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Italia: ultimo atto

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L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Quarta

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Simona, vede usurpato il suo ruolo di “amante del mostro” e agisce di conseguenza: ingaggia con la madre un duello estremo che la porta persino a concedersi sessualmente ad un attonito Federico. Nel bagno – nascosto dalla furia dei rangers che vogliono ucciderlo – egli subisce la provocazione di Simona, che si sdraia nuda sul tappeto dicendogli: “Allora cosa aspetti…o hai paura di Vera”. In una scena che  non lascia niente all’immaginazione – ma che appare incredibilmente pura – Federico possiede Simona rinnegando (o trasformando) quel ruolo di “mostro” finora assunto per diventare un ridicolo (e impossibile) amante affettuoso e premuroso. Simona continua a studiare le mosse della madre e si ritrova a spiare l’amplesso tra lei e Federico. Sentendosi tradita, piena di astio e rancore, si reca al commissariato per denunciare entrambi. L’uomo di legge ottiene da Vera la possibilità di arrestare Federico, e per non denunciarla per complicità, baratta con lei un rapporto sessuale: “Ci si può mettere d’accordo su qualunque cosa e a qualunque prezzo”.

Nel finale, Simona scopre il suicidio del padre, prende una pistola e uccide a freddo il commissario e la madre mentre sono a letto, per poi  liberare Federico e allontanarsi con lui mano nella mano. Il lieto fine fiabesco sembra trionfare, non attraverso la consueta uccisione del cattivo, bensì tramite la sua “trasformazione”, e non a caso è lo stesso Federico che, mentre si allontana dalla villa con Simona, dice: “Arriva sempre il momento di partire. Molto più in là del parco, dove l’erba cambia colore e incominciano le strade, quelle grandi. Prenderemo quelle”. Ma l’uomo – ignaro della sorte riservatogli da Simona – non coglie l’ironia glaciale con cui la bambina gli risponde: “È là che mi aspettano… quelli della mia età”.Federico entra nella grande voliera e scherza con la bambina/donna che, silenziosa, mentre lui si arrampica, prende la mira e lo uccide facendolo precipitare al suolo come se fosse un uccellino.

Massimo Pirri, non ha mai concepito il lieto fine per il suo cinema, né tanto meno ha cercato una conciliazione con il pubblico ma ha sempre messo in pratica (conoscendola o no non ha importanza) la posizione di Theodor Adorno sull’happy ending cinematografico:Il cinema del lieto fine non prende posizione sul mondo, non pensa alle vittime della storia, non fa altro che generare un mondo illusorio sul quale acquietarsi.[1]; questo perché il suo cinema vuole essere disturbante, trasversale ai generi e alle classificazioni.

La Vigevano de L’Immoralitàè archetipo di quella provincia opulenta, bigotta e ostinatamente padronale che nel Nord industrializzato ha lentamente sostituito i valori di solidarietà, fratellanza e rispetto reciproco con una strisciante ed espandente immoralità latente fatta di individualismo, sfruttamento e silenzio. La “cultura del silenzio” che domina il film di Pirri appare pertanto congeniale alla metafora della grande voliera vuota, dove gli uccelli in gabbia sono i personaggi stessi, rappresentativi di una provincia al collasso in cui il “mostro” diventa normale e dove i “normali” nascondono la natura di “mostri”. Chiusi nelle loro case (la villa), spaventati dal prossimo e dal diverso, educati dalla tv (che da b/n passa a colori), schiavi del culto del denaro, gli abitanti della provincia coltivano, inconsciamente, il morbo dell’immoralità, tramandandolo di madre in figlia come arma di difesa verso un mondo che non riconoscono e da cui vogliono staccarsi con qualunque mezzo, consapevoli del fatto che sono loro stessi a crearlo.

La grande voliera diventa quindi allegoria di un mondo – sostituivo di quello contadino – basato sul profitto e sulla sopraffazione (anche all’interno della famiglia stessa), teso, irrimediabilmente, all’accumulo e all’ostentazione della ricchezza – elemento necessario a determinare lo status sociale. L’illusione eterna di voler “esser libera” (come dice Vera) non esiste, è un alito di vento che spazza via la felicità per far posto al rancore e all’invidia: i personaggi de L’Immoralitànon sorridono mai. Quello del film è uno spaccato dove il nemico interno diventa proiezione esterna del diverso. L’immoralità è un cancro, le cui metastasi nascono nel secondo dopoguerra, ma è con la fine degli anni ’60 e con l’arrivo del benessere successivo che la malattia sedimenta nel corpo di un Italia che ha bruciato le potenzialità di diventare civile, per cominciare ad essere quel paese mancato, abbruttito e degenerato che L’Immoralitàe il suo regista descrivono con lucida e inquietante profezia.

