche se non marginale) visto che in gioco c’è la sua credibilità e l’onorabilità della sua coerenza. È evidente che l’animatore della famiglia autarchica e numerosa non possa rischiare di passare per bigamo, soprattutto dopo la stipula dei Patti Lateranensi dell’11 Febbraio 1929 e di una ritrovata riconciliazione con il Papa e con la Chiesa oltre Tevere. È altrettanto evidente che il comportamento – impulsivo, al limite dell’isteria, tenuto in più occasioni da Ida Dalser, possa, in quell’epoca, essere facilmente considerato come folle – nonostante che lo stress e l’angoscia a cui la donna è sottoposta con scientifica continuità e premeditazione possa apparire come giustificazione più che ragionevole per i suoi comportamenti eccessivi, animati da un evidente, e mai sopita passione indomita per il duce del fascismo.

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I “delitti”, perchè di questo si tratta, che hanno per vittime Ida Dalser e Benito Albino Mussolini hanno come movente quello della necessità di eliminare due persone scomode – sono privi di un colpevole o più colpevoli identificabili, visto che il numero di persone coinvolte in entrambe le vicende sfiora il centinaio. Dai fatti, inoltre, emergono tutta una serie di ambiguità: dai medici non medici che stilarono le diagnosi, dalla segretezza con cui per anni sono state custodite le cartelle cliniche, dal coinvolgimento diretto de Il Popolo d’Italia come trait-d’union tra ordini superiori ed esecuzioni locali. È comunque, altrettanto vero che non può essere escluso a priori il coinvolgimento diretto di Benito Mussolini il quale è sicuramente imbarazzato dal fatto che in Italia una donna possa essere libera di dichiararsi sua moglie e un giovane ragazzo possa utilizzare il suo cognome come legittimo. Inutile ora, a distanza di anni cercare una strada alternativa per risolvere la questione, così come cavillare sull’intreccio di fatti, ordini e casualità che portarono agli esiti nefasti della vicenda. Quello che rimane nella memoria è la testimonianza indelebile di eventi delittuosi, di matrice politica, in quanto determinati da una o più scelte e mossi da una collettività eterogenea (che talvolta inconsapevolmente) agisce in un’unica direzione. Alla luce di tutto ciò, appare pertanto opportuno considerare come un solo film non possa contenere al suo interno tutte le sfaccettature, le cause e le conseguenze di questa triste vicenda. Vincere, di Marco Bellocchio, opera di fatto una scelta ben precisa: quella di ritrarre, liberamente, il profilo di una “eroina” da romanzo d’appendice, declinandolo su tinte fosche e plumbee, le stesse che attraversano come un basso continuo il susseguirsi degli anni nel ventennio fascista.