[1]Alessandro Alfieri, Benjamin, Adorno e la contemporaneità, in CineCritica n.50/51, Aprile-Settembre 2008, pag.64

di Fabrizio Fogliato

L’IMMORALITA ’(1978)

Regia/Director: Massimo Pirri
Soggetto/Subject: Massimo Pirri, Federico Tofi, Morando Morandini
Sceneggiatura/Screenplay: Massimo Pirri, Federico Tofi, Morando Morandini
Interpreti/Actors: Lisa Gastoni (Vera), Karin Trentephol (Simona, figlia di Vera), Renato Rossini [Howard Ross] (Federico Anselmi), Mel Ferrer (marito di Vera), Andrea Franchetti (tenente di polizia), Wolfango Soldati (Antonio, un giustiziere), Francesco Ferri (amico), Deborah Lupo, Ida Meda
Fotografia/Photography: Riccardo Pallottini
Musica/Music: Ennio Morricone
Costumi/Costume Design: Sergio Palmieri
Scene/Scene Design: Sergio Palmieri
Montaggio/Editing: Cleofe Conversi
Suono/Sound: Piergiuseppe Ghezzi
Produzione/Production: Ducale Film, Una Cinecooperativa
Distribuzione/Distribution: Una Cinecooperativa
censura: 72568 del 08-11-1978
Altri titoli: Perché Simona

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Terza

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Se in Grazie Zia il rifiuto del conformismo borghese e dei suoi stantii riti familiari passa attraverso la finzione di Alvise che si auto-dichiara paraplegico per cercare la sua nemesi – vedendo nell’eutanasia l’unica forma di “amore possibile” e l’unica risposta al suo desiderio di non appartenenza di classe – ne L’immoralità Simona non solo vuole vivere ma desidera – come dichiara lei stessa a fine film – raggiungere gli altri come lei. Dieci anni dopo il 1968 – in una società irrimediabilmente compromessa e corrotta – l’unica possibilità di raggiungere l’autonomia uscendo/sfuggendo dal conformismo é l’eliminazione sistematica di tutti coloro che, tradendo, rappresentano un ostacolo insormontabile. Uomini e donne che meritano di essere uccisi perché colpevoli di aver diffuso e alimentato il morbo dell’immoralità.

Immoralità che non esita a calpestare i sentimenti, e a negarli apertamente e cinicamente, con l’obiettivo, di ogni individuo, di dare un’immagine diversa da ciò che è, declinata secondo un “ideale” massificato. Esemplare a tal proposito appare il rapporto tra marito e moglie, mellifluo e fintamente affettuoso, percorso da improvvise scosse emotive animate da un cinismo barbaro e volgare. Quando Vera chiede al marito la firma di assegni in bianco, gli dice: “Pensa, con un bel colpo secco non ci saresti più. Io sarei ricca e libera e tu rosicchiato dai vermi”. L’Immoralità dunque, non solo ribalta le prerogative strutturali della fiaba, ma ne capovolge anche le aspettative emozionali: la fiaba, infatti, è al contempo, un racconto, sia ammonitore che finalizzato ad un insegnamento (o educazione), mentre il film costringe lo spettatore ad una visione sofferente ed epilettica, reiterando continuamente (e insistentemente) gli aspetti più deteriori e insani dei personaggi.

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Seconda

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Secondo “La morfologia della fiaba” di Vladimir Y. Propp, la fiaba deve iniziare con una situazione di partenza in seguito alla quale vengono elencati i membri della famiglia oppure viene presentato il futuro eroe secondo nome e condizione. L’immoralità invece, inizia in maniera opposta e antitetica presentando il cattivo in maniera simbolica e provocatoria. Il film si apre con una inquadratura dal basso che mostra un uomo con in braccio una bambina morta, un’immagine che già nella sua conformazione è, ontologicamente, pietistica. Quando quello stesso uomo, prima di allontanarsi velocemente con il furgone, però, seppellisce frettolosamente la bambina – e l’inquadratura mostra che ha le mutandine abbassate alle caviglie – ecco che quell’immagine primaria – che sembrava proporre una figura “buona” – diventa improvvisamente trasfigurazione di un “mostro”. Successivamente avviene la presentazione (per gradi) del nucleo familiare, ma il risultato è opposto rispetto alle volontà proppiane: quella proposta da Pirri è una visione spettrale della famiglia, che nulla a che spartire con l’immagine della fiaba. Il padre è costretto su una sedia a rotelle e vive in un mondo a parte situato ai piani alti della villa, la moglie Vera vive intenta a mantenere la tonicità del proprio corpo inteso da lei come lasciapassare sociale, mentre Simona è un misto di freddezza ingenuità sorrette da un animo torbido.

Il professore é una figura inesistente – per tutti tranne che per Simona – come sottolineato più volte dai personaggi del film. Per la bambina invece rappresenta sia il rifugio (ove cercare protezione) sia la conoscenza. E’ il padre che, all’inizio del film, fa le due affermazioni che guideranno l’agire di Simona. La prima é: “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. La seconda: “Per te Simona, il bosco è un luogo incantato…magico. Tu non ti accorgi di nulla di ciò che ti accade intorno, le lotte i conflitti, le tragedie. Il forte uccide il malato… o il più debole. Per sopravvivere…”. Il legame che intercorre tra padre e figlia – per quanto apparentemente labile e casuale – si rivela in realtà essere persino indissolubile: lo dimostra il fatto che la furia omicida e asettica della bambina si scateni alla vista del padre morto suicida. Sul tavolo di fronte a sé egli ha lasciato i due oggetti che lo rappresentano per tramandarli alla figlia: l’orologio che certifica che, ormai, non c’é più tempo e la pistola che indica la presa di coscienza e che é il momento delle decisioni irrevocabili.

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Prima

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

In una villa solitaria, posta in un parco a qualche chilometro di distanza dall’abitato, vivono la signora Vera (Lisa Gastoni), suo marito (Mel Ferrer) da tempo immobilizzato su di una sedia a rotelle e la dodicenne Simona (Karin Trentephol). Mentre la madre cerca evasioni con gli uomini dei dintorni e in casa passa il tempo a bisticciare con il marito, la ragazzina trascorre molte ore nel parco o nascosta in casa a spiare i genitori. Un giorno Simona si imbatte in Federico (Howard Ross [Renato Rossini]), un giovane ferito e inseguito perché ha ucciso una bambina dopo averla violentata. La piccola nasconde il fuggitivo, ma ben presto la madre si accorge della presenza dell’uomo e intreccia con lui una relazione. Vera, avendo capito di chi si tratta, ha la ben precisa intenzione di servirsi di Federico per eliminare il marito. Simona, maturata in fretta, desidera un figlio da Federico. La situazione precipita, anche perché i sospetti della polizia e dei “vigilanti” si stanno accentrando sulla villa.Una volta raccontata la disillusione generazionale (Càlamo) e la destrutturazione dello Stato (Italia: ultimo: atto?), le attenzioni di Massimo Pirri si rivolgono al nucleo fondante della società: la famiglia. L’Immoralità è un’onda anomala di immagini desacralizzanti, che travolge e annienta i protagonisti del film, con un furore e una poesia senza precedenti. Avulso da ogni modello, imperniato sull’ossimoro come idea di sceneggiatura e diretto sul limite della follia, L’Immoralità è un gioco al massacro senza regole e senza via di fuga, né per i personaggi né per lo sguardo dello spettatore. Pirri dirige un Kammerspiel fiabesco che si svolge (quasi) tutto in una villa e nel parco adiacente, descrivendo un universo concentrazionario di cinismo, perversione e pietismo. Guardando il film si palpa materialmente la furia nichilista che anima il regista e si rimane sbalorditi dalla coerenza e dalla sincerità con cui questo autore, non allineato, centrifuga valori e disvalori, moralità e moralismo, orribile e meraviglioso. Sempre in bilico sul crinale dell’ambiguità – e giostrato con un ritmo lento e avvolgente che dilata a dismisura i tempi del montaggio – il film descrive una spirale di odio/amore destinata a chiudersi in un cul de sac caustico e irriverente.

IL PREFETTO DI FERRO (1977) di Pasquale Squitieri

Una guerra combattuta in prima persona in rappresentanza dello stato di diritto: un western duro, freddo e dal taglio futurista.

Girato con taglio americano, impregnato di umori nostrani, Il Prefetto di ferro, diretto da Pasquale Squitieri nel 1977 è un rarissimo esempio di film italiano con protagonista un eroe positivo. Cesare Mori, è un italiano tutto d’un pezzo, un uomo saggio e tenace pervaso da una profonda etica e da un senso morale legato all’essere un dipendente dello Stato. In sintesi, un uomo di Stato capace di interpretare e divulgare al meglio il rispetto della legge. Il Prefetto di ferro è un film in grado di colpire l’immaginario collettivo, allora come oggi, proprio grazie ad una messa in scena asciutta e raffinata costruita per lasciare ampio spazio alle gesta e al pensiero di Cesare Mori. Un film “americano”, che piace agli americani, al punto da essere invitato per una proiezione privata alla Casa Bianca, come racconta lo stesso Pasquale Squitieri:

Il film sbarca negli Stati Uniti per la Settimana del cinema italiano a New York. Tornato in albergo Claudia, Giuliano ed io, troviamo due funzionari della C.I.A. che ci dicono che il film Iron Prefect (Il Prefetto di ferro) è stato invitato dal Presidente Carter per una proiezione alla Casa Bianca (…) Noi rimaniamo sbalorditi da questa cosa, ma tutto va come previsto dai due funzionari e io mi porto dietro una cinepresa perchè dico: “Chi ci        crederà mai?”. Ci portano nella stanza del caminetto, dove ci mettiamo seduti, abbastanza           intimiditi, Claudia, Giuliano ed io e dopo un po’ arrivano Elizabeth Taylor, Gregory Peck, …insomma mezza Hollywood. Arriva il Presidente Jimmy Carter, me lo presentano, andiamo in proiezione. Proiettano il film, applausi e poi la cena. Poi andai a parlare col Presidente con quel poco di inglese che mastico, e ringraziandolo gli chiesi perchè mi aveva       invitato. Lui mi rispose che per la prima volta ha visto un italiano tutto d’un pezzo, un italiano di profonda onestà (…). inutile dire che di questo evento, che non si è mai più ripetuto, uscirono tre righe sul Corriere della Sera…” [Silvia D’Amico Benedicò, Gioia Magrini, Roberto Meddi, A proposito di …, Intervista a Pasquale Squitieri in Extra DVD Il Prefetto di ferro, Medusa, Milano, 2009]
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BLUE NUDE (1977) di Luigi Scattini

Il sesso, la sua manifestazione più brutale (cioè la pornografia), e il coinvolgimento emotivo diretto destabilizzano le convinzioni di un uomo capace di ragionare solo ed esclusivamente in base ai suoi sogni

Quando Luigi Scattini, parte per l’America per girare quello che sarà il suo ultimo film da regista, Blue nude, il cinema hard in Italia cominciava a fare il suo ingresso e, proprio il 15 novembre 1977, una sala cinematografica di Milano, il Majestic, espone fuori dalla porta d’ingresso del locale una lampada con la luce rossa intermittente per segnalare il cambio di programmazione, aprendo, così, la strada alla proiezione di film “a luce rossa” (appunto) in tutta la penisola. Sono anni, questi, in cui il film hard circola clandestinamente in qualche cineclub (soprattutto Exhibition (1975) di Jean-François Davy con la star d’oltralpe Claudine Beccarie), alcuni amatori ne fanno richiesta via posta per ricevere carissimi loops in super-8 (provenienti dal Nord Europa della Danimarca e della Svezia) e dove riviste come “Le Ore e “Man” propongono le prime immagini di sesso esplicito su carta stampata.

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Aristide Massaccesi (Joe D’Amato) emigra nei caraibi e gira film con doppie versioni (soft e hard) per il mercato interno e quello estero prima di girare il pacchetto – di quattro film caraibici (a Santo Domingo) esplicitamente pornografici – che alla fine del decennio darà il via alla produzione dell’hard nostrano. Franco Lo Cascio si inventa distributore e comincia ad importare dall’estero pellicole a tripla “X” da distribuire in Italia in maniera clandestina e attraverso mille ostacoli e divieti. Resta il fatto che tutto questo riguarda una piccola nicchia di pubblico, mentre per la massa l’hard rimane qualcosa di misterioso e “leggendario”, legato ai racconti di quei pochi “fortunati” che hanno fatto viaggi nel Nord Europa o degli emigranti di ritorno dagli Stati Uniti. Ecco, quindi, che Blue nude di Luigi Scattini, oltre a spalancare le porte della produzione hard allo spettatore del tempo, diviene il primo film italiano ad affrontare l’argomento nonché un vero e proprio anticipatore di film come Hardcore (1979) di Paul Schrader.

LOS AMIGOS (1972) di Paolo Cavara

L’amicizia virile, l’eroismo silenzioso e l’avventura picaresca. Lo “spaghetti western” secondo Paolo Cavara

Uscito sugli schermi italiani il 29 Marzo 1973 (quindi nel periodo di estinzione del genere) Los Amigos si presenta come un western atipico, frutto di quella contaminazione crepuscolare divisa tra violenza e comicità. Originariamente, il film è destinato ad essere un’opera seria e puntuale sulle gesta del vero Erastus “Deaf” Smith – un personaggio di primo piano nella rivoluzione del Texas avvenuta a cavallo del 1830. Le esigenze della produzione appaiono per. Contrarie alla realizzazione di un prodotto serio (e quindi economicamente rischioso) nel momento in cui il crinale intrapreso dal genere poggia prevalentemente su caratteri comico-picareschi e, così, l’intero impianto narrativo viene via via destrutturato fino alla forma attuale che si regge prevalentemente sul rapporto tra compari: un eroe e la sua spalla. Nonostante queste defezioni strutturali il film – ufficialmente firmato alla sceneggiatura da Oscar Saul e Harry Essex – in realtà fruisce dei contributi (non accreditati) di Augusto Finocchi, Lucia Drudi Demby e dello stesso Paolo Cavara.

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“E’ una storia popolare. La storia di un’amicizia. L’amicizia è un tema che mi ha sempre interessato. E’ il modo in cui tentiamo di uscire dalla solitudine. E nel caso di questo film ha come sfondo proprio una condizione di solitudine tremenda. Il personaggio centrale, ispirato ad un personaggio storico eroe della guerra del Messico, Deaf Smith, è sordomuto dalla nascita, cioè condannato ad una solitudine tragica, il silenzio a vita. Forse per questo è diventato eroe, per esprimersi potentemente in una dimensione di oltranza, come nell’impresa raccontata dal film: tentativo quasi disperato di impedire un putsch nazionalistico nel Texas. L’impresa è l’occasione di mettere alla prova l’amicizia. Ears, il giovane compagno di Deaf, crede di essergli indispensabile. In realtà è affascinato da lui, tanto da quanto riceve. Si ha sempre bisogno di chi ha bisogno di noi, voglio dire. L’amicizia è una solidarietà nella lotta, nell’esistenza. Fino a che punto resiste? Fino a che punto riesce a non diventare una strumentalizzazione e una prevaricazione? Sono interrogativi che cerco di porre perchè per me fanno parte di un discorso più largo, il rapporto fra l’uomo e la società” (Paolo Cavara)

I PROSSENETI (1976) di Brunello Rondi

Un funerale collettivo, in cui tutti sono colpevoli…e nessuno è colpevole.

Prosseneta: Voce colta di origine greca; prosseneta significava in origine “aiutatore degli ospiti”, consigliere, guida, intermediario (nell’antica Grecia il pròsseno era il cittadino incaricato della protezione degli stranieri), mentre oggi sta per ruffiano e mezzano. I prosseneti, uscito nelle sale il 28 Aprile 1976 visibile oggi, solo grazie al passaggio in TV della durata di 90′ 32” (ma registrato in visto censura come 105′), è il decimo film da regista di Brunello Rondi: “Velleitario tentativo di denunciare la mercificazione di cui la donna è oggetto nella nostra società” (Centro Cattolico Cinematografico). Così il CCC liquidava questo film (centrando comunque appieno le intenzioni del regista) non tenendo in considerazione però che la denuncia della mercificazione del corpo femminile è solo una parte di quest’opera costruita narrativamente e figurativamente come una sorta di kemmerspiel esistenziale.

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L’unità di luogo, cioè la villa e lo spazio a bordo piscina in cui si svolgono gran parte delle azioni non potrebbero esistere se non attraverso l’astrazione di un non-luogo immaginario, in cui agiscono i vari personaggi. Il non-luogo prende forma attraverso le stanze della casa-teatro, raccontate come spazi scenici in cui ogni cliente replica (con tanto di maschere e scenografie) stati d’animo turbati e passaggi vitali colmi di rimpianto e mai riconciliati: in tutto ciò la donna assolve all’unico ruolo possibile (secondo la società dei consumi), quello di un essere taumaturgo in grado – con la sua sola presenza – di guarire, o meglio, temporaneamente alleviare le sofferenze di uomini psicolabili e insicuri. È la stessa contessa Gilda a dichiarare le intenzioni dell’agire suo e di suo marito: “Le nostre camere non devono più sembrare camere normali ma… teatri, quadri di illusione…”, così come più tardi sarà un cliente che, rivolto alla prostituta Odile, dirà: “E il mio teatrino…tu devi soltanto obbedire e basta”.

NEL GORGO DEL PECCATO (1954) di Vittorio Cottafavi

La gabbia della famiglia e le belve feroci che si sbranano

 

Le riprese del film, co-prodotto con la tedesca Eichberg-Film iniziano nel Gennaio del 1954. Presumibilmente la fase di post-produzione si protrae fino alla tarda primavera, visto che in quel periodo – a fine Aprile – viene stampata una copia del film con il titolo I due amori, mentre per i primi di Maggio è annunciata l’uscita del fotoromanzo che porta lo stesso titolo. Il 5 Luglio, la Itala Film comunica alla SIAE il cambiamento del titolo in L’amore si difende che diventa il definitivo Nel gorgo del peccato il 23 Luglio, quando ottiene il visto censura con il divieto ai minori di 16 anni. Condizione per l’uscita nelle sale, però, è che vengano tagliate alcune scene ritenute troppo erotiche. Il film viene proiettato la prima volta in pubblico il 30 Ottobre 1954.

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Nonostante l’apporto dei tagli, la produzione fa ricorso in appello per far togliere il divieto. Il 16 Dicembre la commissione mantiene il divieto assegnato al film ma chiede ulteriori tagli per mitigare ulteriormente la componente erotica. A Gennaio la produzione riceve le indicazioni della commissione ma il film, inspiegabilmente, resta fermo per altri mesi per poi vedere la luce della sala solo a fine Giugno 1955 a Firenze. Per ricoprire il ruolo della madre all’inizio viene chiamata Rina Morelli che nel film finito doppia l’attrice protagonista Elisa Cegani. Le riprese in esterni si svolgono tra Roma e San Felice al Circeo. Il budget complessivo è di 95 milioni, l’incasso definitivo arriva a malapena ai 50 milioni.

ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri (prefazione di Davide Pulici)

Rassegna Stampa – Estate 2016

A distanza di un anno dalla sua uscita il variegato mondo della critica sembra non voler distogliere l’attenzione da “ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri”(prefazione di Davide Pulici).

http://www.italiaultimoatto.it/

 

Nella storia del cinema italiano di Fabrizio Fogliato, ad esempio, non c’è spazio per i nomi che…”ci hanno sempre detto” essere la storia del cinema italiano. Niente Rossellini, De Sica, Visconti, Germi, Fellini, Visconti, Antonioni, Ferreri, insomma. Infatti Fogliato ha apostrofato il suo Italia: Ultimo Atto come l’altro cinema italiano. Un altro cinema, che molto difficilmente troverebbe spazio nei corsi universitari standard; e – o meglio, perché – un cinema altro, escluso dai canoni ufficiali in quanto impegnato a cercare strade non convenzionali, forse per la critica troppo poco intellettuali e grammaticalmente ortodosse ma non per questo meno coraggiose e, nei risultati migliori, meno riuscite. [cineclandestino.it]

Fogliato parte da Sole (1928/’29), film d’esordio di Blasetti, e Rotaie (1929) di Camerini (non proprio due sconosciuti, ma batta un colpo chi ha visto questi due film!), per arrivare – quando già imperversavano, come facce opposte di una stessa medaglia, la commedia scollacciata e le città violente, nere e a mano armata – a massimo Pirri, a cui giustamente dedica l’epilogo del suo viaggio. Finalmente diremmo, un’analisi del cinema di Pirri (significativa l’intervista a corredo) contestuale a un racconto dell’Italia e delle immagini d’Italia su grande schermo.
Un libro per chi non si accontenta dei racconti ufficiali. [cinequanon.it]

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